Santa Marina la “Siciliana”

La Vita di santa Marina ci è nota solo tramite una copia eseguita attorno al 1308 per l’uso del grande Monastero del Salvatore di Messina (Cod. Mess. Gr. 29, ff. 112\5): di lei, infatti, non esistono più altre testimonianze, né chiese, né icone, né reliquie. Alla fama della santa non ha giovato, infatti, l’essere stata una monaca ortodossa vissuta in Sicilia negli anni tremendi dell’invasione normanna e della successiva cattolicizzazione dell’Isola. Mentre chierici venuti dal Nord Europa al seguito dei Normanni diffondevano nella Grande Grecia la dottrina franco-cattolica, un’umile tessitrice educò la figlia, Marina, “nella fede ortodossa, che è la più adatta e più amata dai cristiani”.

Lo stesso Agiografo ha, però, reso un cattivo servizio alla santa di cui pur voleva tessere le lodi: disponendo di scarso “materiale” biografico, pensò d’ampliarlo ricorrendo alle tante leggende sulle tante Marine, Pelagie, Margherite, ecc. La nostra Marina, infatti, dopo qualche tempo trascorso come Pazza-per-Cristo, era stata ‘monaca di casa’ – diremmo oggi – e, pare, s’era recata in pellegrinaggio a Gerusalemme: non è che l’agiografo potesse raccontare poi tanti miracoli. Marina era, infatti, solo una ‘piccola santa’ d’una piccola comunità (di contadini), ormai ridotta a minoranza religiosa (e pure etnica).

Come conseguenza della “contaminazione” tra la Vita della siciliana Marina e altre leggende, l’esistenza storica della santa è negata dagli storici moderni: nonostante se ne conoscano tutte le “coordinate agiografiche” (persino, caso non comune, il cognome)[1].

Al 20 luglio, Vita e opere della santa nostra madre Marina

Benedici, signore.

La Sicilia è ricca di vari e dilettevoli beni terreni, tanto da essere rinomata e famosa in tutta la terra. Non è però così ricca di beni materiali e corruttibili, quanto piuttosto è oltremodo ricca di reliquie di martiri e di santi, ricchezza che giammai si consuma né si corrompe, ma resta indefettibile e perenne. Il loro possesso è, infatti, per essa come cielo stellato, come fonte inesauribile, come porto sicuro, come fiorito giardino, in mezzo ai pericoli difesa, per i peccatori spedita salvezza, per gli ammalati rapidissima sanità, contro i barbari impulsi della mente e dei sensi presidio. Di questo è ricca la patria nostra, o divina assemblea. Volgete dunque a me, vi prego, il pensiero e l’udito e accogliete nel seno della vostra mente quanto da me è detto per amor vostro, poiché le memorie dei martiri e le vite dei santi, continuamente rilette dai fedeli, analogo fervore suscitano.

Ma ormai è tempo di passare al nostro tema e di venire a trattare della festa. Ci convoca, infatti, la Santa, me a parlare – per quanto le possibilità e l’imperizia della mente consentano – e voi, uditori, ad accogliere il seme della parola, non come in terreno roccioso, ma come in terra pingue e feconda. Se poi dalla verità della narrazione per ignoranza avessi a discostarmi, nessuno se ne meravigli, ma mi conceda venia.

Nei tempi passati, quando lo sciame degli Agareni saccheggiava quest’isola ed essi erano volti in fuga – poiché in aiuto dei cristiani fu mandato dalla divina Provvidenza Ruggero – compiendosi proprio l’anno 1062[2], allora splendette la vergine Maria, veneranda fra le donne, come sole in oscura nube. Non era invero insigne la sua patria, ma un villaggio umilissimo e molto povero, che si chiamava appunto Skanìo[3]. I suoi genitori poi erano persone di buona reputazione, avevano di che vivere sufficientemente e si chiamavano Pandariti; però a renderli ricchi e farli apparire fortunati era la figlia da essi generata.

Adunque giunta al settimo anno d’età, la santa era fiorente nella visibile bellezza esteriore, ma forse di più erano splendide le manifestazioni dell’animo suo fin dalla prima età. Modesta, infatti, fin da allora era nel carattere e nei sentimenti, e aveva nei riguardi dei genitori decisa ubbidienza e umiltà, verso i vicini un amore non adulterato e i poveri soccorreva senza limitazioni. Anzi quando udiva che ve n’erano dinanzi alle sue porte, subito tutto quel che aveva elargiva al bisognoso; e chiedeva alla propria madre chi mai fossero quelli che portavano i rami di palma sulle spalle e se mai un qualche vantaggio ad essi ne provenisse. La madre, come le era maestra nelle pratiche di questo mondo – e infatti le insegnava la pittura tessile –, la istruisce anche nella religione ortodossa, che si conviene ai Cristiani e che è la più amata, e in merito ai poveri le dice: “Figlia mia, quelli che portano i rami di palme sono coloro che il Signore stima beati, quando dice: Beati i poveri nello spirito, perché essi entreranno nel Regno dei cieli. Costoro, abbandonando ogni bene, alla madre delle città, a Gerusalemme andarono; e videro e riverirono i luoghi preziosi e salutiferi, colà esistenti, della nascita secondo la carne e della passione del Signore Gesù Cristo, che si è degnato a guisa d’uomo di morire per noi. Viaggiando in povertà compiono il giro della terra”.

Dalla madre udiva questi discorsi la veramente santa e la detta narrazione le infigge nel cuore come un pungolo e non pensava ad altro e lo dava a vedere e, stimando beati quelli che si erano in tal modo acquistati meriti, non cessava di dire: “Beati veramente coloro che con i propri occhi hanno visto tali luoghi e li hanno adorati. Signore, Signore Gesù Cristo Figlio unigenito di Dio, santo Spirito: una divinità, una potenza! Per tuo disegno mi hai segregata dal mondo fin da quando ero nel ventre della madre mia, e hai voluto far germogliare in me, tua serva, l’incorrotto amore verso di te. Poni in me il timore dei tuoi comandamenti, la forza e la potenza del tuo santo Spirito, in modo che io possa fare senza esitazione quel che a te è gradito. Disponi che sia serbata intatta la mia verginità; spiega le tue forze contro il nemico che ci contrasta. Del desiderio che io nutro nell’animo, di vedere e di adorare i salutiferi luoghi della tua nascita e della tua passione, non ritenere indegna la tua serva, perché benedetto sei nei secoli”.

Dunque i suoi genitori, ormai vicini a vecchiezza, chiamarono, com’è costume, la dilettissima figlia e le dissero: “Figlia amata, ecco che il tempo ti invita ora alle nozze, mentre noi, come vedi, siamo oppressi dalla vecchiaia. Unisciti quindi con un uomo assennato e di buona reputazione e così ci libererai da ogni preoccupazione. Il ritardare non è un modo di comportarsi opportunamente e saggiamente: fra breve a partire da questo momento potrà coglierci la morte. Le nostre sostanze allora a chi andranno in eredità?” Quella, veramente assennata e deposito del divino Spirito, escogita una scappatoia contro la stessa volontà dei genitori e dice loro: “A me invero, miei amatissimi signori e genitori secondo la carne, non si addice che vada a nozze, né che mi congiunga ad un uomo di fama buona o cattiva che sia; ma la ragione del mio rifiuto è terribile e sgradita al vostro udito”. La madre allora sospettando che le sarebbe stato narrato un fatto sconveniente, cominciò a percuotersi le guance e a lanciare gemiti. Il padre, come ferito anch’egli nell’animo, la chiamava a solo e con dolcezza e serenità le chiedeva quale impedimento vi fosse per le nozze e molto la scongiurava.

Quella allora, avendo scelto di mentire per salvarsi, disse: “Me disgraziata, padre! La mia situazione è questa. Una notte, mentre dormo nel mio lettino, mi appaiono una moltitudine d’Etiopi, né di una sola figura, né di una sola forma, ma tutti l’uno dopo l’altro tenebrosi nei loro volti; suscitando in me terrore, alcuni digrignavano i denti e si trascinavano verso di me; altri, armati nelle mani di strumenti di guerra d’ogni sorta, mi battevano e mi coprivano di lividure, me infelice. Da allora, sconvolta dal terrore, sono pazza e invasata, ma non l’ho detto ad alcuno. Per questo mi sono data ai digiuni e all’astinenza e mi sono costretta ad un’astinenza come uno che è privo di corpo, mangiando una sola volta in tre giorni e soltanto un pezzettino di pane con acqua”. E fingeva una simulata follia a conferma della visione. In tal maniera infatti sono soliti ingannare la gente coloro che bramano condurre a termine i propri progetti. Udita dunque la faccenda della visione, i genitori erano immersi del tutto in un dolore smisurato; ma poiché non avevano come mutare la sventura, in silenzio sopportavano la faccenda.

Trascorso quindi del tempo, la santa se ne sta a riposare nella propria camera insieme con le fanciulle che a lei attendono e batte una di queste fanciulle sul volto, per invidia appunto del demonio. Subito a colei che era stata colpita, la bocca si torceva orribilmente fino all’orecchio; e invero era uno spettacolo pietoso per quelli che guardavano, ma ancora più pietoso era il dolore che aveva preso l’animo della santa che aveva compiuto quel gesto. I vicini allora cominciarono ad insultarla, accusandola d’essere pazza e indemoniata. Se i genitori della sofferente si lamentavano amaramente della disgrazia, d’altra parte, i genitori della santa erano afflitti da un triplice dolore, e soffrivano insieme a questi per la sofferenza della figlia e per l’insulto dei vicini e ancora per la sventura della fanciulla offesa, poiché la consideravano come propria disgrazia.

Erano passati cinque giorni e la santa fu mossa a compassione; doveva infatti adempiersi il detto del Vangelo: Non può una città restare occulta e una lucerna non può essere posta sotto il moggio. Essa si recava adunque in casa della sofferente e, postasi presso il suo capo, con le mani toccava la sua testa e con la bocca pronunziava la preghiera per la malata, come se facesse un incantesimo: “Signore Gesù Cristo, mio Dio, medico delle anime e dei corpi, vieni a visitare questa tua serva che il nemico ha ferito, poiché di me, tua serva, ebbe invidia; e da’ a lei per mezzo della tua benedizione e della imposizione. delle mie mani la sanità, poiché da te è aver pietà e salvare”. Afferrò poi con le due mani da una parte e dall’altra la ferita e disse: “Ti guarisce il Signore, colui che cura ogni malattia”. A quelle parole essa ridivenne sana come prima, e Gloria a Dio! da tutti si udiva. La santa da quel momento non più ritenevano pazza, ma le tributavano piamente l’onore dovuto.

Trascorsi quattro anni, essa bramava vestire l’abito monastico e supplica i genitori di essere stimata degna del voto. I genitori allora, poiché la vedono tutta consacrata a Dio e che si asteneva dai pensieri mondani, si piegano alla preghiera; e chiamato un pio monaco, essa per opera sua ricevette la tonsura e, come aveva desiderato, mutò d’abito e assunse il nome di Marina. Avendo dato consacrazione al suo intimo voto, non tollerò di condurre l’esistenza di una fanciulla, né di stare insieme con i genitori, ma volle vivere da esicasta in un piccolo kellìo.

Nel kellìo adunque dimorando in pace, con voti e preghiere invocata la divinità per la propria spirituale salvezza e per la pace di tutto il mondo abitato. Dopo che per due anni si fu esercitata alla più grande virtù nel suddetto kellìo, è degnata della divina grazia: a coloro che erano oppressi da febbri o da infiammazione agli occhi, o erano consunti da tumori, o erano resi sordi da mal d’orecchio, agli artritici e agli affetti da altre malattie di difficile guarigione, essa subito donava la salute con l’invocazione dell’immacolata Trinità.

Quando questi fatti furono manifesti ai vicini e ai prossimi e cominciarono ad onorarla, essa fugge dalla fama come da serpente; ed ecco che, a primavera, quando i naviganti si affrettavano a varcare il mare e a dirigersi alla volta di Gerusalemme, stabilì di partire con loro anche la santa. Ma si trovava in difficoltà per la giovane età e per la fiorente bellezza del volto. Così dunque essendo in imbarazzo, il Signore le svela di travestirsi in abiti maschili e in tal modo intraprendere il viaggio. Così appunto avviene, e, vestita da uomo, si chiamò Marino.

Accordatasi adunque con i padroni di una nave e imbarcatevi modeste provviste, essa stessa vi sale per andare alla desiderata meta. Ma anche in questa circostanza manifesta la sua invidia colui che odia il genere umano, e inspira nei cuori dei marinai alcuni malvagi disegni; e intorno alla santa cominciarono a mormorare dicendo: “L’aspetto e la generosità di questo monaco qui lo caratterizzano come appartenente alla corte reale e, a quanto pare, deve avere una quantità d’oro. Orsù dunque, nel cuore della notte, quando è solito dire le preghiere, afferratolo, di là gettiamolo al pastore del mare e appropriamoci dei suoi averi”. Ecco che infatti senza alcun pentimento si danno a compiere il delitto e precisamente la progettata uccisione.

Ma la santa conobbe in spirito il loro malvagio progetto e in aiuto invocava il più pronto soccorso celeste, dicendo: “O Dio e Signore della misericordia, tu vedi tutto vedi prima della sua nascita e hai predestinato me, tua serva, a scegliere questa vita monastica. Te prego e t’imploro: affrettati in soccorso della tua serva, non mi ingoi la voragine e non serri su di me il pozzo la sua bocca; rendi degna me, tua serva, di visitare i tuoi santi e adorati luoghi, sì che possa venerarli e saziarmi della purificazione che essi elargiscono, affinché con tutti io dia lode al tuo molto celebrato nome”. Compiuta la preghiera e coricatasi nel solito posto, a tarda sera aveva inumidito tutto il volto e lo aveva bagnato di lacrime e lentamente si volse al sonno. Dormiva da poco, quando vede (suole avvenire infatti che coloro che sono afflitti, quando si addormentano, nel sonno hanno la visione di quel che straordinariamente li preoccupa), vede il Signore, vero difensore e Dio nostro, in atto di farle cuore e dirle di allontanare ogni suo pensiero, poiché sarebbe venuto nelle avversità in suo soccorso. Subito allora si destava e si volgeva a rendere grazie. Ed ecco che quegli uomini, rotti ad ogni malvagità, di cui il discorso precedente ha parlato, si avvicinarono per compiere il disegno prestabilito. Ma invano si affaticarono quegli scellerati.

Mentre appunto la nave aveva prospera navigazione e attraversava il mare Adriatico, di là volevano buttarla. Ma il Signore è vicino a quelli che veramente lo cercano. Come dunque si avvicinarono alla Santa per metterle le mani addosso e nel profondo del mare precipitarla (o grandissima tua provvidenza, o Cristo!), il protagonista del dramma, interamente invasato dal demonio, si abbatteva di fronte alla Santa, masticando la lingua con i denti ed emettendo voci prive di senso, il miserabile. Questo pertanto soffriva il disgraziato per tutta quella notte, e quanti erano sulla nave ne avevano pietà. Allora uno di quelli che avevano consigliato l’infame azione, si avvicina al padrone della nave e confessa tutto quello che avevano studiato di compiere malvagiamente. E quegli con riverenza e timore va presso la santa e si butta ai suoi venerandi piedi dicendo: “Servo di Dio, perdona a questo miserabile, per il fatto che peccò verso di te; infatti a voi, servi di Dio, il Signore nei Vangeli ordina non solo di rimettere sette volte la colpa al fratello, ma settanta volte sette”. Era invero quell’uomo non ignorante di lettere, e per di più molto saggio e intelligente.

Dunque i discorsi fatti da questo proprietario della nave alla santa la mossero a compassione; ed essa, realmente discepola del vero Dio, si avvicinò al sofferente e, presagli la mano destra, disse: “Ti esorcizzo, demonio, che hai assalito la creatura di Dio; fuggi via da questi e vattene nel luogo per te preparato; lo stesso mio Signore Gesù Cristo te lo comanda”. Subito allora il diavolo, come fumo dalla bocca, saltò via. Il sofferente poi, rientrato in se stesso, rifletteva su quanto aveva osato e come aveva avuto la guarigione dalla santa e si butta ai suoi piedi, chiedendo perdono per le colpe commesse. E quella: “Il Signore, o fratello, ti perdonerà, se un qualche male hai meditato contro di me. Tu però non osare più di compiere questa cattiva azione, perché non ti capiti di peggio”. Quindi proseguono la navigazione per alcuni giorni e arrivano a Tripoli di Siria. Discesi adunque dalla nave, rendono noti i fatti concernenti la santa al santissimo vescovo di quel luogo; e quegli, avendone avuto cognizione in spirito, manda a chiamare la santa e le dice del nome che essa aveva assunto e la degna della divina benedizione. Amorevolmente dunque ospitata da lui per tutta quella settimana, gli chiedeva di impartirle l’insegnamento del verbo divino. Quell’anima veramente santa – dico il sapientissimo ghèron – le interpretava le Scritture, e il suo udito era così pronto come una terra pingue e fruttifera che moltiplica i semi. Tuttavia, trascorsa la settimana, chiese al ghèron di pregare per lei, e quegli la benedisse e le predice il futuro: che avrebbe dovuto per due volte raggiungere Gerusalemme e poi di nuovo riposare in patria.

Adunque degnata della preghiera del santissimo uomo, la santa di nuovo riprendeva il cammino e perviene a Gerusalemme; adorato il veneratissimo Sepolcro del Signore, risale lungo il Giordano, il più santo di fiumi e, realizzando il desiderio che aveva nel cuore, rimane in uno dei monasteri, che colà sorgevano, fino a tre anni, servendo i fratelli operosamente. Quindi le viene alla memoria la patria e parla di quel che pensava al proestòs del monastero, e questi le dice: “Vai in pace, figlio, e ti assista il Signore”. Quella, imbarcatasi sulla nave, di nuovo torna in patria. Avendo visto che i genitori erano oramai morti, pregò per essi come si conveniva e, presa da dolore naturale, si affligge e piange per un po’.

Poi, in breve tempo rianimatasi, ritorna a Gerusalemme e di nuovo è accolta dal proestòs del monastero anzidetto ed è accettata tra i fratelli. Vissuta colà per cinque anni, ha una divina visione che le dice di tornare in patria nuovamente, perché bisognava che essa lasciasse quella vita al più presto. Ricordava allora la predizione del santissimo vescovo di Tripoli, di cui si è detto prima, e credette che la visione fosse veritiera. Rivela al proestòs il fatto della visione avuta, e quegli le dice: “Parti, fratello, sotto la protezione di Dio, e prega in mio favore la divinità”.

Del pari la santa gli chiede le sue preghiere e, salutata la fratellanza, si allontana dal monastero e ritorna in patria. Che giuste decisioni, Signore! Tu infatti disponesti quel che a lei si conveniva, affinché la sua patria non rimanesse senza i suoi miracoli. Visse poi in patria per sei mesi e in breve volgere di tempo si ammalò nel corpo ed essa partì per la celeste e santa dipartita, rendendo lo spirito al Signore.

Orsù, o madre e ornamento delle vergini, santissima Marina, anche se colà tu ti sei levata, non dimenticare la tua patria. A quelli che si raccolgono nel tuo venerando tempio darai ascolto, a ciascuno secondo il suo vantaggio; a colui che regna piamente su di noi concedi vittoria contro i nemici; a me poi, tuo umile servo, che mi sono affaticato per esporre la tua santissima vita, appari in mia difesa nel terribile tribunale del Signore. E invero a tutti questi, che in te sperano, tu darai ascolto, come madre alle preghiere dei figli.

Ma ritorniamo all’argomento. Fu seppellita dunque la santa nel tempio che colà sorgeva della santissima Theotokos; dopo alcuni anni si mostra ad uno dei fedeli dicendogli di costruirle un oratorio[4]. Questo, per volere della divina Provvidenza, per le reliquie della santa è divenuto per i credenti una difesa contro malattie di ogni specie e in esso per gli straordinari miracoli che continuamente si compiono si glorifica lo splendido nome del Padre e del Figlio e del Santo Spirito, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amin.

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Marina.htm


 

[1] Nel 16°/17° secolo, Gesuiti palermitani ovviamente fecero di Marina una santa palermitana. La Vita qui riportata è tratta da G. ROSSI TAIBBI, Martirio di santa Lucia – Vita di santa Marina, Palermo 1959.

[2] In esecuzione del Concordato di Melfi (23 agosto 1059) tra Roberto il Guiscardo e Gérard de Chevronne (papa Nicola II), i Normanni invasero la Sicilia per “ridurla all’obbedienza” della Chiesa cattolica. All’inizio del 1061 il conte normanno Ruggero pose l’assedio a Messina ma – nonostante l’alleanza con il potente emiro siciliano Ibn ath-Thumnah – la flotta normanna fu dapprima ricacciata sul continente dall’intera popolazione messinese accorsa in difesa della città, donne e bambini compresi. Invece il nostro Autore, che vive dopo un secolo almeno di pulizia etnica e ferreo controllo della potenza occupante, descrive la conquista della Sicilia come “provvidenziale” (ma si noti la sobrietà, e come Ruggero sia ricordato senza il titolo di conte o di re).

[3] Probabilmente in territorio di Castanea, oggi periferia di Messina. L’identificazione dei toponimi ricordati nei codici 29/30 di Messina non è agevole, data l’imperizia dello scriba Daniele: forse è un Sikanìo o un Sikaminò, oggi sobborgo di Messina? Non minori pasticci di Daniele ha creato l’abissale ignoranza della paleografia greca dimostrata da quanti hanno preso in esame i due manoscritti, dai Gesuiti che lavorarono per il gesuita O. Caetani, Vitae Sanctorum Siculorum, Palermo 1657, in poi.

[4] Probabilmente si tratta della chiesa di Santa Marina de Cunta, metochio del Monastero del Salvatore di Messina, che dopo la Guerra del Vespro fu usurpata dal vescovo cattolico della città. Pare che reliquie di santa Marina fossero custodite nell’omonima cappella della chiesa di San Nicola dei Greci, l’ultima chiesa parrocchiale ortodossa di Messina, già usurpata dagli uniati, poi restituita agli ortodossi ma rasa al suolo ai nostri giorni, dopo la II Guerra Mondiale.

 

Pagina iniziale