LA MORTE DEI PADRI NELL’ANTICHITÀ MONASTICA
JEAN GRIBOMONT, O.S.B.
La Bibbia è sobria di immagini sull’escatologia individuale. Prima della manifestazione di Cristo, presenta con semplicità gli ultimi momenti sereni dei patriarchi o le ultime raccomandazioni di David, non esenti da un tantino di vendetta. Il vangelo concentra il suo messaggio su Gesù al Golgota, e gli Atti non evocano che la morte di Stefano. Degli apostoli non sappiamo nulla; non si è giudicato utile registrare per noi l’intimità del loro incontro personale con il Signore celeste. Tuttavia, poco a poco l’antichità cristiana ritenne di conservarci questi ricordi. Certo, non che il decesso sia un momento facile per far della retorica. Ma i figli delle beatitudini, che lasciano agire Dio nella povertà di spirito, nella purità di cuore, nell’attesa assetata di giustizia, possono edificare quelli che lasciano, senza preoccuparsi di impressioni pie.
A) LA MORTE DI AGATONE
Vorrei cominciare col racconto più breve, tolto dagli Apoftegmi. Si tratta dell’abate Agatone, che l’onomastica avrebbe dovuto mettere in testa, ma lascia la presidenza ad Antonio e Arsenio, figure eccezionali. Agatone era semplice e, senza dubbio, dobbiamo alla mediazione del discepolo Abramo, se la sua memoria non è andata perduta.
«Quando fu vicino alla morte, rimase tre giorni con gli occhi aperti, immobili. I fratelli lo scossero: “Padre Agatone, dove sei?”. Dice loro: “Sono davanti al giudizio di Dio”. Ed essi: “Anche tu hai timore, Padre?”. Dice loro: “Ho cercato finora con tutte le mie forze di osservare i comandamenti; ma sono un uomo. Come posso sapere se la mia opera è stata gradita a Dio? Una cosa infatti è il giudizio di Dio e un’altra quello degli uomini”. Poiché volevano interrogarlo ancora, disse loro: “Fatemi la carità di non parlarmi più, perché sono occupato”. E morì nella gioia. Lo videro salire al cielo nell’atteggiamento di chi saluta i propri amici»[1].
L’ultima riga non pare faccia allusione a una visione celeste, ma piuttosto all’addio percepito dai fratelli nell’ultimo istante, poiché l’insieme respira un robusto realismo, tutto di gioia e di umiltà. Non ci sfugge l’impressione che la premura troppo affettuosa dei fratelli infastidisca un po’ il sant’uomo. Chi non si sente vicino a lui, quando sollecita il silenzio, in questo momento di spossatezza in cui non chiede che di guardare il cielo, come lo fece a sua volta Martino di Tours?[2]
B) LA «DORMITIO» DI MARIA VERGINE
Un altro racconto del tutto apocrifo, ma che ha il suo significato. È uscito da un ambiente ascetico palestinese del 3° o 4° secolo ed è il più antico racconto dell’assunzione della Vergine. Quante iconi bizantine non hanno ripresentato con amore questa «dormizione»? I racconti invece, rimaneggiati continuamente e purgati dagli elementi arcaici, sono stati trasmessi molto male. È di recente che il P. V. Arras ne ha ritrovato il testo completo in etiopico. Mi servo di questo documento[3], talvolta correggendolo, seguendo testi frammentari molto più antichi. Il narratore descrive evidentemente una morte cristiana, ideale, tranquilla, in casa. La scena si svolge a Gerusalemme.
Un angelo, dalle sembianze di Cristo, viene a preparare Maria, e le porta una palma di vita proveniente dal paradiso terrestre, una specie di sacramento pieno di mistero. Spesso, nei racconti, troviamo questa preparazione remota, che vuole significare un’attesa colma di speranze, una meditazione dell’eternità, che non esclude la paura del giudizio, ma è una paura d’amore. Maria s’abbandona a una lunga preghiera, «Ti benedico, o Primogenito, Creatore...». Poi riunisce tutta la parentela, in una veglia affettuosa e fervente, in cui possiamo scorgere una pratica cristiana in cui si annuncia la morte. All’alba giungono gli apostoli dai quattro angoli della terra, ciascuno su una nuvola, in sante lacrime, quelle che non apprezziamo fuori di circostanza. Contestazioni di umiltà, predicozzi, preghiere, opere buone; vengono ricordate e applicate a questa visita divina le parabole del vangelo. Ed eccoci al punto centrale:
«Pietro si sedette al capo, Giovanni ai piedi; attorno al letto stavano gli altri apostoli. In quel momento ci fu un terremoto e si sparse odore fragrante come di Paradiso. Quelli che stavano accanto a Maria furono colti dal sonno, tranne le vergini».
La forma letteraria accumula meraviglie, ma non è forse per esprimere le emozioni profonde e diverse dei testimoni?
«Il Signor nostro Gesù Cristo giunse su una nube con angeli innumerevoli... Quindi anche Maria salutò e aprì la bocca dicendo: “Benedico colui che mi ha parlato e non mi ha ingannata. Chi sono io, poverella, per ricevere tanta gloria?”. Detto ciò portò a termine il suo compito, senza volgere il suo volto dal Signore. Questi ne prese l’anima e la consegnò a Michele. Voi, apostoli, avete visto, mentre lo spirito di Maria era consegnato a Michele, forma perfetta e santa, con il corpo sia di donna che uomo, con un’unica eccezione».
(L’autore apparentemente vuole eliminare dall’anima la distinzione del sesso).
Quantunque leggendario, questo racconto nutrito di preghiera vuole esprimere la confidenza e la pace di ogni anima verginale, quando Dio viene a cercarla. Lo sguardo concentrato sulla faccia del Signore fa eco, anche senza volerlo, al Cantico dei cantici. Tutto questo lascia nel lettore un conforto luminoso e gli suggerisce come accogliere questi ultimi momenti; ciò che avviene ancora, anche in occidente, con la festa dell’assunzione. Il privilegio della palma, l’anticipazione eccezionale della risurrezione, non tendono a isolare radicalmente la Vergine da questa attesa della risurrezione comune a tutti i fedeli; ne sono piuttosto il segno.
C) LA MORTE DI PACOMIO
I monaci vivendo in comune hanno più facilmente degli eremiti la fortuna di conservare il ricordo del decesso dei loro confratelli o dei loro padri. Prendiamo la vita di Pacomio e di preferenza la vita copta più prossima al fondatore e meno corrotta dalla letteratura. Il santo è morto nel 346 o 347; il biografo gli è legato da un profondo affetto. Il racconto del decesso pertanto non è assorbito solo dalla figura del morente e dai sentimenti ultimi che sfuggono certamente in gran parte ai circostanti (sebbene a varie riprese Pacomio abbia avuto l’occasione di esporli prima).
Piuttosto siamo testimoni d’un momento di crisi per la comunità, per il fatto che si tratta di un’epidemia dalla quale molti sono stati colpiti, e il problema della successione e della sopravvivenza della congregazione s’impone a tutti e prima ancora a Pacomio. È curioso vedere come gli avvenimenti si trovano implicati nel ciclo pasquale e liturgico; ci crederemmo quasi già a Maria Laach, o a fianco di dom Casel!
«La sua malattia si prolungava, e si era arrivati ai giorni della quaresima del Signore. L’ultima settimana di quaresima, mentre tutti i fratelli dei monasteri erano riuniti a Pbow per celebrare assieme la santa pasqua, un angelo venne da lui (diciamo, un presentimento) e gli disse: “Preparati, Pacomio, perché il Signore porterà via una grossa vittima dalla tua casa, il giorno della festa”. Pacomio pensò tra sé (e ne fece confidenza a qualche altro): “Forse il Signore mi visiterà il sabato della festa del Signore”. Durante i quattro giorni di pasqua, che passò senza mangiare, era nel dolore e sospirava interiormente, affinché l’unità della congregazione non si disgregasse. Il venerdì sera, riunì presso di sé tutti i fratelli e parlò loro, come un tempo Samuele aveva parlato al popolo per fargli le sue raccomandazioni... Mentre il nostro padre diceva queste cose, Teodoro era seduto a poca distanza, con il corpo raccolto tra le gambe, e piangeva. Apa Pafnuzio, economo generale dei monasteri e fratello di Apa Teodoro, era egualmente malato; la sera del sabato della festa del Signore, morì... Il numero totale di coloro che morirono di questa malattia fu, per quelli che morirono a Pbow, di circa centotrenta uomini. Pacomio era curato in tutto come gli altri fratelli, senza che vi fosse la minima differenza tra lui e loro, secondo le raccomandazioni che egli aveva fatto precedentemente. Nei giorni della pentecoste continuava ad essere malato. Tre giorni prima del suo decesso, comandò di riunire presso di sé tutti i grandi tra i fratelli».
Allora nominò il suo successore, anche lui malato, però e destinato a morire poco dopo. Non fu un segno di previdenza carismatica!
«Dopo tre giorni, il nostro padre mandò Teodoro a dire: “Smettete di piangere, perché a mio riguardo è giunto l’ordine, da parte del Signore, di andarmene dai miei padri”».
Notiamo la formula biblica, la quale evoca le prospettive dell’antico testamento. I padri di Pacomio erano pagani, e non è a loro che la congregazione doveva pensare. Sarà un eufemismo per significare una morte pacifica. Il testo aggiunge la preoccupazione di Pacomio per far nascondere la sua tomba, per paura di vederci alzare un martyrion; Teodoro promise di nascondere il corpo dopo il funerale, e lo fece fedelmente. L’assenza di una tomba per il fondatore – in Egitto! – sarà stato un elemento notevole, in una comunità così educata a vivere del ricordo dell’Apa.
«Dopo aver detto così, il nostro padre si assopì un momento e non parlò più a nessuno. In seguito, si segnò tre volte con la mano; immediatamente aprì la bocca, rendendo l’anima, il 14 del mese di pasons, alla decima ora del giorno. In quel momento, il locale fu sconvolto, al punto che tremò per tre volte. Molti anziani, che avevano frequenti visioni, raccontarono: “Abbiamo visto schiere di angeli, le une al disopra delle altre, che lo contemplavano”... Teodoro tenne le mani sugli occhi del nostro padre Pacomio per chiuderglieli, come Giuseppe (Gn 46,3-4). Tutti i fratelli si precipitarono su di lui piangendo; gli baciarono la bocca e tutto il santo corpo. Passarono il resto del giorno e tutta la notte a recitare le lezioni attorno a lui e davanti all’altare. Finita la sinassi del mattino, prepararono per la sepoltura il suo santo corpo, come quelli degli altri fratelli; poi offrirono per lui la prosfora. Dopo di ciò lo precedettero salmodiando, mentre lo si portava sulla montagna e lo si inumava, il 5 di pasons. Molti fratelli ritornarono dalla montagna con grande abbattimento e con atteggiamento umile; molti tra loro dicevano: “oggi siamo diventati orfani”»[4].
Questa narrazione mescola annotazioni «rituali» che danno una impressione di grande realismo, con qualche tratto agiografico, come il terremoto e la visione. Ma questi ultimi tratti sono convenzionali, e si possono attribuire ai testimoni stessi, e così non obbligano a supporre uno spazio di tempo necessario per l’elaborazione leggendaria. Il maggior testimone è Teodoro, che con la testa tra le mani, segue da vicino e raccoglie le ultime parole del santo, specialmente quel che riguarda la successione. Si rimane con una certa delusione perché l’ultimo respiro non sia stato più straordinario; così pure le ultime disposizioni. In effetti negli ultimi anni Pacomio temeva la concorrenza involontaria di Teodoro e si trovava a disagio nei suoi riguardi, malgrado la fedeltà quasi animalesca del discepolo. Queste disposizioni giocano in modo da imporre al racconto una certa sordina. Ma non è forse frequente che il momento del trapasso si circondi d’una bruma che tuttavia illumina il ricordo dei bei giorni passati? In compenso, il rituale è descritto perfettamente, e concorda con quello che s’intravvede nello svolgimento dei funerali dei fratelli, con salmi, l’eucaristia, lacrime e fede: è perfettamente monastico e umano, senza il formalismo inevitabilmente convenzionale, che oggi riusciamo ad evitare a mala pena.
D) LA MORTE DEL GIUSTO
Un’altra pagina delle vite, che non riflette se non da lontano l’esperienza concreta, rivela bene il mondo immaginoso dei copti e la concezione che in sostanza si facevano del passaggio all’aldilà. La scena si svolge nel monastero di Thmousons. Molti novizi non erano ancora battezzati, e per essi i riti di pasqua dovevano coincidere con la professione. Ma in quella circostanza un novizio muore improvvisamente, senza che lo si possa battezzare d’urgenza, mentre Pacomio e Teodoro tardano ad arrivare a causa delle preghiere e delle visioni che non possono astenersi d’avere al suo riguardo. Fortunatamente Pacomio vede che gli angeli lo hanno prevenuto e battezzato segretamente il morente, prima che lasci il corpo. Felici visioni, che tengono conto della misericordia di Dio e spazzano via gli scrupoli!
In questa occasione Pacomio confida a Teodoro come abbia «visto» la morte del giusto e dell’empio. Si resterà colpiti dal senso della gerarchia che imponeva questo ambiente egiziano, in cui il folklore angelico è talmente marcato del colore locale e si differenzia da quello dei libri della Bibbia, ivi compresi Tobia e l’Apocalisse.
«Ecco il modo con cui gli angeli di luce fanno visita ai fratelli moribondi. Se colui che sta per morire è un uomo buono, vengono a prenderlo tre angeli, in rapporto al livello della sua condotta. Se il moribondo è di grado elevato nelle pratiche di virtù, gli sono mandati angeli di grado insigne, per condurlo a Dio; se invece è di virtù mediocre, gli sono mandati angeli inferiori. Il Signore agisce così; affinché coloro che vengono a visitare l’uomo, lo tolgano dal corpo in maniera longanime, per paura che gli angeli molto elevati, venuti a prendere un fratello mediocre, non lo trattino nel modo usato dalle autorità della terra... I tre angeli mandati a prendere l’uomo non sono dello stesso grado, e obbediscono ciascuno a quello che ha il grado più elevato. Nel momento in cui il moribondo sta per spirare, uno si mette presso il capo, un altro vicino ai piedi, in atto di ungerlo d’olio con le loro mani, finché l’anima non sia uscita. Intanto il terzo stende un gran sudario spirituale, per accogliervi onorevolmente l’anima. L’anima di un santo appare bella e bianca come il latte. Appena essa è uscita dal corpo sul sudario, un angelo prende in mano i due angoli anteriori, un altro quelli posteriori; il terzo angelo cammina davanti cantando in una lingua che nessuno conosce; gli altri due ripetono “Alleluia”... Se si tratta di un’anima che ha male operato, al momento della morte, vengono due angeli inflessibili. Quando l’uomo è sul punto di morire e non riconosce più nessuno, uno degli angeli inflessibili si mette vicino al suo capo e l’altro ai suoi piedi, e lo frustano, finché la sua anima sta per salire. Mettendogli poi in bocca un oggetto ricurvo, simile ad un amo, la estraggono fuori del corpo. Essa appare nera e tenebrosa. La legano allora alla coda di un cavallo spirituale, poiché è anch’essa spirituale; e la conducono per gettarla nei tormenti o in fondo all’inferno, secondo i meriti delle sue opere»[5].
Peccato amputare la descrizione di questi due viaggi tipici nel mondo estraterrestre e molto edificanti; però non è più nostro argomento. Quanto al sudario e all’amo spirituale, Pacomio non ignorava che si riferivano un po’ da lontano alle rivelazioni cristiane, se vogliamo, al libro di Zaccaria. Ma non esprimono forse meravigliosamente l’abbandono nel trapasso, o al contrario la resistenza disperata dell’uomo terrestre davanti alla morte? Ed è forse sbagliato rappresentare l’azione divina per mezzo degli angeli?
L’arte dei primitivi, o i disegni dei bambini hanno spesso una forza di suggestione molto superiore al razionalismo neoclassico. Non trovo disdicevole queste visioni fantastiche come uno dei momenti della tradizione cristiana e monastica di fronte all’intensità del mistero della morte. Sì, mi rammarico di poter mettere in luce solo qualche tratto, e lasciare in ombra il quadro culturale, biografico, istituzionale, vigoroso e pieno di umana fraternità, nel quale forse questi tratti stessi si spiegherebbero.
Leggende analoghe hanno trovato il loro posto nel monachesimo occidentale. Così, nella nostra tradizione di famiglia, la colomba di Scolastica, il globo di fuoco di Germano da Capua, le braccia alzate e la scala gloriosa di Benedetto. Ma senza andare tanto lontano, mi augurerei che tra le ore più raccolte della mia vita monastica, richiamassi alla memoria quelle in cui recitavo, in ginocchio, ai piedi di un amico defunto, sereno e in pace nella sua cocolla, i salmi che egli stesso aveva sgranato lungo tutte le settimane della sua vita, e che prendevano una translucidità eccezionale nella Gerusalemme celeste.
Trad. di Silvestro Benassi (S. Pietro di Sorres)
[1] Agatone 29; cf. Mortari L., Vita e Detti dei Padri del Deserto, Città Nuova 1975, 122. Il testo è conservato già nell’Asceticon dell’abate Isaia (in greco, Discorso 30, 5) = Abbé Isaïe, Recueil ascétique, (trad. dei monaci di Solesmes), Bellefontaine 1970, 287. Nelle citazioni faccio qualche abbreviazione.
[2] Cf. Sulpizio Severo, lettera 3 a Bassula, 14-17; ed. Fontaine J., Vie de S. Martin, I, SC 133, Paris 1967, 340-342.
[3] Cito Erbetta M., Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, 1/2, Vangeli dell’Infanzia, Passione, Assunzione di Maria, Marietti 1981, 424 (n. 1), 429-430 (n. 36-38), 435 (n. 66-68).
[4] Vita copta di S. Pacomio, Praglia 1981, par. 118-123, pp. 207-215.
[5] Ibid., par. 81-82, 135-140.