LA DEIFICAZIONE PER MEZZO DELLA LUCE
Credenti, usciamo per primi incontro alla Trasfigurazione di Cristo, celebrando lietamente questa pre-festa ed esclamiamo: Ecco, viene il giorno della gioia divina, perché il Signore è salito sul monte Tabor per irradiare lo splendore della sua divinità. Così il 5 agosto la Chiesa prepara i suoi fedeli alla grande festa della Trasfigurazione. Festa veramente grande in Oriente, dove la luce taborica è stata sempre considerata manifestazione della grazia increata; è festa antichissima, se già nel IV secolo ne predicavano san Efrem Siro e san Giovanni Crisostomo; e risale a quel tempo la prima chiesa cristiana sul luogo dell’evento. In Occidente invece, la festa sarà introdotta molto tardi, solo nel 1457 dal Papa Callisto III. Molti sono i motivi su cui gli inni liturgici vogliono attirare l’attenzione dei fedeli: la manifestazione trinitaria, seconda dopo quella del battesimo; la ‘metamorfosi’ di Cristo ‘splendore del Padre’; il preannuncio della Risurrezione di Gesù e nostra; la divinizzazione della natura umana, ottenebrata in Adamo, ed ora illuminata; la connessione tra croce e gloria, poiché i tre apostoli testimoni della trasfigurazione lo saranno anche della passione nell’orto degli Ulivi; la supremazia assoluta del Redentore, Signore dei vivi e dei morti, del passato e del presente, che sul Tabor ha vicini Mosè ed Elia, rappresentanti la Legge e i Profeti, di cui Egli è il compimento.
La Trasfigurazione è «festa teleologica per eccellenza, che ci permette di attendere la Pasqua e di prevedere l’avvenire al di là della Parusia»[1]. L’effusione di luce che avvolge Cristo sul Tabor, facendo apparire la bellezza primordiale del creato e l’intero piano salvifico, giunge fino a noi: Oggi, nella divina Trasfigurazione, l’intera natura umana brilla di divino splendore ed esclama con gioia: Il Signore si trasfigura, salvando tutti gli uomini[2]. Ma «il significato generale di questa festività massima è riassunto in un breve versetto, l’apostico dei vespri minori: In questo giorno, sul Tabor, il Cristo trasformò la natura oscurata di Adamo. Avendola illuminata, la divinizzò. La semplicità di queste poche parole, come quella del racconto evangelico, ha una profondità straordinaria. Come in ogni avvenimento della vita del Cristo e come in ogni festa, qui si ha un compimento e, insieme, una prefigurazione. Forse mai altrove, se non a Pasqua, questi due elementi appaiono con altrettanta evidenza e forza. Conviene dunque considerare le tre dimensioni temporali: passato, presente, avvenire. Il Vecchio non è verificato che dal Nuovo: “dal frutto si conosce l’albero”. Quel che resta della storia non è giustificato che dall’avvenire, checché rappresenti per il passato ogni tappa del presente. Orbene, la storia è diretta verso l’estremo dell’avvenire, in cui l’umanità passerà nell’eternità attraverso il fuoco del giudizio. La prova ontologica, la ragion d’essere della storia sono nello sbocco metastorico del suo divenire; in altre parole, nella salvezza. È solo nella misura in cui il vecchio genera il nuovo, in cui il vecchio è fecondo e creativo, che è degno di perdurare e resta attuale. In tal senso, esso fa parte del nuovo, come il bambino che prolunga i suoi antenati e li completa. Il tempo vero dell’umanità è, dopo l’esilio, quello della sua risalita verso il Regno eterno, passando per l’inferno della morte che arresta il tempo e lo dissolve nella sua “malvagia eternità”. Prima della caduta, non vi era storia, poiché non vi era la morte. Dopo la storia, non vi sarà più tempo, poiché vi sarà la Vita. La Trasfigurazione trasferisce l’esistenza umana nella dimensione gloriosa, mostrando ai tre discepoli vivi dinanzi ai due profeti antichi l’attualità illuminata del passato e dell’avvenire»[3].
[1] S. Andronikoff, Le sense des fétes, Paris 1970, p. 239.
[2] Kontàkion del 5 agosto.
[3] S. Andronikoff, o.c. 217-218