La bellezza nel Cristo Salvatore di Andrej Rublev[1]

 

Gianluca Busi

 

 

 

            Esposta alla Galleria Tretjakov di Mosca dal 1919, questa icona di Cristo fu dipinta agli inizi del XV secolo tra il 1410 1 il 1420[2] per la Deesis di Zvenigorod come i famosi Arcangelo Michele e il San Paolo Apostolo. Si presenta come estremamente corrotta: rimangono il volto e una piccola parte di panneggio. Fu ritrovata incidentalmente alla fine dell’Ottocento da alcuni ricercatori: veniva usata come asse di passaggio per accedere a una stalla, l’immagine era capovolta verso il basso, questo fa pensare che nessuno sospettasse che il tergo contenesse l’immagine, inoltre l’immersione in un terreno umido bagnato ha intaccato irrimediabilmente la superficie.

            La tradizione vuole che il Cristo dipinto su questa immagine sia stato comunicato ad Andrej Rublev direttamente da una rivelazione di Dio. La leggenda narra che l’iconografo fu testimone di un saccheggio nel suo villaggio di una banda di Tartari: visto un soldato che rincorreva una donna per farle violenza lo colpì con un sasso da dietro causandone la morte. Questo episodio segnò per sempre il temperamento raffinato e delicatissimo del Santo iconografo. Le leggende narrano che Andrej si ritirò in solitudine e si rifiutò di parlare e di dipingere per un periodo lunghissimo (per alcune versioni ventiquattro anni). Un giorno ebbe un’apparizione di Cristo, che gli si presentò non più come il Giudice ma come il Misericordioso: uscì dal suo stato di prostrazione e isolamento e si rimise a dipingere e la prima pittura fu appunto questo Cristo Salvatore eseguito con l’intento di raffigurare il più fedelmente possibile la visione di Cristo nell’atto di perdonarlo.

            Volendo descrivere l’immagine nel dettaglio possiamo avvertire quanto fossero familiari a Rublev i concetti fondamentali relativi al mistero di Cristo. La riflessione della Chiesa nei primi secoli stabilì che la natura divina non si mescola con quella umana, ma la eleva intimamente, e la persona di Cristo è il caso prototipico del modo attraverso cui la natura divina si accosta alla natura umana trasfigurandola dall’interno. È precisamente questo delicato equilibrio teologico che l’autore ha riportato nella sua intuizione creativa.

            Sono sufficienti due richiami in relazione all’immagine: il volto di Cristo lega la maestà e la perfezione della divinità evidenti soprattutto nella maestà e nella forza dello sguardo con la delicatezza e la remissività dell’umanità accennata dal sorriso carico di benevolenza. Un altro particolare è la mano benedicente[3]: accompagnata dal gesto del braccio ha un movimento particolare espresso con un segno grafico che ne accentua lo spostamento verso l’esterno. Nello stesso tempo, però, la fascia del mantello che incrocia il braccio non presenta il rigonfiamento che ci si aspetterebbe dal movimento del braccio stesso verso l’esterno. Al contrario la fascia trasversale è stata disegnata con segni netti che stringono e comprimono il braccio verso l’interno. Si viene così a formare un doppio movimento uguale e contrario in cui il braccio tende a uscire verso l’esterno mentre il mantello, trattenendolo, lo spinge verso l’interno. L’idea manifestata è quella di una forza straordinaria trattenuta con grande facilità. Viene sottolineato così il seguente paradosso: il Dio forte che “snuda la potenza del suo braccio”[4] si accorda con la debolezza di Gesù “mite e umile di cuore”[5], che esprime questa forza nella misericordia e nella benedizione.

            L’icona è dipinta con una tecnica e una concezione particolare: possiamo notare come la figura non abbia ombre. Questo perché le cose e le figure contenute nell’icona appartengono a una realtà “trasfigurata”, e non prendono luce dall’esterno ma contengono esse stesse luce. Questo concetto è un’eco di quanto si dice nell’Apocalisse: “Gli eletti vedranno la faccia del Signore e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli”[6], e di quanto la scrittura riferisce a Mosè: “Gli israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo volto era raggiante”[7]. Dal punto di vista pittorico questo è evidenziato attraverso particolari singolari. Dalle vesti trasparenti escono raggi di luce sempre più intensi fino ai tratti vivi di colore bianco puro nei punti dove la pelle tocca le parti di tessuto a maggior contatto con il corpo di luce.

            Questo fenomeno raggiunge la massima intensità nei volti. Il colore scuro della pelle e i colpi di luce intensissimi evidenziati per esempio negli zigomi, rendono l’idea dell’abbaglio che i nostri occhi hanno davanti a una sorgente luminosa troppo intensa. La tecnica è nota come “lumeggiatura”, e tenta di raffigurare lo splendore e la bellezza interiore dei corpi trasfigurati dallo Spirito. Inoltre, la figura non ha alcuni aspetti tipici della pittura come la costruzione dei volumi attraverso il chiaroscuro e la prospettiva: l’iconografia ricerca una diversa via per accentuare il fatto che ci troviamo di fronte a un corpo celeste che non segue la logica rappresentativa naturale. La profondità e il volume vengono raggiunti attraverso la sovrapposizione di colori molti leggeri e trasparenti e il movimento verso l’esterno viene sottolineato con lo spostamento dell’asse della figura verso sinistra nel cosiddetto “profilo avanzante”.

            Il Cristo Salvatore di Rublev ha un volto incantevole: quello è dovuto al raro equilibrio che si avverte fra bellezza tipicamente iconografica (bellezza interiore sovrabbondante che si trasmette figurativamente) e bellezza pittorica immediatamente fruibile. Per questo motivo direi che questa immagine, unanimemente riconosciuta come “bellissima”[8], è la “più bella icona” del Cristo che conosciamo, in essa infatti l’equilibrio fra concezione iconografica e bellezza godibile raggiunge il massimo vertice. Rublev riassume così in questa icona la tensione della tradizione verso la possibilità di rappresentazione del Cristo in una sintesi mai prima raggiunta, e che non conoscerà poi continuatori in grado di ritrovarla.

             La bellezza peculiare di quest’icona deriva quindi dall’insieme di tre aspetti che si integrano contribuendo a una sintesi mirabile. Davanti a questa immagine avvertiamo: una corretta teologia dell’incarnazione e la contemplazione “esistenziale” di questo mistero, una metodologia pittorica che raffigura l’immagine attraverso la singolare tecnica della lumeggiatura, che mostra analogicamente la divinizzazione dell’uomo sotto l’influsso dello Spirito; infine, un raro equilibrio tra bellezza sensibile intesa nella sua fruizione immediata e capacità dell’immagine di ricondurre alla contemplazione del mistero.

 

(….)

 

G. Busi mentre completa la doratura sull’icona del Cristo

            È interessante vedere come ci sia sempre stata una relazione stretta fra fede vissuta da una Chiesa e bellezza assegnata alle immagini, perché consente di stabilire quale sia il significato peculiare della bellezza in un’icona. Pur nella ricerca faticosa e costante di mantenere un contatto stretto con una corretta teologia e la tecnica pittorica peculiare della lumeggiatura, che non vennero mai meno, la bellezza di un’immagine di Cristo fu concessa o ricercata nella misura in cui poteva assolvere alla funzione ecclesiale della catechesi e della liturgia[9] in stretta relazione con il contesto storico-esistenziale cui faceva riferimento.

            Quando ci interroghiamo sulla bellezza peculiare di un’icona e ci troviamo di fronte a qualche perplessità dovremmo ricordare almeno questi principi elementari. Il termine bellezza legato a un’icona di Cristo si ricollega sempre alla compresenza di questi tre criteri: teologia compresa e vissuta, utilizzo della tecnica pittorica della lumeggiatura, equilibrio fra bellezza sensibile e possibilità di contemplazione. A questo si deve aggiungere la stretta connessione dell’icona con la vita di una Chiesa che vive la sua fede in un periodo storico ben definito, con le sue tensioni e la sua particolare visione del mondo, e ne incarna attraverso una raffigurazione lo stile, le tendenze, gli slanci e i timori.

            Ho giudicato l’icona del Cristo Salvatore come “la più bella” perché, oltre a riassumere in sé i criteri della bellezza tipicamente iconografica, si lega a un’audacia raffigurativa che indulge alla bellezza sensibile come non accade per nessun altro modello. Andrej Rublev ci parla in realtà di un iconografo che ha raggiunto i vertici della santità e che vive già nella sua interiorità la divinizzazione operata dalle divine energie spirituali. È dall’equilibrio dell’aspetto divino-umano che scorgeva dentro di sé che egli ha potuto dare forma all’icona del Cristo che noi possiamo contemplare. Essa ci seduce attraverso la bellezza sensibile per introdurci nel mistero del Cristo affinché, “riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore”[10]. 

  

 

 

 

Immagine : http://www.stgertrudes.org/News/Archive/news_archive_2006.htm

[1] Il testo è tratto dall’articolo di Gianluca Busi, La bellezza del Cristo nella tradizione iconografica, pubblicato in La Bellezza – PSV 44 (2001), Milano, 258-263.

[2] La più famosa la Trinità è un’icona più tardiva e viene comunemente datata come posteriore al 1422, anno della morte di san Sergio di Radonez. Andrej Rublev, nato nel 1360, muore verso il 1430.

[3] Che dobbiamo necessariamente immaginare, poiché l’icona è corrotta. Possiamo valutare con certezza comunque la forma mancante, poiché i continuatori di Rublev hanno ridipinto questa immagine. È possibile confrontarla con il modello del “Maestro” Dionisij.

[4] Cfr. Luca 1, 51.

[5] Matteo 11, 29.

[6] Apocalisse 22, 4-5.

[7] Esodo 34, 35.

[8] Questa immagine di Cristo incarna l’ideale di Cristo dei Russi. La sua bellezza e forza sono tipicamente russe e nel suo aspetto tutto è finemente tracciato. Abbiamo l’immagine di un Dio-uomo capace di “soccorrere e compiangere”.

[9] Si potrebbe anche dire che questo delicato rapporto sia stato sempre più violato dalla pittura occidentale e tante volte dalle icone latinizzate posteriori a Pietro il Grande. Queste raffigurazioni andranno progressivamente aprendosi verso una bellezza fine a sé stessa, e da una pittura funzionale all’esplicazione del mistero e all’adorazione si passerà a una pittura funzionale al godimento estetico.

[10] II Corinti 3, 18.

 

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