DALLA FUGA AL DISPREZZO DEL MONDO

prospettive ascetiche occidentali dal Medioevo alla Modernità

 

Papa Innocenzo III in un affresco medievale

 

Nel corso dei secoli XI e XII si assiste alla nascita di un nuovo genere letterario, che divulga il tema ascetico del disprezzo del mondo. Il capolavoro di questo genere è Il disprezzo del mondo (De contemptu mundi) di Lotario di Segni, poi divenuto papa Innocenzo III. Un senso di angoscia e di disperazione, appena attenutato dalla speranza nella salvezza eterna, grava su quest’opera, che conobbe un immenso successo fino al XVII secolo, quando Pascal ne riprese la tematica in modo del tutto nuovo. Nel descrivere la miserabile condizione dell’uomo, corrotto dal peccato fin dal momento della nascita, il linguaggio di Lotario assume toni di allucinato e violento realismo che a tratti fanno pensare a un Góngora o a un John Donne: «L’uomo è putredine e il verme è il figlio dell’uomo... L’uomo viene concepito dal sangue putrefatto per l’ardore della libidine, e si può dire che già stanno accanto al suo cadavere i vermi funesti». Ci si può chiedere allora se il futuro organizzatore della crociata contro gli Albigesi non condividesse in qualche misura, nel suo intimo, la pessimistica visione catara di un creato in balia del Principe delle tenebre. Tale visione, ha marcato l’Occidente cristiano finendo per generare un’idea dualistica per cui spirito e corpo sono contrapposti come il bene al male e il corpo coinciderebbe con il male stesso. Tutto ciò, è profondamente distante dalla luminosa visione testimoniata nella maggioranza degli scritti patristici. Il pensiero di Lotario ha dunque contribuito a distanziare l’Occidente dalla serena prospettiva della Chiesa antica e dall’Oriente cristiano che la incarna al quale si attribuisce ancor oggi un “eccessivo ottimismo antropologico”.

Introduzione

“La putredine della materia, che è il sostrato di ogni cosa, è acqua, polvere, ossicini o fetida sozzura” (IX, 30). “Le vivande cotte ed altri commestibili del genere bisogna rappresentarseli quali il cadavere di un pesce, di un uccello o di un porcellino; e il Falerno quale succo d’uva; e la porpora quali peli di pecora bagnati nel sangue di una conchiglia; e il coito quale lo sfregamento di un budellino e l’emissione di un po’ di muco accompagnato da uno spasimo” (VI, 13). “In verità le cose che nella vita sono tenute in gran conto si riducono a vanità, o putredine di nessun valore; botoli che si addentano, bambocci litigiosi che ora ridono, poi tosto piangono” (V, 33).

Questi accenti sconsolati e disincantati, che ad un fuggevole sguardo sembrerebbero il frutto di cupe meditazioni del più “fosco” medioevo, alimentate e nutrite quotidianamente dalle fustiganti letture dell’Ecclesiaste, appartengono, invece, al saggio imperatore romano Marco Aurelio. Il tono delle sue parole non deve affatto stupire il lettore, poiché considerazioni così amare e piene di disinganno sono comuni alla variegata letteratura pagana tardo-antica come pure alla nascente letteratura cristiana. Infatti, la percezione immateriale della vanità del tutto, disagio esistenziale originato dall’inafferrabile e, quindi, vano divenire è un tema affrontato spessissimo sia dai filosofi pagani appartenenti a varie scuole di pensiero, sia dai Padri della Chiesa.

Per questi ultimi, però, la categorica asserzione della Scrittura: “Vanitas vanitatum et omnia vanitas[1], non vuole rilevare solamente l’inconsistenza di tutto ciò che scorre nell’impermanenza dell’oceano del cosmo, ma vuole pure indicare un altro genere di vanità, meno oggettivo, quello cioè del fissare una finalità alle azioni mondane degli uomini interamente prive di significato escatologico. Infatti gli uomini nel mondo si impegnano così seriamente nelle loro azioni quotidiane che distolgono lo sguardo interiore dell’anima dalla vera meta: l’illuminazione divina. Per questo l’agire umano è privo di consistenza e i frutti che ne derivano sono talmente vani da oltrepassare il concetto stesso di vanità, per cui dall’insegnamento dell’Ecclesiaste consegue che “non bisogna mirare a questa vita sensibile, la quale paragonata alla vera vita è come inesistente e priva di consistenza”[2]. Però, presso l’antica teologia monastica, a differenza di ciò che accadrà in seguito, il senso della vanità del tutto rimane ancora circoscritto e legato al contesto tematico della fuga mundi, attuata dal monaco nel deserto, e non si trasforma ancora in un implacabile contemptus mundi. Se, infatti, l’atteggiamento di fuga mundi può ritenersi frutto della tradizione monastica più antica, mantenendo perciò con essa rapporti di continuità, il contemptus mundi, invece, nasce e si afferma come un’esplicita risposta a un determinato periodo storico, ossia sorge come movimento di opposizione di uno sviluppo sociale in cammino verso la più completa secolarizzazione.

Per i Padri della Chiesa e per i grandi asceti del primo millennio, la fuga mundi non era dettata da un disgusto scaturito da un indomabile odio nei riguardi del mondo sensibile. La sua attuazione era originata da un atto di rinuncia delle gioie mondane e lanciava l’asceta nella lotta e nell’agone contro le immagini della mente, scaturite dalle passioni carnali radicate nell’animo umano, fino a quando egli non avesse conquistato la quiete interiore (hesychia)[3]. Il mondo era visto dall’anacoreta non con odio e con sprezzo, ma con compassione, poiché tutta la natura, avvolta dall’opacità causata dalla colpa originaria, gemeva per la sua condizione decaduta. La fuga mundi veniva, perciò, sperimentata come un esilio volontario, come un’esperienza di morte del vissuto che, rompendo ogni legame terreno, permetteva al monaco del deserto di accedere alla preghiera pura (cathará proseuché) e alla contemplazione divina[4].

Nella desolazione dei secoli caratterizzati dalle invasioni barbariche e durante la lenta ripresa della cultura europea, all’inizio del secondo millennio i termini fuga mundi e contemptus mundi assumono un identico significato[5], tendente a esprimere un ben preciso comportamento interiore nei riguardi del mondo quale luogo del peccato e dell’eterna perdizione dell’uomo, prima che questi rotoli repentinamente negli affollati abissi infernali.

Cilici e fruste, strumenti normalmente adoperati dai mistici occidentali per “sottomettere” il corpo. Gli strumenti in figura sono appartenuti a Veronica Giuliani, mistica francescana vissuta nel XVIII secolo per la quale i patimenti “sono cari per me, per dare gusto a voi, e per fare la vostra volontà”. Questi strumenti (non ancora abbandonati) suppongono una visione del corpo come un male che si oppone allo spirito. Anche in questo campo avviene l’indebito passaggio dalla fuga al contemptu mundi. Tutto ciò si colloca agli opposti della visione ortodossa cristiana.

Nel corso dell’XI e del XII secolo assistiamo a una vera e propria naissance, ricca di un variegato immaginario sulla morte, di un genere letterario altamente specializzato nel divulgare il tema ascetico del disprezzo del mondo, dapprima fra le mura dei monasteri e in seguito predicato fra i laici, soprattutto in epoca francescana. Questa letteratura nasce e si sviluppa in opposizione al mondo aristocratico e borghese, come reazione contro una cultura edonistica che sempre più si diffonde in Europa. Alla rivalutazione della vita terrena, alcuni ambienti monastici oppongono il tema del giudizio universale finale e delle raccapriccianti pene infernali nei loro aspetti maggiormente spettacolari. Infatti, “queste tematiche producono una sorta di potente drammatizzazione dell’esistenza, divaricata fra il peccato e la pena, la sofferenza e la redenzione, e sono entrambe ovviamente legate al motivo della morte. [...] La cultura ecclesiastica reagisce insomma al nuovo amore per la vita che si va diffondendo in quest’epoca soprattutto insistendo sul tema della morte, utilizzato da un lato per svalutare l’esperienza terrena... dall’altro per indurre alla conversione, al pentimento e al distacco dal mondo”[6].

I maggiori rappresentanti di questa letteratura sono: Anselmo d’Aosta, Herman Contract, Giovanni di Fécamp, Hélinant de Froidmont, Pier Damiani e altri. L’atteggiamento intransigente di quest’ultimo nei riguardi del mondo è sintetizzato nell’incipit della sua Vita Romualdi con queste parole: “Adversus te prorsus, immunde munde, conquerimur![7]. Da tutti questi autori il mondo viene concepito totalmente privo di una sua interna necessità, perché non gli viene riconosciuta una sua autonomia profana.

 

Il De Contemptu Mundi

Fra tutte le opere compilate nel corso dell’XI e del XII secolo, il capolavoro assoluto di questo genere letterario viene composto circa cento anni dopo Pier Damiani da Lotario di Segni, futuro papa col nome di Innocenzo III. È indiscusso il successo dell’opera nei secoli seguenti sino alle soglie del XVII secolo, cioè sino a quando Pascal non affronterà la medesima tematica in modo completamente nuovo[8]. Un elemento probante della sua diffusione è rappresentato dai numerosissimi manoscritti pervenutici (672) e dalle varie edizioni del testo, nonché dall’ammirazione espressa con devozione dal Petrarca e dal cardinal Bellarmino, il quale la adottò nei primi collegi dei gesuiti come libro di meditazione.

Il titolo dell’opera di Lotario è così formulato: De contemptu mundi sive de miseria humane conditionis. Con tale scritto l’autore si propone di descrivere “la pochezza della condizione umana”, come afferma nel prologo, “per umiliare la superbia, origine di tutti i vizi”, riservandosi in seguito l’onere di descrivere “la dignità della natura umana col favore di Cristo, affinché grazie al primo trattato il superbo sia umiliato e grazie al secondo l’umile sia esaltato”. Lotario, però, non poté mantenere il suo proposito, non solo per la sua precoce elevazione al soglio pontificio, ma pure probabilmente perché l’argomento della dignità umana non aveva una sua collocazione nella tradizione della spiritualità medioevale dell’Europa occidentale e quindi, a differenza del contemptus, la dignitas non aveva fonti autorevoli a cui alimentarsi.

Il cardinale Lotario nel De contemptu mundi, per non creare vane e illusorie speranze paradisiache nell’animo del lettore, entra subito in medias res con l’aiuto di un linguaggio asciutto e incalzante, rivelando un colorito gusto per la catalogazione. La miseria umana descritta da Lotario trova la sua auctoritas nei testi delle sacre Scritture e in quantità molto limitata nei Padri della Chiesa, negli autori scolastici e nei classici profani, i quali vengono utilizzati nell’ambito dell’insegnamento della morale. Non bisogna dimenticare che Lotario negli anni giovanili, durante il suo proficuo soggiorno parigino, aveva frequentato la scuola di Pietro di Corbeil, allievo di Pietro Lombardo, dove acquisì un’ottima conoscenza dell’esegesi biblica[9].

Il De contemptu mundi è un insieme di citazioni legate fra loro da una lucida trama ben finalizzata, tendente a proporre delle riflessioni impietose sulla miseria della condizione umana, poiché

l’uomo è nato per la pena, il timore e il dolore e, ciò che è più miserevole, per la morte.

Per questo motivo

egli commette azioni vane per cui trascura ciò che è serio, utile e necessario. Diventerà nutrimento del fuoco che sempre arde e brucerà senza mai estinguersi; alimento del verme che sempre rode e divora senza mai fine; ammasso di putredine che sempre puzza e che orrendamente è sozza[10].

Lotario, sebbene educato sin da giovane nella più rigorosa e austera disciplina claustrale nel monastero di Sant’Andrea al Celio[11] dall’abate Ismaele nelle lettere e nella salmodia, nella sua opera all’occorrenza non disdegna di far sfoggio, accanto alle gravi citazioni bibliche, di una buona cultura classica attraverso la viva voce di Orazio e di Giovenale, anche se i detti poeti sono utilizzati in contesti fra loro diversi, ma col medesimo fine morale, a seconda dell’opportunità del discorso. Stupiscono in particolare le frequenti citazioni di Ovidio, il più “galante” fra i poeti latini.

Sfogliando il testo, balza immediatamente agli occhi del lettore l’enorme florilegio di citazioni bibliche che l’autore sapientemente utilizza per fondare e dimostrare la sua concezione della caducità putrescente della natura umana. I testi dell’Antico Testamento più citati da Lotario di Segni sono, naturalmente, i libri sapienziali e quelli dei profeti, per non parlare dei salmi, spesso parafrasati; mentre del Nuovo Testamento l’autore cita maggiormente il vangelo di Matteo e di Luca, nonché l’Apocalisse. Tali scelte non sono per niente casuali: il vangelo di Matteo dimostra il legame esistente fra legge mosaica e legge della grazia, permettendo così a Lotario di sottolineare l’importanza della Chiesa quale istituzione monolitica che racchiude in sé le antiche prerogative appartenute al popolo di Israele. Quello di Luca viene utilizzato per insistere sull’universalismo dell’azione salvifica di Cristo cancellandone, invece, l’accento misericordioso che pervade ogni sua narrazione. L’Apocalisse si inserisce nella concezione millenaristica del tempo, come dimostrano l’abbondante letteratura e l’iconografia di questo periodo[12].

Fra tutti i testi biblici, il riferimento par excellence è il Libro di Giobbe, soprattutto nella prima e nell’ultima parte del De contemptu mundi, quando cioè Lotario con un malcelato sorriso di compiacenza descrive gli orrori del parto, i travagli della vita e la brulicante decomposizione della carne avvolta dal lezzo nauseabondo del peccato. Lotario, infatti, anche se non utilizza esclusivamente le affermazioni degli amici di Giobbe, sottili e insidiosi rappresentanti della tentazione diabolica, impiega tuttavia questo scritto biblico quasi in contrapposizione alle luminose parole della Sapienza quando essa proclama:

Dicono fra loro sragionando (gli empi) : la nostra vita è breve e triste : non c’è rimedio quando l’uomo muore; ... il soffio delle nostre narici è un fumo... La nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia. La nostra esistenza è come un’ombra, ma errano[13].

È sorprendente, infatti, come il tono di Lotario lo collochi dalla parte degli empi, cioè degli amici di Giobbe le cui parole subdole sono per Giobbe motivo di tentazione.
Il De contemptu mundi è un’opera di carattere rigidamente ascetico; in essa Lotario espone le sue tenebrose riflessioni, non prive di un certo sarcasmo, rivolgendosi non a un uditorio composto da monaci, ma da laici, affinché coloro che vivono nella sordidezza terrena riconoscano la propria insuperabile miseria, senza per questo poter sperare nella beatitudine eterna, trascurata per altro nella sulfurea prospettiva escatologica dell’autore.

Nel primo libro (De miserabili humane conditionis ingressu) Lotario descrive, con agghiacciante realismo, la miseria della condizione umana a partire dal momento in cui il neonato percepisce la fioca luce del mondo. Tale miseria esistenziale trae la sua origine dal fatto che

Duplice è la colpa che il concepimento comporta, una sta nel seme, l’altra in ciò che da questo seme nasce; la prima viene commessa e la seconda viene contratta. I genitori, infatti, commettono la prima colpa, la prole la seconda. Chi, infatti, non sa che il coito, anche se coniugale, non può mai verificarsi senza il prurito della carne, senza l’ardore della libidine e senza il fetore della lussuria? Per questo i semi concepiti insozzano, si macchiano, si corrompono, onde l’anima in questi infusa, contrae la tabe del peccato, la macchia delle colpe, la sozzura dell’iniquità[14].

Per questo motivo, infatti, il neonato viene al mondo e alla vita (“gravis necessitas et infelix conditio!”) già preda del peccato ancora prima di peccare e dell’errore ancor prima di errare. Secondo il suo cupo pessimismo, la nascita, e di conseguenza la vita terrena, è causa dei laceranti dolori e delle affannose preoccupazioni che proiettano l’uomo nel mondo esteriore per consumarlo in azioni insensate. L’infelicità della condizione umana si manifesta sin dal momento del parto perché quando nasciamo gemiamo “per esprimere le miserie della nascita”[15]. Gli affanni della vita si protraggono poi nelle varie fasi dell’esistenza umana e sono equamente suddivisi fra tutti gli uomini, padroni e servi, maritati e celibi, giovani e vecchi, anche se ognuno li percepisce in modo differente dato che ogni esperienza è personale. La condizione dei servi, ad esempio, è miserabile perché è contro natura in quanto

la natura li ha generali liberi, ma la sorte li ha fatti servi. Il servo è costretto a patire e non si ammette che nessuno ne abbia compassione, lo si costringe a soffrire e non si permette a nessuno di soffrire con lui[16].

Però, anche quella del padrone, in rapporto a quella dei servi, è una condizione umana miserabile:

se egli è crudele, i servi, depravati, come sono, lo rispettano e lo temono, se è clemente è disprezzato dai suoi sottoposti, che si fanno sfacciati. Il timore, perciò, affligge chi è severo, il disprezzo degrada il mansueto, infatti la crudeltà partorisce l’odio e la confidenza il disprezzo[17].

In questa prima parte dell’opera è interessante rilevare che tutte le miserie umane narrate con crudo realismo da Lotario, sono sempre poste in rapporto al mondo esteriore, luogo dove l’uomo tende sempre di più a identificarsi e a rispecchiarsi narcisisticamente per potersi riconoscere.

Nel secondo libro (De culpabili humane conditionis progressu)[18], Lotario espone con intento etico la classificazione dei sette vizi capitali derivanti dalla medesima catalogazione elaborata da papa Gregorio Magno nei Moralia in Job: “superbia, invidia, ira, tristitia, avaritia, gula, luxuria”, dove scompare la vanagloria (kenodoxìa) e la superbia viene collocata all’inizio della lista[19]. Nella classificazione di Evagrio Pontico (IV secolo), invece, come pure presso altri padri del deserto, la superbia è collocata all’ultimo posto: infatti per il monaco essa sopraggiunge al termine del cammino ascetico, una volta che gli altri vizi sono stati debellati[20].

Lotario di Segni, coerente col suo ideale progetto di riforma ecclesiastica, tendente a rafforzare il peso politico del papato e a rinnovare la Chiesa ormai libera da ogni vincolo feudale, secolarizza i sette vizi capitali proiettandoli dalla sobrietà claustrale nello spettacolo dell’esteriorità mondana, dove l’uomo realizza le diverse forme della propria vanità[21]. Nella seconda parte dell’opera l’autore vuole dimostrare che l’uomo è l’artefice della propria miseria e delle proprie pene e nell’analisi minuziosa che compie dei vari vizi egli manifesta un acuto spirito di penetrazione psicologica, acquisito probabilmente durante gli anni di lavoro trascorsi in Curia papale. Vi aveva fatto ingresso in età giovanile, forse come “uditore” di un cardinale, e una volta divenuto giudice ebbe una così riconosciuta fama di equità da essere soprannominato, eletto in seguito papa, “Salomone III” in luogo di Innocenzo.

Per Lotario lo sviluppo colpevole della miserabile condizione umana deriva dal fatto che

gli uomini di solito sono presi sopratutto da tre cose: le ricchezze, i piaceri e gli onori. Dalle ricchezze derivano malvagità, dai piaceri indecenze, dagli onori vanità,

e per questo motivo

la concupiscenza della carne appartiene ai piaceri, quella degli occhi alle ricchezze, la superbia della vita agli onori. Le ricchezze generano appetiti e avidità, i piaceri partoriscono la gola e la lussuria, gli onori allevano la superbia e l’ostentazione[22].

Nel De contemptu mundi la colorita descrizione dei peccati di cui l’uomo è facile preda (avarizia, incontinenza, lussuria, orgoglio, vanità ecc.) si esaurisce nello scoppiettante spettacolo infernale, perché all’autore il peccato, come pure i vari vizi, non interessa come psicomachia, ma solamente nel suo aspetto pubblico e spettacolare. E ciò diviene maggiormente evidente quando Lotario parafrasa verdetti cupamente morali di Seneca e di Tertuliano, senza mai citarli direttamente.

Il primo, caro per altro all’accigliato africano, diviene la fonte di Lotario quando egli tratta il ricorrente tema della brevità della vita, oppure dell’insensatezza dell’agire umano e del suo esaurirsi in vane e dispersive occupazioni. Tertulliano, invece, viene utilizzato quando parla del cultus superfluo con cui ci si orna per mascherare lussuosamente la decomposizione materiale che il trascorrere degli anni rende irreversibile. Nel terzo libro Lotario adopera liberamente Tertulliano, in modo forse troppo vistoso, quando descrive il variegato spettacolo infernale scrutando le terrificanti torture, imposte impietosamente ai peccatori, non come fosse dalla parte dei beati, come fece già Agostino e come farà Tomaso d’Aquino, bensì da quella dei dannati, i quali frementi di angoscia e ricolmi di ira sono costretti a osservare la beatitudine eterna degli uomini santificati[23].

Il terzo libro (De damnabili humane conditionis egressu) inizia con la descrizione della morte e, qui, l’autore sostiene l’opinione di alcuni teologi del suo tempo secondo cui in punto di morte Cristo appare a ogni uomo offrendogli la possibilità di salvezza eterna. In queste pagine il tono dell’autore si tinge con i medesimi colori degli affreschi del suo tempo rappresentanti realisticamente scene tratte dalle pagine dell’Apocalisse, pregni di una indicibile ansia escatologica. Dice agli uomini, nel giorno della morte:

le ricchezze non vi gioveranno, gli onori non vi proteggeranno e gli amici non vi favoriranno.

Dove andranno a finire

vi sarà pianto e stridore di denti, gemiti e lamenti, ululati e tormenti, stridore e grida, timore e tremore, dolore e pena, ardore e fetore, oscurità ed ansia, durezza ed asprezza, sciagure e miseria, angoscia e mestizia, oblio e confusione, torcimenti e punture, amarezza e terrore, fame e sete, freddo e calura, zolfo e fuoco ardente nei secoli dei secoli[24].

La parte iniziale e terminale del De contemptu mundi pone in luce l’angosciata e sinistra visione di Lotario nei riguardi del peccato:

l’uomo è putredine e il verme è figlio dell’uomo. Che padre indecente e che abominevole sorella! L’uomo viene concepito dal sangue putrefatto per l’ardore della libidine, e si può dire che già stanno accanto al suo cadavere i vermi funesti[25].

Infatti, nel suo scritto egli non si pone minimamente il problema della grazia divinizzante quale fonte di salvezza, oppure quello della misericordia divina, perché il suo implacabile concetto di giustizia sembra ignorare del tutto ogni possibilità di esistenza del perdono di Dio. Essendo l’uomo corrotto ab initio (non ricordandosi, però, Lotario che l’uomo è stato creato senza peccato), nel corso della sua esistenza terrena non ha alcuna possibilità di salvarsi in quanto sin dalla sua nascita egli eredita una duplice colpa: la propria e quella dei genitori, i quali gli hanno dato la vita mentre erano storditi e avvolti dal fetor luxuriae.

Per questo motivo il termine conditio, disseminato sapientemente nel testo con differenti significati (vita umana, condizione umana e creazione), offre una chiave di lettura del fosco immaginario di Lotario che porta a intravvedere, sotto il suo purpureo paludamento cardinalizio, un’intima convinzione che tutto il creato sia in balia del Principe delle tenebre, ignorando i versetti del salmo ripetuti settimanalmente nell’Ufficio di Prima che dicono: “Caeli enarrant gloriam Dei, et opera manuum ejus annuntiat firmamentum[26], e svalutando così, seppure indirettamente, la Creazione quale opera di Dio. Per questo motivo sorge spontaneo un dubbio completamente privo di intento polemico: proprio il persecutore più acerrimo dell’eresia catara – si pensi all’impietosa crociata da lui organizzata contro gli Albigesi che determinò il crollo della splendida civiltà provenzale – sarebbe stato inconsapevolmente intaccato da una sfiducia per la Creazione di vago sapore gnostico.

Ciò che si è detto, anche se è difficilmente dimostrabile, non è affatto nuovo poiché il medesimo sospetto raggiunse anche il grande inquisitore catalano Nicola Emmerich (m. 1399). Infatti, quando egli sfogliò il testo del De contemptu mundi mostratogli da un prelato della Curia papale avignonese, fu preso da curiosità alla vista di una noticina, posta in margine a un foglio, che diceva: “Nonnulla male assonantia prima facie”. Allora da un’accurata analisi dell’opera l’inquisitore, coadiuvato dal suo spirito professionale, rilevò errori e imprecisioni teologiche generati dal cupo e irremovibile pessimismo di Lotario, come egli stesso sottolinea nel suo Correctorium correctorii[27].

Renato D’Antiga

(Tratto da: Lotario di Segni, Il disprezzo del mondo, Pratiche editrice, 1994, pp. 9-21)


Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/lotario.htm

 

[1] Ecclesiaste 1, 2.

[2] Gregorio di Nissa, Omelie sull’Ecclesiaste a cura di S. Leanza, Città Nuova, Roma 1990, p. 46. Questi due aggettivi sono stati impiegati dal Nisseno in tutto lo scritto per qualificare il concetto di vanità; corrispondono agli epiteti greci: anyparktos kaì anypóstatos.

[3] Nilo di Ancira, Discorso sulla Preghiera, in Filocalia I, a cura di M.B. Artioli e M.F. Lovato, Gribaudi, Torino 1982, p. 279. Sull’esicasmo e le sue vicende cfr. R. D’Antiga, Gregorio Palamas e l’esicasmo, Paoline, Milano 1992.

[4] Symeon Le Nouveau Theologien, Chapitres théologiques, gnostiques et pratiques a cura di J. Darrouzes, Sources Chrétiennes, Paris 1957, pp. 76-77.

[5] J. Delumeau, Il peccato e la paura. L ’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 21-22. Si vedano anche R. Bultot, La doctrine du mépris du monde en Occident, de saint Amhroise à Innocent III, Louvain-Paris 1963-1964; B.M. Boltron, Via ascetica. A Papal Quandary, in AA.VV., Monks, Hermitas and the Ascetic Tradition, Blackwell, Oxford 1985, pp. 161-191; G. Cremacoli, Exire de saeculo, Rari Nantes, Roma 1982, p. 141; R. Grégoire, Il “Contemptus Mundi” ricerche e problemi, “Rivista di storia e letteratura religiosa”, V (1969), pp. 140-154; M. Sot, Mépris du monde et résistences des corps aux XIe et XIIe siècles, “Médiévales”, VIII (1985), pp. 6-17.

[6] Introduzione di C. Donà a Hélinant de Froidmont, I versi della morte. Pratiche, Parma 1988, p. 8.

[7] Pier Damiani, Vita Romualdi, I, 1, in PL, 144, col. 953.

[8] M. Maccarone, Innocent III, in “Dictionnaire de Spiritualité”, r. VII, Paris 1967, col. 1770. Cfr. M. Di Pinto, Il “De Miseria conditionis humanae” di Innocenzo III, “Studi Medioevali A. De Stefano”. Palermo 1956, pp. 177-201; R.E. Lewis, Move New Manuscripts ofPope Innocent III’s “De miseria humane conditionis”, “Manuscripta”, XIX (1975), pp. 119-122 e infine M. Tillmann, Pope Innocent III, North- Holland Publishing Conformy, Amsterdam-New York-Oxford 1980.

[9] E. Gilson, La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 468 e C. Vasoli, La filosofia Medievale, Feltrinelli, Milano 1961, p. 248.

[10] De contemptu mundi, I, 1.

[11] M. Maccarone, op. cit., col. 1768. Cfr. Id., Innocenzo III prima del pontificato, “Archivio della Società romana di storia patria”, t. 66, Roma 1943, pp. 59-134. Il monastero di Sant’Andrea al Clelio è il settimo monastero fondato da papa Gregorio Magno e sorse sul luogo della sua casa paterna, cfr. Gregorio di Tours, Historia Francorum X, 1, in PL, 71, col. 985.

[12] Alcuni studi fondamentali per l’iconografia dell’Apocalisse sono: Firmin-Didot, Les Apocalypses figurées, maniscripts et xylographie, Paris 1880; E. Mâle, L ’art réligieux du XIIIe siècle en France, Paris 1898; ristampa Librairie A. Colin, Paris 1988; R.J. Montaigure, The Apocalypse in Art, London 1931 e M.M. Davy, Initiation à la symbolic romane, Flammarion, Paris 1990.

[13] Sapienza 2, 1-21.

[14] De contemptu mundi 1, III.

[15] De contemptu mundi 1, VI.

[16] De contemptu mundi 1, XVI.

[17] De contemptu mundi 1, XVI.

[18] Cfr. J.C. Moore, Innocent III’s “De miseria humane conditionis”: A “Speculum Curiae”?, “The Carholic Historical Review”, 67 (1881), pp. 553-564.

[19] Gregorio Magno, Moralia in Job, PL, 76, coll. 620-622; cfr. Introduzione di F. Comello a Evagrio Ponrico, Gli otto spiriti malvagi, Pratiche, Parma 1990, pp. 13-14.

[20] Filocalia I, pp. 107-124.

[21] Cfr. M. Maccarrone, Studi su Innocenzo III, Antenore, Padova 1972, pp. 223-337; Y. Congar, Modèle monastique et modèle sacerdotal en Occident de Grégoire VII (1073-1085) à Innocent III (1198), in AA.VV., Études de civilisation médiévale (IX-XII siècles).

[22] De contemptu mundi 2, I.

[23] De contemptu mundi 3, VII.

[24] De contemptu mundi 3, XX.

[25] De contemptu mundi 3, IV.

[26] Salmo 18, 1.

[27] Biblioteca Nazionale di Parigi, MS. Lat. 3171, ff. 50r-58r.

 

 

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