L’iconostasi tra Oriente e Occidente

 

Precedentemente a una certa epoca l’Occidente europeo conosceva più segni di unità e di uniformità con l’Oriente che segni di diversificazione. Questo perché la cultura era uniforme e i popoli europeo-occidentali si riconoscevano fondamentalmente con quelli europeo-orientali. Non si era ancora imposto il feudalesimo come elemento di rottura (anche culturale) di quest’unità! Rimanendo nell’ambito dell’Italia e scorrendo un libro di storia dell’arte non riconosciamo solo nella pittura romanica gli stili iconografici comuni con l’Oriente ma anche nell’architettura. Dalle testimonianze che ci sono pervenute citeremo solo alcuni esempi che riguardano l’iconostasi ossia l’elemento di separazione tra il santuario (vima) e la navata della chiesa. Normalmente in Occidente esistevano delle tende che impedivano allo sguardo di penetrare nel santuario. Esse si aggiungevano ad una vera e propria divisione che assumeva le dimensione di un’attuale iconostasi orientale. Osserviamo i seguenti esempi.

La chiesa di san Leone a Capena (Lazio), oltre ad avere la particolarità – cosa rara e singolare – di essere divisa in due navate, ha all’interno un recinto presbiterale (“iconostasi”) che taglia trasversalmente tutta la navata con l’abside.

Questo è uno dei pochissimi esempi di iconostasi occidentale dei primi secoli del Medioevo, rimasta intatta e nel luogo originale. Essa è composta di due pilastrini quadrati, posti all’estremità, scolpiti su tre facce e altri due intermedi più bassi, di forma ottagonale. I quattro pilastrini sono uniti da un architrave che al centro s’incurva per formare un’arcatella. Le parti laterali sono nella metà inferiore chiuse da lastre marmoree (plutei) decorate. Nella parte superiore sono state aggiunte delle colonnine a doppio fuso rovescio, durante i restauri rinascimentali che un’iscrizione ci permette di datare al 1520. Questi restauri si resero necessari per un cedimento delle fondazioni.

Nelle lastre di chiusura si notano alcune discordanze e differenze di misure ma tutta l’opera è sicuramente omogenea e contemporanea, e queste variazioni non sono dovute a restauri come invece verrebbe fatto di pensare.

L’ iconostasi presenta un particolare architettonico assai interessante: la fusione dell’elemento a cancellata, derivante dalla recinzione, usata fin dall’epoca romana e alta solo un metro (in legno o un semplice muretto a trafori), usata nelle case e negli edifici pubblici per isolare la zona dedicata agli dei, e la trabeazione, sostenuta da pilastri o colonne, con l’archetto a sesto rialzato; sono tipici elementi questi, del cerimoniale imperiale, assunti poi nell’apparato della liturgia della Chiesa del IV-V sec. d.C.

L’ iconostasi è tutta lavorata a bassorilievo: il motivo fondamentale è la treccia, usata in varie figure geometriche. I plutei presentano tre diverse decorazioni: intrecci a tondi ed asta; quadrati contenenti grappoli, fioroni; intrecci e tondi con fioroni, croci, dischi, foglie e uccelli.

Anche lungo la trabeazione, l’archetto e i pilastri, si snoda la decorazione a tondi con fioroni e grappoli.
Il tema iconografico della trabeazione con archetto sottolineava l’alta dignità imperiale: lo si trova nel palazzo di Diocleziano a Spalato e a Costantinopoli. In ambiente basilicale lo si trova diffuso in Oriente già dal V-VI sec. d.C.

La basilica di Santa Maria delle Grazie, nella cittadina lagunare di Grado (Friuli-Venezia-Giulia) presenta un modello classico. Quest’immagine è quella che si presentava normalmente agli occhi dei cristiani del V-VI secolo. Alla trabeazione posta sulle colonnette si appendevano lampade e, in Oriente, qualche icona.

Questa cittadina, come buona parte del litorale adriatico, era protetta dalla presenza romano-bizantina. Grado, sviluppatasi come luogo di rifugio per le popolazioni romane dell’entroterra minacciate dalle scorrerie barbariche, ebbe contatti continui e frequenti con l’Impero romano-orientale e conservò nelle sue costruzioni ecclesiastiche quella tipologia che proveniva da una cultura locale fondamentalalmente uniforme con quella “bizantina”. La cittadina gradese ospitò il patriarca aquileiese qui rifugiato e quella popolazione che riusciva a sfuggire all’opprimente sistema feudale caratterizzante l’entroterra e Aquileia stessa in mano a un tristo rappresentante feudale imposto dall’imperatore germanico, un vescovo patriarca, che di evangelico non aveva proprio nulla.

Con l’affermarsi della suaccennata protezione romano-bizantina alle popolazioni romane nel V-VI secolo, le isole della laguna adriatica costituirono una “provincia dell’Impero d’Oriente” e furono governate da una magistratura politica, nominata dall’Esarca di Ravenna. Alla fine del settimo secolo a Venezia troviamo in carica il primo doge, anche se ancora di nomina romano-bizantina. Nel 725, quando i vari piccoli stati italiani si sollevarono contro l’imperatore d’Oriente, che aveva ordinato l’iconoclastia, Venezia si sottrasse al dominio di Costantinopoli e decise che il doge dovesse essere eletto dall’assemblea popolare. Per la sua particolare posizione geografica, la città non conobbe mai la dominazione feudale che caratterizzò, invece, le parti restanti dell’Italia. In tal modo a Venezia sono rinvenibili con maggior frequenza i segni chiari di quel passato in cui la città era unita con l’Impero romano-orientale, artefice della sua iniziale fortuna e crescita. A Venezia dunque troviamo mantenuta con fedeltà gelosa la tradizione costruttiva fiorita nella terraferma romana. Questa eredità di diretta filiazione tardo-romana, è giunta a Venezia attraverso l’aggancio dell’arte ravennate.

L’eredità di Ravenna, che Venezia accolse e fece sua, sarebbe più evidente se non fossero andate distrutte per mano barbara le antiche sedi che subirono l’influsso dell’arte ravennate: Cittanova, Equilio, Altino, Caorle e Malamocco. La basilica di Torcello (nella foto in bianco e nero) nasce nel VII secolo, ravennate per struttura e decorazione: i suoi mosaici nella volta del diaconicon rivelano nello schema compositivo, fedeltà alle composizioni ravennati del VII secolo.

Si può affermare che anche le primitive chiese di Venezia avessero tali forme. Nelle foto è visibile l’iconostasi della basilica di Santa Maria Assunta dell’isola di Torcello e, più in alto, quella della basilica di San Marco.

Ricostruzione (dal libro di Rohault de Fleury, La Messe, II, Confessions, pl. CXXXI) del presbiterio della basilica di San Pietro a Roma nel periodo del papa San Gregorio Magno (attorno all’anno 600). Davanti all’altare sormontato da un baldacchino è visibile un’iconostasi.

L’impostazione architettonica romana con la normale presenza di un’iconostasi qualificava anche l’antica basilica costantiniana di san Pietro il cui interno è visibile nella ricostruzione a destra. Attraverso il rinvenimento del semplice particolare dell’ iconostasi notiamo, dunque, una fondamentale unità nell’espressione architettonica cristiana. Iconostasi nelle chiese italiane sono presenti qua e là come muta e nascosta testimonianza d’un passato comune dove cultura e fede stringevano in un unico amplesso l’Occidente e l’Oriente europeo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/IconOccidente.htm

 

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