2. Osanna

 

La Domenica delle Palme

 

            Dal punto di vista liturgico, il sabato di Lazzaro si presenta come la pre-festa della domenica delle Palme, giorno in cui si celebra l’ingresso del Signore a Gerusalemme. Queste due feste hanno un tema comune: il trionfo e la vittoria. Il sabato rivela il nemico che è la morte, la domenica annuncia la vittoria come trionfo del regno di Dio, accettazione da parte del mondo del suo solo Re, Gesù Cristo. L’ingresso solenne nella città santa fu, nella vita di Gesù, il suo solo trionfo visibile. Fino a quel giorno, egli aveva volontariamente respinto ogni tentativo di glorificarlo. Solo sei giorni prima della pasqua non soltanto accetta volentieri l’avvenimento, ma lo provoca. Compiendo alla lettera ciò che aveva detto il profeta Zaccaria – «Ecco, a te viene il tuo re… cavalca un asino» (Zc 9, 9) –, egli ha mostrato chiaramente che voleva essere riconosciuto e acclamato come Messia, Re e Redentore d’Israele. Il racconto del vangelo sottolinea, in effetti, tutti questi tratti messianici: le palme, i canti di Osanna, l’acclamazione di Gesù come Figlio di Davide e Re d’Israele. La storia di Israele raggiunge il suo scopo: tale è il senso di questo avvenimento. Infatti, il senso di questa storia era di annunciare e preparare il regno di Dio, la venuta del Messia. Oggi essa è compiuta, perché il re entra nella sua città santa, e in lui le profezie e tutta l’attesa di Israele trovano il loro compimento. Egli inaugura il suo regno.

            La liturgia della domenica delle Palme commemora questo avvenimento; con rami di palme in mano, noi ci identifichiamo con il popolo di Gerusalemme, con esso salutiamo l’umile Re, cantandogli Osanna. Ma quale è il senso di tutto ciò per noi, oggi?

            Noi confessiamo anzitutto che Cristo è nostro Re e nostro Signore. Troppo spesso ci dimentichiamo che il regno di Dio è già stato inaugurato e che nel giorno del nostro battesimo ne siamo stati fatti cittadini e abbiamo promesso di porre la nostra fedeltà a questo regno al di sopra di ogni altra cosa. Dobbiamo sempre ricordare che, per qualche ora, Cristo è stato veramente Re sulla terra, in questo mondo che è il nostro. Per qualche ora soltanto, e in una sola città. Ma come in Lazzaro abbiamo riconosciuto l’immagine di ogni uomo, così possiamo vedere in questa città il centro mistico del mondo e di tutta la creazione. Tale è il senso biblico di Gerusalemme, il punto focale di tutta la storia della salvezza e della redenzione, la città santa della Venuta di Dio. Pertanto, il regno inaugurato a Gerusalemme è un regno universale, che abbraccia tutti gli uomini e la creazione intera… Per qualche ora, e tuttavia queste ore sono decisive; è l’ora di Gesù, l’ora del compimento operato da Dio di ogni sua promessa, di ogni suo volere. Quest’ora è al termine dell’intero processo di preparazione rivelato nella Bibbia, il compimento di tutto quello che Dio ha fatto per l’uomo. E così, questa breve ora del trionfo terreno di Cristo acquista un significato eterno. Essa introduce la realtà del regno nel nostro tempo, in tutte le ore, facendo di questo regno ciò che dà senso al tempo, il suo ultimo scopo. A partire da questa ora, il regno è stato rivelato al mondo, e la sua presenza giudica e trasforma la storia umana. E quando nel momento più solenne della celebrazione liturgica noi riceviamo una palma dalle mani del sacerdote, rinnoviamo il suo regno come lo scopo ultimo e il contenuto della nostra vita. Confessiamo che tutto, nella nostra vita e nel mondo, appartiene a Cristo, che niente può essere sottratto al solo e unico Signore, e che nessun campo della nostra esistenza sfugge al suo potere, alla sua salvezza e alla sua azione redentrice. Infine, proclamiamo l’universale e totale responsabilità della Chiesa riguardo alla storia dell’umanità, e affermiamo la sua missione universale.

            Tuttavia, sappiamo che il Re che gli ebrei acclamavano allora e che noi acclamiamo oggi si incammina verso il Golgota, verso la croce e la tomba. Sappiamo che questo breve trionfo non è che il prologo del suo sacrificio. Le palme nelle nostre mani significano perciò la nostra prontezza e la nostra volontà a seguirlo sul cammino del sacrificio, la nostra accettazione del sacrificio e la nostra rinuncia a noi stessi come unica via regale che conduce al regno.

            Infine, queste palme, questa celebrazione, proclamano la nostra fede nella vittoria finale di Cristo. Il suo regno è ancora nascosto e il mondo lo ignora. Esso vive come se l’avvenimento decisivo non avesse mai avuto luogo, come se Dio non fosse morto sulla croce e come se, in lui, l’uomo non fosse risuscitato dai morti. Ma noi cristiani crediamo nella venuta di questo regno in cui Dio sarà tutto in tutti e Cristo il solo Re.

            Nelle nostre celebrazioni liturgiche ricordiamo avvenimenti del passato; ma tutto il senso e l’efficacia della liturgia consistono proprio nel trasformare il ricordo in realtà. Nella domenica della Palme la realtà di cui si tratta è il nostro coinvolgimento con il regno di Dio, è la nostra responsabilità verso di esso. Cristo non entra più a Gerusalemme; l’ha fatto una volta per tutte. Egli non ha bisogno del «simbolo» e non è certo perché noi possiamo perpetuamente «simbolizzare» la sua vita che è morto sulla croce. Cristo vuole da noi una reale accoglienza del regno che egli ci ha portato… E se noi non siamo pronti ad essere totalmente fedeli al giuramento che rinnoviamo ogni anno la domenica delle Palme, se veramente non siamo decisi a fare del regno la misura di tutta la nostra vita, allora la nostra celebrazione è senza senso e senza significato sono le palme che portiamo dalla chiesa a casa.

 

Tratto da: Alexander Schmemann – Olivier Clément, “Il mistero pasquale”, Lipa Edizioni, pp 9-12.


Pagina iniziale