COMMEMORAZIONE

A. Schmemann


1

            “Che il Signore Dio si ricordi nel suo Regno, ora e sempre e nei secoli dei secoli”. Queste parole accompagnano il Grande ingresso e l’Offertorio. Sono queste le parole che al momento di offrire i doni il diacono proclama, che i sacerdoti si rivolgono l’un l’altro e indirizzano all’assemblea, e che questa infine riprende come risposta all’officiante.

            “Ricordati Signore…”. Si può dire, senza esagerazione, che la commemorazione, cioè l’atto di riportare tutto alla memoria divina, la preghiera diretta a Dio perché Egli si ricordi, costituisce il punto centrale della liturgia e dell’intera vita della Chiesa. Anche senza parlare dell’Eucaristia, che il Cristo ci ha comandato di celebrare “in memoria” di Lui (e torneremo sul significato preciso di questa commemorazione), poiché la Chiesa incessantemente, ogni giorno, si può dire ogni ora, commemora tale avvenimento, tale sacramento, tanto che questa ininterrotta commemorazione è l’essenza di ogni celebrazione liturgica. E se così è, noi dobbiamo interrogarci sulla sostanza di questa commemorazione. Tanto più che la teologia manualistica su questo tema mantiene un silenzio quasi assoluto, poiché essa non riconosce che metodi scientifici, non considera la nozione stessa di memoria come sufficientemente oggettiva e vi scorge degli elementi di soggettivismo e psicologismo antiscientifici. Oppure una interpretazione e ricostruzione della fede della Chiesa nella forma di una dottrina oggettiva, fondata su un corpus di testi, non lascia alcuno spazio alla memoria ed all’esperienza. Comunque, la commemorazione, fondamento della vita, della preghiera, dell’esperienza, si trova respinta fuori dalla visuale teologica.

            Per quanto strano poi possa apparire, è precisamente l’oblio della memoria che conduce la teologia ad una interpretazione psicologica della liturgia, interpretazione che si estende fino alla riduzione della liturgia ad un simbolismo esteriore ed illustrativo, che infine costituisce un grande ostacolo ad una interpretazione corretta e ad un’autentica comprensione nel campo liturgico.

            Se, da un lato, l’atto liturgico di commemorazione di uno e di un altro avvenimento è concepito oggi come una semplice meditazione psicologica o intellettuale sull’avvenimento stesso mediante il simbolismo del rito, e d’altro lato la preghiera di commemorazione viene considerata solo come una preghiera per altri, questo accade perché il vero significato della memoria e della commemorazione è stato dimenticato, significato che invece ci è stato rivelato nella Chiesa. La prima a dimenticarlo è quella teologia che si basa sui testi più che sulla memoria e sull’esperienza della Chiesa stessa. Per questo noi dobbiamo richiamare tale significato prima di tentare di comprendere il posto che la commemorazione occupa nell’Offertorio.
 

2

            Sono migliaia i libri che analizzano da tutti i punti di vista possibili questo dono misterioso, proprio soltanto all’uomo, che è la memoria, e sarebbe vano voler enumerare tutte le spiegazioni e le teorie. Sarebbe inutile perché, per quanto si cerchi di comprendere e di spiegare il senso e il meccanismo di questo fenomeno, il dono della memoria resta sempre inesplicabile e misterioso, e, si potrebbe dire, ambivalente. Quel che è certo è che la memoria è la facoltà umana di risuscitare il passato, di conservare in sé la conoscenza. Ma proprio qui risiede l’ambivalenza. L’essenza della memoria è il far rinascere il passato. Grazie ad essa io rivedo una persona che da tempo ha lasciato questo mondo, rivivo in tutti i particolari quel mattino in cui l’ho incontrata o definitivamente lasciata, sono capace di ricostruire fatti della mia vita creando una unità. Ma il passato non rinasce forse appunto come passato, come qualcosa di irreversibile, in modo che la conoscenza che di esso viene fornita dalla memoria è al tempo stesso la constatazione della sua assenza dal momento presente? Da ciò deriva la tristezza che sempre accompagna il ricordo. Perché, infine, non è altro che la coscienza del fatto della morte, coscienza propria soltanto all’uomo, del fatto che “la morte e il tempo regnano sulla terra” (Soloviev). Ecco perché il dono della memoria è ambivalente. Grazie alla memoria l’uomo fa rinascere il passato e al tempo stesso prende coscienza del carattere frammentario della propria vita, che “presa in un turbine, sparisce nelle tenebre”. L’uomo prende coscienza del carattere frammentario e irreversibile del tempo che presto o tardi finisce con l’oscurare, cancellare, estinguere completamente la memoria stessa, poiché si instaura il dominio della morte.

            E soltanto in contrasto con questa memoria naturale, questo dono peculiare dell’uomo, ma perciò stesso eminentemente ambiguo, che dona all’uomo la coscienza della propria mortalità prima ancora dell’esperienza della morte e gli fa vedere la vita come un cammino verso la morte, è possibile comprendere, o piuttosto percepire, tutta la novità della memoria e della commemorazione, che è da considerare come l’essenza della vita nuova a noi accordata nel Cristo. Rammentiamo qui che la teologia dell’Antico Testamento chiama memoria la cura di Dio verso la creazione, la potenza dell’amore e della provvidenza di Dio che mantiene in vita il mondo, tanto che la vita stessa potrebbe essere considerata come presenza nella memoria di Dio, per cui la morte sarebbe la ricaduta nell’oblio. In altre parole, la memoria, come tutto ciò che riguarda Dio, è realtà, è la vita che Dio concede e della quale Egli si ricorda. È l’eterna vittoria sul nulla, al quale Dio ci sottrae per farci entrare nella “sua luce meravigliosa”.

            Questo dono della memoria, come potere di trasformare l’amore in vita, in conoscenza, in comunione, in unità, è accordato da Dio all’uomo. La memoria dell’uomo è l’amore con cui egli risponde all’amore di Dio, è l’incontro e la comunione con Dio, vita della vita. L’uomo soltanto ha ricevuto il dono di poter ricordarsi di Dio e vivere di questo ricordo. Se nell’universo tutte le cose testimoniano Dio, annunciano la sua gloria e cantano le sue lodi, soltanto l’uomo si ricorda di Lui, e grazie a questa memoria, a questa conoscenza viva di Dio, percepisce il mondo come il mondo di Dio, lo riceve dalle sue mani e a Lui lo fa risalire. Se la presenza dell’uomo nella memoria di Dio è dono di vita, la presenza di Dio nella memoria dell’uomo è l’accettazione di questo dono di vita, l’adesione incessante a questa vita e la crescita in essa.

            Si può quindi comprendere che tutta la profondità, tutto l’orrore, l’essenza stessa del peccato si esprime, più che nelle innumerevoli definizioni scientifiche e teologiche, nell’espressione popolare: “l’uomo ha dimenticato Dio”. Perché nella concezione biblica della memoria di cui abbiamo parlato, nella concezione per così dire ontologica più che psicologica, dimenticare vuol dire soprattutto escludere dalla propria vita ciò che si oblia, cessare di viverne, distaccarsene. Non soltanto cessare di pensare a Dio, (perché un ateo militante è spesso posseduto dall’odio verso Dio, e ci sono anche persone sinceramente convinte di essere religiose mentre in realtà nella religione cercano tutt’altra cosa che Dio), ma distaccarsi da Lui, in quanto Egli è vita, cessare di vivere in Lui e di Lui. È in un tale oblio di Dio che è consistito e sempre consiste il peccato fondamentale, originale, dell’uomo. L’uomo ha dimenticato Dio perché ha concesso il suo amore e quindi la sua memoria e la sua vita intera ad altre cose, e soprattutto a se stesso. L’uomo si è distolto da Dio e Dio ha cessato di esistere per lui. L’orrore, il carattere irreparabile dell’oblio sta nell’essere, come la memoria, ontologico. La memoria fa vivere, ma l’oblio è la morte, o piuttosto l’inizio di essa, è veleno di mortalità. Contamina la vita e la trasforma irrevocabilmente e irreversibilmente in processo di morte. L’assenza di colui che si oblia diviene reale, la persona dimenticata è veramente assente dalla mia vita, non ne fa più parte, essa è morta per me ed io per lei. E se colui che io ho dimenticato è Dio, cioè il datore della vita e la vita stessa, se Egli ha cessato di essere mio ricordo e mia vita, la mia vita stessa diviene processo di morte, e la memoria, che è stata conoscenza della vita e forza vitale, si trasforma in conoscenza della morte e in costante ingestione del veleno della mortalità.

            Come l’uomo non è in grado di distruggersi, né di tornare al nulla da cui Dio l’ha tratto, così egli non può distruggere la memoria, cioè la conoscenza che egli ha della vita. Ma poiché la vita dell’uomo, dopo la sua rottura con Dio, si è colmata di morte e si è trasformata in processo di morte, così la sua memoria è divenuta scienza di morte, conoscenza dell’impero della morte sul mondo. Mediante la memoria egli aspira a risuscitare il passato, ad impedire che esso sia totalmente ingoiato dall’abisso del tempo, ma anche questa risurrezione si rivela precisamente come accasciante coscienza dell’irreversibilità del passato, coscienza dell’odore di corruzione che impregna il mondo. Nella cultura, nell’arte, nella religione di questa umanità veramente decaduta perché staccata dalla vera vita, “la vita come l’uccello raggiunto da una freccia cerca di salire, ma non è più capace” (Tiutchev). Questi slanci possono anche essere magnifici (e in questo mondo solo l’aspirazione alla vera vita, solo la memoria e il rimpianto di ciò che si è perduto, solo la “sublime tristezza” attingono alla vera bellezza), questi slanci possono restare nella memoria dell’uomo come sete, richiamo, pentimento o preghiera, e tuttavia, alla fine anch’essi piombano nell’oblio, così come alla morte dell’ultimo parente, dell’ultimo detentore del ricordo, le erbe selvatiche invadono la tomba accanto alla quale fino a poco tempo prima si udiva il canto del “ricordo eterno”, la stele si disgrega, diventano illeggibili le lettere dell’epitaffio, e, tremende e spoglie di significato, solo due date continuano ad indicare un’esistenza da tutti dimenticata e trascurata.
 

3

            E per questo la salvezza dell’uomo e del mondo ed il rinnovarsi della vita passano per la restaurazione della memoria come forza di vita e di ricordo, come vittoria sul tempo, il corso del quale disgrega la vita ed introduce l’impero della morte. Questa salvezza si compie nel Cristo. Il Cristo è l’incarnazione nell’uomo e per l’uomo, nel mondo e per il mondo, della memoria divina, dell’amore vivificante di Dio per i l mondo. Ed è anche manifestazione e realizzazione perfetta della presenza di Dio nella memoria dell’uomo, come contenuto, potenza e vita della vita. Incarnazione della memoria divina, perché se l’uomo ha dimenticato Dio, Dio però non si è dimenticato dell’uomo. Il corso stesso del tempo mortale è stato trasformato dall’interno per farne la storia della salvezza. Dio ne ha rivelato il senso che è attesa e preparazione della salvezza, della conoscenza, della speranza, dell’anticipazione, dell’amore. Perché all’avvento della pienezza dei tempi, cioè quando sarà compiuta la preparazione, l’uomo possa riconoscere Dio nel Salvatore, ricordarsi di colui che aveva obliato e riscoprire in lui la propria vita perduta. La restaurazione della presenza di Dio nella memoria dell’uomo attraverso la presenza dell’uomo nella memoria di Dio, questo è il senso dell’Antico Testamento ed è impossibile separarne il Cristo, conoscere il Cristo separatamente dall’Antico Testamento, che è tutto scoperta e riconoscimento progressivo del Cristo, memoria del Cristo prima della sua venuta nel tempo. E quando il vecchio Simeone riceve il Cristo nelle sue braccia e lo chiama “salvezza preparata dinanzi a tutti i popoli”, quando nel deserto del Giordano Giovanni il Precursore lo designa come “l’Agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo”, non si tratta di un susseguirsi di misteri e di miracoli inesplicabili, ma, è il vertice e il compimento di questa memoria del Salvatore e della salvezza, di questo riconoscimento progressivo in cui la presenza dell’uomo nella memoria di Dio si realizza come presenza di Dio nella memoria dell’uomo.

            La salvezza consiste nel fatto che in Cristo, perfettamente uomo e perfettamente Dio, la memoria è restaurata ed instaurata come potenza di vita, e che, rammentandosene, l’uomo accede non più all’esperienza della disgregazione e della morte, ma alla vittoria su questa disgregazione per mezzo della “vita vivente”. Perché il Cristo è incarnazione e dono all’uomo della memoria divina nella sua plenitudine, dell’amore divino per ogni uomo e per l’umanità intera, per il mondo e per tutta la creazione. Ed Egli è il Salvatore appunto perché la sua memoria è memoria di tutto, in essa integrando tutti gli esseri, a tutti donata affinché essi possano integrarla alla propria vita. Ma se il Salvatore è incarnazione della memoria divina, è anche manifestazione della memoria divina, manifestazione e compiutezza della presenza perfetta di Dio nella memoria dell’uomo, poiché in questa memoria, nell’amore, nella rinuncia a sé, nella comunione con il Padre consiste tutta la sua vita, tutta la perfezione della sua umanità.

            La memoria del Cristo che si realizza in noi mediante la presenza del Cristo nella nostra memoria costituisce l’essenza della nostra fede e della nuova vita che per essa ci è accordata. Fin dai primi giorni del cristianesimo, credere in Cristo voleva dire ricordarsi di lui e commemorarlo. Non soltanto avere conoscenza di Lui e del suo insegnamento, ma conoscere il Cristo vivente che dimora in mezzo a quelli che lo amano. Fin dal principio la fede dei cristiani era memoria e ricordo. Ma una memoria restaurata nella sua essenza vivificante, perché, al contrario della memoria naturale e decaduta e della sua illusoria rievocazione del passato, questa nuova memoria è la scoperta ed il riconoscimento, nella gioia, del risorto, del vivente, di colui che è presente e che permane in mezzo a noi, e, anche, non solo il suo riconoscimento, ma l’incontro e l’esperienza di una viva comunione con lui.

            Guardando ad un passato che è vita, la morte, la risurrezione dell’uomo Gesù sotto Ponzio Pilato, la fede non cessa di riconoscere che colui che essa ricorda è vivente, che Egli “è e sarà” in mezzo a noi. Questo riconoscimento non potrebbe avvenire senza essere ricordo, ma per essere ricordo deve essere anche riconoscimento di colui che è ricordato. Noi non siamo vissuti “nei giorni della sua carne”, sotto Ponzio Pilato, e per conseguenza non possiamo conservare la memoria o il ricordo degli avvenimenti svoltisi allora. Ma se attraverso una semplice conoscenza di quegli avvenimenti trasmessaci dai testi noi conserviamo ed evochiamo la sua memoria, se in questa memoria e in questo ricordo è l’essenza della nostra vita e della nostra fede, è perché Colui di cui ci ricordiamo è vivente e di tutto ciò che ha fatto “per noi uomini e per la nostra salvezza”, la sua vita, la sua morte, la sua resurrezione, la sua glorificazione, di tutto Egli ci ha fatto dono e continua a farcene dono e ad accordarcene la partecipazione. Non di un passato dunque noi ci ricordiamo, ma del Cristo stesso, e questo ricordo diviene per noi l’ingresso nella sua vittoria sul tempo e sulla frammentazione del tempo in passato, presente e futuro, ingresso non in una qualche eternità immobile e astratta, ma nella vita vivente, ove tutto vive nella memoria vivificante di Dio, dove tutto è nostro, il mondo, la vita, la morte, il presente, il passato, il futuro “poiché noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio”[1].

            Tale è l’essenza di questa commemorazione che, come abbiamo già detto, costituisce il fondamento della vita della Chiesa, e che si realizza soprattutto nella liturgia. La liturgia è la entrata della Chiesa nel tempo nuovo della nuova creazione, nel tempo ricostruito e unificato dalla memoria del Cristo, da lui trasformato in vita ed in dono di vita, salvato dalla frammentazione. Nella liturgia della Chiesa, che è il corpo del Cristo, vivente della sua vita e della sua memoria, ci è dato di ricordarci della creazione del mondo, della sua salvazione per opera del Cristo, e del Regno di Dio che deve venire nella gloria ma che è già stato rivelato nel Cristo, ci è dato cioè di apprendere e di riconoscere queste realtà come già compiute per noi, in noi, con noi, come già a noi donate. In altre parole, nella liturgia ci è concesso di ricordarci del passato e del presente in quanto viventi, in quanto donati a noi, in quanto si trasformano in nostra vita e fanno della nostra vita una vita in Dio.
 

4

            Soltanto alla luce di quanto abbiamo detto possiamo comprendere il senso di questa commemorazione quale espressione verbale del Grande Ingresso, della traslazione dei doni eucaristici sull’altare. Con questa commemorazione noi includiamo i commemorati nella memoria vivificante del Cristo, presenza dell’uomo nella memoria di Dio e presenza di Dio nella memoria dell’uomo, memoria duplice e una, che è precisamente la vita eterna. In Cristo noi offriamo gli uni e gli altri a Dio e riaffermiamo che colui che è commemorato e offerto è vivente, poiché dimora nella memoria divina.

            La commemorazione accompagna l’offertorio e fa tutt’uno con esso, ne è la realizzazione verbale. Poiché il Cristo si è offerto “per tutti e per tutto”, in se stesso ci ha tutti offerti a Dio, ci ha uniti nella sua memoria. Commemorare il Cristo vuol dire entrare nel suo amore che ha fatto di noi dei fratelli, vuol dire unirsi al “suo servizio dei fratelli”. Soltanto il nostro vicendevole amore, e l’amore verso tutti coloro che Dio ci manda facendoli entrare nella nostra vita, attesta che il Cristo è presente, che Egli vive in noi e in mezzo a noi. Questo amore è presenza degli altri nella nostra memoria e loro commemorazione nel Cristo. Per questo, offrendo il suo sacrificio, noi facciamo memoria gli uni degli altri, ci riconosciamo reciprocamente come viventi in Cristo e fra noi uniti in lui.

            Nella commemorazione non c’è differenza tra i vivi e i morti, perché “Dio non è il Dio dei morti ma il Dio dei viventi”[2]. E precisamente in questo consiste la gioia e la forza di questa commemorazione: nell’includere le persone commemorate nella memoria vivificante di Dio, la commemorazione stessa cancella la frontiera tra i vivi ed i morti perché tutti vi sono rivelati e riconosciuti come viventi in Dio. Nessuno infatti ai tempi della Chiesa primitiva avrebbe pensato di celebrare una speciale liturgia dei defunti (e tanto meno in paramenti neri!). Sarebbe stato impensabile perché in ogni celebrazione eucaristica, e appunto per questa inclusione di tutti nella memoria di Dio, si compie l’unione di tutti, vivi e morti, nella vita vivente. In questo senso ogni liturgia è anche una liturgia dei morti, perché ogni volta i doni della memoria e dell’amore del Cristo trionfano sulla morte, sulla separazione, sull’oblio. “Non ci sarà separazione, miei amici...”.

            Così, commemorandoci noi stessi, gli uni gli altri, in tutta la nostra vita, e riportando la nostra vita a Dio in questo atto di commemorazione, compiamo la nostra offerta. È la nostra offerta del Cristo a Dio, e il fatto che noi siamo offerti dal Cristo, che rendono possibile e compiuta la nostra commemorazione.
 

5

            Ed ora, l’officiante riceve i doni, li colloca sull’altare e li copre. Questo significa che il movimento visibile del pane e del calice, movimento nel quale noi abbiamo offerto i nostri doni a Dio, finisce e comincia l’elevazione (anafora) invisibile di questi doni, ed in essi della nostra vita, al cielo, in quel santuario celeste ove il Cristo ha elevato la sua umanità divinizzata. E come la nostra vera vita è “nascosta con Cristo in Dio”, così sono coperti e nascosti i nostri doni, nostro nutrimento e nostra bevanda terrestri. Il Regno di Dio non è di questo mondo, è invisibile per l’occhio terrestre, inaccessibile alla terrena intelligenza. Ma è precisamente verso quel regno dell’aldilà che noi cominciamo ora la nostra ascensione, verso la mensa alla quale il Cristo celebra una Pasqua eterna in compagnia di coloro che Egli ama.

            L’officiante colloca i doni sull’altare, che è l’immagine di quella mensa del Regno, li copre, li incensa. Poi egli rivolge a Dio la preghiera dell’offertorio e chiede che “i doni siano portati sul santo altare di Dio”, chiede che “siano graditi a Dio e che lo Spirito della grazia divina venga su noi, sui doni qui offerti e su tutto il popolo”.

            Con questa preghiera si conclude l’offertorio e noi passiamo con la Chiesa alla tappa successiva: l’elevazione.

 

Da “Messager Orthodoxe„; trad. J. K.
In “Messaggero Ortodosso„ Roma, giugno-luglio1985, n. 6-7, pp. 9-18.

 

[1] 1 Corinti 3, 22-23.

[2] Matteo 22, 32.

 

Pagina iniziale