La Chiesa, un luogo per rinascere

 

Conferenza tenuta da Padre Placide Deseille

Monastero di Solan La Bastide d’Engras – 4 giugno 2001

 

 

 

 

    Questo tema sarei tentato di precisarlo con “la Chiesa, luogo della nostra nuova nascita o della nostra nascita dall’alto”, o ancora “la Chiesa, seno materno della nostra nuova nascita”.

 

    Essere cristiano significa, infatti, rinascere, nascere ad una nuova vita che è una vita data dall’alto. A tal proposito, bisogna risalire al colloquio di Nicodemo con il Signore nel Vangelo secondo San Giovanni:

 

«C’era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, un notabile giudeo. Andò da Gesù e gli disse: “Rabbi, sappiamo che tu sei un maestro mandato da Dio. Nessuno può compiere quello che tu fai se Dio non è con lui”. Gesù gli rispose: in verità, in verità ti dico, se non nascendo – c’è lì un termine greco che significa “a volte, di nuovo e, a volte, dall’alto” e nel vangelo di San Giovanni, nelle parole del Signore per come ce le riporta, si trova spesso questa ambiguità che permette al Signore di passare da un livello ad un altro – dall’alto, nessuno potrà vedere il regno di Dio”. Nicodemo gli chiese: “Come può nascere un uomo se è già vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel seno di sua madre e nascere”? [Nicodemo intende l’espressione nascere di nuovo, una seconda volta] Gesù rispose: “in verità in verità ti dico, se non nascendo in acqua e in spirito, nessuno potrà entrare nel regno di Dio. Ciò che è nato da carne è carne, ciò che è nato dallo spirito è spirito».

 

    Il testo ci rimanda ad un altro passo, il prologo del vangelo di San Giovanni, dove, a proposito del Verbo incarnato, leggiamo:

 

«Venne presso i suoi e i suoi non l’accolsero. Ma a tutti coloro che l’hanno accolto, Egli ha dato il potere di diventare figli di Dio. A coloro che credono nel Suo nome, che non sono nati dal sangue né dal volere d’uomo, ma da Dio».

 

    So bene che esistono due versioni di questo testo, ma questo è quello più comunemente accettato e sembra proprio essere il testo autentico di San Giovanni. Esso ci precisa proprio che Cristo è venuto, si è incarnato perché gli uomini potessero diventare figli di Dio, perché nascessero non più soltanto da essenza terrena e carnale ma anche da Dio stesso, perché nascessero veramente dall’alto.

    Diventare cristiano, significa dunque accedere ad una vita nuova, ricevere una vita nuova, essere generato come figlio di Dio, e questo nel senso più forte. La vita nuova che si riceve così è una partecipazione alla vita divina, alla vita non creata di Dio. Un autore che conosceva bene un Padre della Chiesa scriveva così a proposito della divinizzazione del cristiano, di questa nascita dall’alto:

 

«La grazia è la vita stessa di Dio comunicata all’uomo, non in immagine, per quanto somigliante possa essere questa immagine, ma realmente e veramente. Attraverso la grazia, attraverso il dono dello Spirito Santo, attraverso la venuta in noi dell’energia divina, noi siamo penetrati di Dio, impregnati di Dio. Viviamo in Lui, partecipiamo della sua natura come il ferro rosso partecipa del fuoco e pur restando ferro diventa fuoco, brillando e bruciando come il fuoco. Da lì queste espressioni tanto note ma così poco comprese come: attraverso la grazia noi siamo figli di Dio, figli del Padre, nel Cristo, nel figlio unico, membra di Gesù Cristo e Dio pure noi. Espressioni che non sono semplici figure ma che nelle nostre insondabili profondità racchiudono realtà tanto meravigliose quanto certe. Tale è il mistero della santificazione: attraverso la grazia, noi siamo deificati».

 

    Questa espressione usano continuamente i Padri della Chiesa, presso i quali s’incontra molto spesso l’immagine del ferro rosso penetrato dal fuoco per esprimere quella condizione nuova dell’uomo che in questo modo partecipa dell’energia divina, della grazia divina.

Questa vita che riceviamo è intimamente legata, e persino identica, in un certo modo, a ciò che il Nuovo Testamento chiama carità. Non la carità nel senso privo di valore che il termine ha nella lingua francese, ma nel senso di un amore oblativo, di un amore che si dà, di un amore che non è condizionato dall’amore dell’altro, dalla risposta che riceviamo alla nostra attesa. Questa vita divina, in fondo, corrisponde a ciò che i profeti chiamavano la nuova legge, la legge della nuova alleanza. In effetti, nell’Antico Testamento, il popolo giudeo, il popolo di Dio, obbediva ad una legge esterna, incisa sulle tavole di pietra che Mosè aveva ricevuto sul Monte Sinai. E i profeti, avendo constatato il fallimento di quell’economia, che soprattutto aveva permesso all’uomo di prendere coscienza della sua debolezza, dell’impossibilità di obbedire alla legge di Dio con le sole proprie forze, contando soltanto sulla sua volontà e sulle sue capacità umane, avevano annunciato una nuova alleanza in cui quella legge non sarebbe stata più una legge esteriore, fatta di parole, ma una legge incisa nel fondo dell’essere, una legge identica al dono del Santo Spirito.

 

«Metterò la mia legge nel fondo del loro essere e la scriverò sul loro cuore» (Geremia, cap. 31).

 

    Ritroviamo la stessa cosa nel profeta Ezechiele:

 

«Metterò il mio spirito in voi e farò in modo che osserviate le mie leggi».

 

    Per questo, quando il Signore, nel Vangelo, dice che ci darà un “comandamento nuovo”, “una legge nuova”, non si tratta di una legge esteriore. Non è una legge che consiste nelle parole. Ma una legge che è una vita veramente incisa nei nostri cuori, una legge di vita, una legge che scaturisce dall’essere nuovo che ci è dato. Quando il Signore ci dice: “Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. Non c’è amore più grande che dare la propria vita per coloro che si amano” Cristo vuole dire che questa legge nuova sarà identica al dono del Santo Spirito, dell’energia divina nel nostro cuore, che ci fornisce insieme il senso, la comprensione di ciò che Dio vuole, di ciò che Dio è, e che nello stesso tempo ci dà l’impulso, il movimento per obbedirle, per seguirla. Ciò sicuramente contrasta con l’economia della nostra libertà: occorre che noi acconsentiamo a questo movimento a questo impulso, a questa vita che è in fondo a noi. Ma al punto iniziale c’è questo dono di Dio che è il dono della vita nuova, il dono della deificazione, che permette che noi partecipiamo veramente di ciò che Dio è. Dio è amore, ci dice San Giovanni. E questa vita nuova che noi riceviamo, è precisamente la carità, è precisamente l’amore vero. Nella prima epistola di San Giovanni, al capitolo 4, leggiamo:

 

«Amatissimi, amiamoci gli uni gli altri poiché l’amore è di Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Colui che non ama non ha conosciuto Dio perché Dio è amore».

 

    Queste parole sono davvero il cuore della rivelazione cristiana, della rivelazione del Nuovo Testamento, della nuova alleanza. La natura di Dio, ciò che Dio è essenzialmente, è amore, è carità nel senso superiore del termine. E la carità che è in noi è una vera partecipazione di ciò che Dio è. Non è una semplice virtù umana, non è una semplice disposizione psicologica: suppone veramente partecipare di ciò che Dio è per natura, della natura increata di Dio. Quando in fondo al nostro cuore scopriamo questo senso dell’amore, che noi siamo inclini ad amare veramente gli altri, che scopriamo nel profondo di noi stessi, ben al di là di ogni agitazione superficiale della nostra anima, di tutte le tendenze che si agitano in noi, c’è il senso intimo della carità, dell’amore vero che, per un cristiano è ciò che c’è di più essenziale in lui, che è davvero inciso in fondo al suo cuore, non è qualcosa di umano che scopriamo, ma proprio un partecipare di ciò che Dio è. È invero la presenza in noi della grazia increata di Dio che così scopriamo. Così dunque questa vita nuova alla quale nasciamo, è la vita della carità, una vita propriamente divina. Chiunque ama è nato da Dio: è veramente una nuova nascita, un nuovo essere che ci è dato perché Dio è amore. Partecipiamo veramente di ciò che Dio è, ed è questo amore che è il cuore della vita cristiana, che ne è l’essenza. Tutto il resto, come il Signore lo ha detto spesso nel Vangelo, gli è collegato. Sant’Agostino (il cui insegnamento, su certi punti, non è assolutamente conforme alla tradizione dei padri greci, ma nel caso specifico, è sulla stessa linea del Vangelo) ha fornito un ottimo commento della prima epistola di San Giovanni:

 

«Soltanto la carità distingue i figli di Dio dai figli del diavolo. Tutti possono pure farsi il segno della Croce di Cristo, rispondere tutti amen, tutti cantare alleluia, farsi battezzare, entrare nelle chiese, costruire basiliche, i figli di Dio non si distinguono dai figli del diavolo se non per la carità. Coloro che posseggono la carità sono nati da Dio. Coloro che non ce l’hanno non sono nati da Dio. (Indizio considerevole e distinzione fondamentale) Potrai possedere tutto ciò che vuoi, se soltanto ti manca questa, tutto il resto non serve a nulla. Ma se tutto il resto ti manca e tu possiedi solo questa, tu hai adempiuto alla legge. Possiedi in te la vita divina, la vita incerata».

 

    E come diceva giustamente San Gregorio Nazianzeno, nella chiesa empirica, nella chiesa visibile: “Ce ne sono che sembrano essere dentro e invece sono fuori” perché non hanno la carità. Ce ne sono pure che, per molteplici ragioni che non dipendono dalla loro volontà e che solo Dio conosce, non sono visibilmente nella chiesa: sembrano essere fuori ed invece sono dentro. Questo non deve però sminuire l’importanza della chiesa visibile e dei sacramenti visibili. In quel passo del colloquio con Nicodemo, il Signore precisa pure che bisogna rinascere attraverso l’acqua e lo spirito. Il Signore lega l’acqua del battesimo e il dono del Santo Spirito. È la via normale stabilita da Cristo. Che ci siano delle supplenze per gli uomini che non possono conoscere Cristo e la Chiesa, Dio lo sa, Dio, che è la salvezza di ogni uomo, ne ha disposto nella sua saggezza e nel suo amore, ma rimane il fatto che c’è una via normale che è stata stabilita positivamente da Cristo: il battesimo è la via d’ingresso in questa vita nuova.

    Ma questa generazione che comincia col battesimo o in senso più lato con l’iniziazione cristiana, nella quale la grande tradizione della Chiesa non ha mai separato battesimo, cresima ed eucaristia, questa nuova nascita non è conclusa una volta per tutte. In effetti, non è data subito nella sua pienezza. Questa generazione è continua e progressiva. Costituisce tutta la vita cristiana. Dal battesimo alla morte, dobbiamo accrescere e sviluppare in noi questa vita nuova. Cristo deve incessantemente, sempre più, essere generato in noi. Tutta la vita del cristiano è una generazione, grazie alla collaborazione della nostra libertà. Perché essa si sviluppi, perché poco a poco possa produrre tutti i suoi effetti, occorre che noi acconsentiamo a questa vita nuova già in germe predisposta in noi col battesimo. Su questo ha molto insistito nelle sue lettere pastorali l’apostolo Paolo, segnatamente nell’epistola ai Colossesi, cap.2, dove parla della sua vita apostolica come di un combattimento continuo per i Colossesi e tanti altri affinché, dice,

 

«avendo il loro cuore strettamente avvicinato nell’amore, essi giungano alla completa pienezza dell’intelligenza (nel significato di comunione profonda e vitale con Dio e non nel senso intellettuale) che farà loro penetrare il mistero di Cristo».

 

    Già, nell’epistola ai Galati (cap. 4) San Paolo diceva:

 

«Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò suo figlio nato da donna perché ci conferisse l’adozione filiale. Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito di suo figlio che grida: Abba, Padre! Figli miei, che genero di nuovo nel dolore fino a che Cristo sia formato in voi».

 

    San Paolo sottolinea il fatto che attraverso l’incarnazione di Cristo, Dio ci ha adottati come suoi figli. Il giorno di Pentecoste, Dio ha mandato, attraverso Cristo risuscitato, il suo spirito nella chiesa e ancora, l’apostolo Paolo ha generato costantemente quei cristiani fino a che Cristo non si sia formato in loro. Questo formarsi di Cristo nella vita del cristiano ha qualcosa di continuo e di progressivo. Se vogliamo percepire tutta la dimensione di questa vita nuova, aggiungiamo che essa non sarà completata in noi se non nel giorno della parusia con la nostra resurrezione corporale. Nella prima epistola ai Corinti, parlando della resurrezione, San Paolo dice:

 

«Fratelli, dico che la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio. Né la corruzione l’incorruttibilità. Si, vi dirò un mistero: saremo trasformati. In un batter d’occhio, al suono della tromba finale, i morti risusciteranno, incorruttibili, e noi, saremo trasformati. Occorre infatti che questo essere corruttibile prenda la veste dell’incorruttibilità, che questo essere mortale prenda la veste dell’immortalità.»

 

    Troviamo qui l’espressione del vangelo di San Giovanni, la carne e il sangue sono ereditati dal regno di Dio ma già, col battesimo, riceviamo le primizie di questa nuova nascita che è un dono di Dio e si sviluppa nel corso della nostra vita cristiana. È, in fine, la trasformazione, la trasfigurazione del nostro stesso corpo nel giorno della resurrezione, la quale completerà questa nascita e che farà in modo che la vita divina, risuscitata, trasfigurata, spargerà tutti i suoi effetti nel nostro stesso corpo. Siamo dunque in presenza di una vita che ha una tendenza escatologica, che ci orienta verso una realizzazione finale che è la resurrezione e l’instaurazione del regno definitivo della Gerusalemme celeste. Ecco cosa significa questa generazione, questa nuova nascita attraverso la quale entriamo nella vita cristiana, questa nuova nascita che fa di noi nello stesso tempo membra di Cristo, figli di Dio e ci fa entrare nel regno di Dio nel senso che il Vangelo dà a questo termine.

 

    Di questa generazione, la Chiesa è il luogo ed il seno materno. E qui possiamo incontrare una difficoltà. In effetti, per l’uomo di oggi, la realtà della Chiesa è indubbiamente il punto più difficile da comprendere ed accettare della dottrina cristiana. Molti nostri contemporanei si sottraggono tuttavia all’ateismo ed ammettono più o meno coscientemente l’esistenza di Dio, in maniera a volte vaga. Per loro è già più difficile vedere in Cristo più che un maestro di saggezza o una personalità particolarmente esemplare. Troppo pochi sono oggi coloro che possono proclamare con San Pietro:

 

«Tu sei Cristo, il figlio del Dio vivente»,

 

o ancora:

 

«la salvezza non risiede in alcun altro perché sotto il cielo non v’è alcun altro nome dato dagli uomini per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati» (Atti, cap. 4).

 

    Ammettere che Cristo è l’unico Salvatore dell’umanità non è facile per l’uomo odierno. Si cade facilmente nel sincretismo che ci presenta nel cristianesimo una via tra le altre, una semplice forma di una ricerca spirituale che non ha nulla di esclusivo. Ma noi non possiamo essere salvati se non da Cristo. Se avviene che gli uomini possano essere salvati senza neppure conoscere Cristo, sono ugualmente salvati da Lui. Un po’ come il paralitico del Vangelo che fu guarito da Cristo senza sapere chi l’avesse guarito.

    Ammettere la necessità della Chiesa è ancor più difficile per l’uomo contemporaneo, e forse anche per noi stessi, riconoscere il suo ruolo essenziale nella nostra vita cristiana. Per molti uomini contemporanei, la Chiesa costituisce una difficoltà insormontabile. Anche tra i cristiani ortodossi credenti, praticanti, ce n’è senz’altro più d’uno che non realizza tutta l’importanza della Chiesa, che non le assegna il giusto posto nella propria vita spirituale. In effetti, perché non possiamo andare a Dio direttamente, rivolgerci a Cristo direttamente facendo a meno di qualsivoglia intermediario e di qualsiasi mediazione umana, di cui è fin troppo facile vedere lacune e difetti? Quale necessità c’è di aggregarsi a un corpo sociale, ad un popolo, fosse esso il popolo di Dio? Che bisogno abbiamo di sottometterci all’autorità di una gerarchia e di una tradizione? Perché la Chiesa? Perché, soprattutto, la Chiesa nel suo aspetto istituzionale – benché non si possa dire che la Chiesa sia una istituzione, non è un modo giusto di vedere cosa essa è, perché in tal caso la si vedrebbe in maniera troppo umana.

    La risposta, tuttavia, è semplice: perché Cristo ha voluto che sia così. Quando Pietro gli confessò la propria fede nella sua messianicità, Cristo gli disse: “ed io ti dico che tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò La mia chiesa” nel testo greco del Vangelo, Cristo usa il termine chiesa, che nella Bibbia greca dei settanta era la traduzione di una parola ebraica, che aveva a sua volta il proprio equivalente in aramaico, che significa assemblea, l’assemblea di Israele, che sta a indicare il popolo di Israele soprattutto come assemblea liturgica. Questo termine era stato ripreso poco tempo prima dell’epoca di Cristo da alcuni gruppi giudei che attendevano ardentemente la venuta del messia e che ritenevano di dovere costituire il gruppo fedele che doveva accogliere il messia, il nuovo Israele rigenerato che avrebbe accolto il re messianico. Cristo, usando quella espressione, sottolinea bene che ha l’intenzione di fondare e di costruire sugli apostoli, e su Pietro per primo, che riassume in lui tutto il corpo apostolico, di costruire su di lui quel popolo nuovo, quello Israele rinnovato, erede di tutte le promesse e in cui si sarebbe realizzato il disegno, tutto il destino di Israele e l’avvento del Regno di Dio. L’uso di quel termine mostra pure che la sua intenzione, la sua missione, la sua opera è fondare una Chiesa, intesa in quel senso. Il Signore Gesù affermava così la propria volontà di costruire una Chiesa e di associarsi degli uomini per esserne con Lui e in Lui le fondamenta.

    Pietro stesso, nella sua prima lettera, dirà ai cristiani che non sono individui isolati nella loro relazione con Dio, ma che sono membra di un popolo di cui l’antico Israele rappresentava l’abbozzo, la preparazione e la promessa.

 

«Siete una razza scelta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo che Dio si è acquistato perché annunciate le perfezioni di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua meravigliosa luce» (Prima Lettera di Pietro, cap.2).

 

    San Pietro riprende qui termini della tradizione biblica del Deuteronomio applicati al popolo di Israele. Per sottolineare l’importanza del ministero apostolico nella Chiesa, nella sua epistola agli Efesini, San Paolo riprende l’immagine della pietra angolare, che Cristo utilizzò a Cesarea di Filippo a proposito di Pietro:

 

«Voi siete concittadini dei Santi e membri della famiglia di Dio, edificati come siete sul fondamento degli apostoli e dei profeti di cui Gesù Cristo stesso è pietra angolare» (cap. 2).

 

    Questa volontà di Cristo di stabilire una Chiesa, di salvarci nella e attraverso la Chiesa, non ha invero nulla di arbitrario e gratuito. La fondazione della Chiesa mediante Cristo si identifica con lo scopo stesso di tutta la sua opera di salvezza, di tutta la sua opera redentrice. Il peccato, e questo è chiaro sin dai primi capitoli della Genesi, è essenzialmente un’opera di divisione: separandosi da Dio, l’uomo spezza il legame che lo unisce agli altri uomini. Lo testimonia tutta la storia dell’umanità a cominciare dal peccato di Adamo. Poi l’assassinio di Abele per mano di Caino, la Torre di Babele sino agli assassinii, ai genocidi e ai Gulag del nostro tempo. Il mistero della Salvezza compiuto da Cristo, al contrario, è essenzialmente un’opera di riunificazione. E si è unita alla nostra natura umana esangue e smembrata per comunicarle l’energia vivificante del suo Santo Spirito e così risaldarla e riunificarla rendendola partecipe della sua vita divina. Questo unico fine della sua opera redentrice Cristo esprimeva dinanzi al Padre nella preghiera dopo la Cena:

 

«darò loro la gloria (nel senso biblico del termine, cioè lo splendore della divinità, l’energia dello Spirito Santo) che tu mi hai data perché siano uno come noi siamo uno, io in loro e Tu in me, affinché siano perfettamente uno».

 

    Tutta l’opera di Cristo sta nel comunicarci questa vita divina che fa l’unità del Verbo e del Padre nella Trinità, che Cristo può risuscitare e possiede nella pienezza della sua umanità, che è la vita che lo Spirito Santo ha comunicato alla Chiesa attraverso il corpo apostolico nel giorno di Pentecoste. Il Signore Gesù ha voluto fare di noi i tralci della vera vigna, di cui egli è il ceppo, e le membra del suo corpo, di cui egli è la testa. Questo significa essere membro della Chiesa. Non significa semplicemente fare parte di un organismo sociale analogo a tanti altri, né entrare in una istituzione puramente umana. Significa identificarsi con Cristo, diventare membro delle sue membra, sottomettersi alla potenza unificante del suo spirito che ci vuole strappare alla nostra esistenza solitaria, al nostro individualismo, al nostro egoismo per avere un solo cuore e una sola anima, come i primi cristiani di Gerusalemme tra i quali tutto era in comune (pensiamo al capitolo 4 del libro degli Atti degli Apostoli). Essere membro del corpo di Cristo, è un’espressione che deve essere presa in tutta la sua forza. Non si tratta di dire che la Chiesa è semplicemente un corpo sociale, analogo al corpo personale di Cristo. In realtà, è il corpo risuscitato di Cristo che è per noi la fonte dello Spirito Santo, è a partire da questo corpo risuscitato che lo Spirito Santo è diffuso su di noi, come mostra benissimo il timpano della magnifica basilica di Vézelay, dove si vede Cristo risuscitato che spande il suo Spirito sugli Apostoli e su tutto l’universo, su tutte le razze dell’umanità. È questo dono dello Spirito, questa energia che emana dal corpo risuscitato anch’esso che è la nostra vita nuova, che è quella vita per la quale siamo generati, che è la vita di Cristo in noi, nel senso più appropriato, più esatto della parola. È questa vita non creata che ci viene da Cristo risuscitato e che ci salda a Cristo risuscitato. È in questo senso che siamo sue membra. Come nel nostro corpo fisico, le nostre membra sono irrigate dal sangue che viene dal cuore, allo stesso modo nella Chiesa, tutti membri della Chiesa, ciascuno di noi viene irrigato da questa energia divina, da questa forza dello Spirito Santo che viene dal corpo stesso, dall’umanità stessa di Cristo Dio e uomo, passando attraverso la sua umanità risuscitata pure essa e saldandoci a quel corpo risuscitato di Cristo, che riceviamo nell’eucarestia. Da qui il ruolo essenziale dell’eucarestia nell’ecclesiologia: mediante la comunione eucaristica siamo saldati pienamente al corpo risuscitato di Cristo. Lo siamo già inizialmente col battesimo e con la cresima, ma l‘iniziazione cristiana viene sigillata con l’eucarestia, perché essa ci fa partecipare veramente al corpo risuscitato di Cristo e non solo per alcuni istanti, in cui la presenza materiale dei Santi Doni sussiste in noi dopo la comunione, ma affinché in modo costante nella nostra vita cristiana, se non ci separiamo da Cristo col peccato, siamo vitalmente irrigati da quella vita divina che emana da Lui, che fa in modo che noi siamo in comunione costante con Lui, che i nostri sentimenti, la nostra vita psicologica stessa sia intimamente legata alla vita di Cristo, affinché abbiamo, come dice San Paolo, i sentimenti di Cristo, affinché non siamo più noi che viviamo ma Cristo veramente in noi. Nella misura in cui tutti i membri della Chiesa sono animati di questa vita, vedete che non possono che essere uno, che essi non possono essere che uniti poiché è la stessa vita, lo stesso spirito ad animarli, come le membra di un corpo fisico animate dallo stesso sangue sono uno nello stesso organismo.

    Corpo di Cristo, la Chiesa, almeno nella sua condizione presente, terrena, è un organismo gerarchizzato nel quale non hanno tutti la medesima funzione. Certamente, tutti, dai patriarchi al cristiano più umile, sono dapprima cristiani. Sono animati da questa vita, sono essi stessi fedeli chiamati a operare la loro salvezza, a ricevere il dono deificante dello Spirito Santo per la remissione dei loro peccati e per la vita eterna. E per ciascuno, questa è la cosa più importante più fondamentale. Essere prete, vescovo, patriarca non significa essere un cristiano superiore dal punto di vista di questa vita divina. Ma alcuni all’interno del corpo, nella loro unione con tutti, hanno ricevuto da Cristo una funzione particolare. Fu questo il caso degli apostoli, che ricevettero questo privilegio, e per primo Pietro, di essere le fondamenta della Chiesa, la pietra sulla quale poggia tutto l’edificio. Sotto questo aspetto la loro funzione era unica, non comunicabile: non poteva essere trasmessa a successori. Ma, animati dallo Spirito di Cristo, gli apostoli in ciascun luogo, dove fondavano la chiesa, hanno insediato dei vescovi, che nel corso dei secoli e nel mondo intero hanno perpetuato un altro aspetto, questo si trasmissibile, del loro ministero: rendere presente, in ogni luogo, attraverso l’annuncio della parola divina e la celebrazione dei misteri e dei sacramenti della Chiesa, Cristo e i suoi atti salvifici. I vescovi e i preti che essi si sono scelti come ausiliari sono così nella Chiesa come icone viventi di Cristo, nei quali non dobbiamo considerare che il loro divino prototipo, Cristo, senza soffermarci, quando riveriamo un’icona, sul legno in cui quelle icone sono intagliate, senza lasciarci irritare o scandalizzare dai loro difetti umani, inevitabili in quanto la Chiesa non è ancora entrata nella sua fase gloriosa, che sarà inaugurata col ritorno di Cristo alla fine dei tempi. Qui ancora siamo in presenza di una volontà formale di Cristo. I vescovi e tutti coloro che sono associati, in un modo o nell’altro, al loro ministero, sono gli inviati di Cristo che Cristo vuole vedere trattare come si tratterebbe lui stesso e, quindi, come il Padre. In San Matteo, egli dice agli apostoli:

 

«Chi vi ascolta mi ascolta, chi vi respinge mi respinge. Ora colui che mi respinge, respinge colui che mi ha mandato».

 

    La parola mandato, nella tradizione ebraica, ha un significato molto forte: essere l’inviato di qualcuno significa rappresentarlo, vuol dire in qualche modo essere la sua presenza vivente. O ancora:

 

«Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi»

 

dice Cristo ai dodici. Dobbiamo misurare bene tutta la forza di queste parole del Signore e coglierne tutta la richiesta. Si comprende così allora l’esortazione di Sant’Ignazio di Antiochia, il Teoforo, uno dei primi Padri della Chiesa che, nelle sue lettere, scriveva:

 

«Tutti riveriscano i diaconi come Gesù Cristo, così come il vescovo, che è l’immagine del Padre, e i presbiteri (oggi diremmo i preti) come il senato di Dio e come l’assemblea degli apostoli. Senza di loro, non si può parlare di Chiesa».

 

    Dunque la Chiesa è gerarchizzata, strutturata ed è attraverso questa gerarchia che la grazia di Dio, che la vita divina ci viene comunicata, che noi siamo generati.

«Che non ci sia nulla in voi che vi possa separare – continua in un’altra lettera Sant’Ignazio – ma unitevi al vescovo e al preposto, come immagine ed esempio d’incorruttibilità. Come il Signore non ha fatto nulla da sé, né per mezzo degli apostoli, senza il Padre, con il quale è uno solo, così anche voi, non fate nulla senza i preti e non cercate di fare passare come assennato ciò che fate a parte, ma fate tutto in comune».

    Si vede qui la preoccupazione di evitare ogni scisma, qualsivoglia spirito di clan, ogni spirito di partito, ma di fare tutto nell’unità intorno al vescovo, e si può dire in senso lato: nella comunione intorno all’unità ecclesiale. Il senso della Chiesa, dell’unità di tutti all’interno della Chiesa, attorno a coloro che rappresentano Cristo, sul piano gerarchico, è una grazia, un dono dello Spirito Santo. A questo dono dobbiamo rispondere cooperando attivamente. Dobbiamo amare soprattutto questa unità della chiesa e, perciò, evitare ogni spirito di parte, di divisione, di scisma. In ogni liturgia, il prete (o il diacono) proclama:

 

«amiamoci gli uni gli altri affinché in un solo medesimo spirito confessiamo il Padre, il Figlio e il Santo Spirito, Trinità consustanziale e indivisibile».

 

    Non possiamo davvero glorificare il Padre se non nella misura in cui viviamo questa comunione ecclesiale.

È dunque nella Chiesa che si compie la nostra generazione progressiva alla vita nuova. Nella Chiesa, nella comunione con la gerarchia della Chiesa, nel rispetto e amore della sua unità. E qui terminerò, leggendovi un passo di San Paolo, nella sua lettera agli Efesini, dove riassume bene tutto ciò e dove ne tira le conseguenze sul piano pratico [perché abitualmente, San Paolo presenta dapprima, nelle sue epistole, una parte dottrinale dove espone il contenuto del mistero cristiano; poi una parte pratica dove tira le conseguenze concrete per il dettaglio della nostra vita]. In questa epistola agli Efesini (cap. 4) San Paolo si riferisce dapprima al mistero dell’Ascensione e della Pentecoste ed applica a questo mistero il versetto del salmo 68 “Salito sulle alture, ha catturato dei prigionieri, ha dato doni agli uomini”. È salito. Che significa, se non che Egli è pure sceso nella regione inferiore della terra? E Colui che è sceso, è pure lo stesso che salito al di sopra di tutti i cieli per riempire ogni cosa e per riempire l’universo di quella grazia, di quello splendore increato della sua divinità, attraverso il suo corpo risuscitato. È sempre Lui che ha concesso agli uni di essere apostoli, agli altri di essere profeti o ancora evangelisti, oppure pastori e dottori, organizzando così i Santi per il momento del ministero, in vista della costruzione del corpo di Cristo.

    Perché questo corpo di Cristo è pure il vero tempio, il luogo di culto per la Nuova Alleanza, il luogo dove il divino e l’umano si riuniscono. È un’altra immagine accanto a quella della generazione di un corpo, quello di Cristo, per esprimere la stessa realtà. In vista della costruzione del corpo di Cristo al termine della quale, tutti insieme, dobbiamo giungere ad essere uno nella fede e nella conoscenza del Figlio di Dio. Per San Paolo, la conoscenza non è mai intellettuale né cerebrale, ma penetrazione del mistero mediante un’intima comunione. A costituire quell’uomo perfetto, nel corso del tempo, che realizza la pienezza di Cristo. Ciò che Sant’Agostino ha chiamato il Cristo totale, il Cristo col suo corpo personale, risuscitato e al quale sono saldate tutte le sue membra, gli uomini divinizzati, deificati mediante la grazia dello Spirito.

    Così non saremo più figli, non ci lasceremo più sballottare e trascinare ad ogni vento di dottrina, in balia della passione degli uomini e della loro astuzia a farci fuorviare nell’errore. Ma vivendo secondo verità e nella carità, cresceremo in ogni modo verso colui che è il capo, il Cristo, il cui corpo intero riceve concordia e coesione da tutti i tipi di giuntura che lo nutrono e lo animano secondo il ruolo di ogni parte, operando così la sua crescita e costruendo se stesso nella carità.

    Ogni parola meriterebbe di essere commentata. Si vede insieme il carattere progressivo di questa crescita in Cristo. È una nascita nuova che è continua, che è l’essenza della vita cristiana, ma nello stesso tempo che è un’opera collettiva, che è un’opera assembramento, di ricongiunzione in Cristo per costruire quel tempio nuovo, per edificare, fare nascere il Cristo totale.

San Paolo passa poi alle conseguenze pratiche:

 

«Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore di non comportarvi più come i pagani con i loro vani giudizi e la mente ottenebrata. Essi sono diventati estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che ha portato in loro l’indurimento dei cuori; una volta smorzato il loro senso morale, si sono lasciati andare alla depravazione sino al punto di perpetrare con frenesia ogni sorta d’impurità. Ma non così voi avete conosciuto Cristo, se almeno l’abbiate ricevuto in una predica e insegnamento conformi alla verità che è in Gesù».

 

    L’espressione “voi avete conosciuto Cristo” è bella: tutta la vita cristiana, significa che Cristo vive in noi. Cioè occorre abbandonare il primo genere di vita e spogliarsi dell’uomo vecchio, che va corrompendosi nell’inseguire brame ingannevoli, per rinnovarlo mediante una trasformazione spirituale del proprio sentire e indossare l’uomo nuovo che è stato creato secondo Dio nella giustizia e santità della verità.

Indossare il Cristo, indossare l’uomo nuovo morendo all’uomo vecchio, è un altro modo ancora di esprimere questa nuova nascita che deve compiersi nella Chiesa.

    Da quel momento, niente più menzogne. Ciascuno dica la verità al suo prossimo. Non siamo membra gli uni degli altri?

Tutta la carità cristiana è fondata sul fatto che siamo membra gli uni degli altri. Non è semplice filantropia sentimentale, ma coscienza di essere membra di Cristo, di essere animati dalla stessa vita, dallo stesso spirito.

    Non si deve dare opportunità di presa al diavolo. Chi rubava, non rubi più. Si pieghi piuttosto alla fatica del lavoro fisico sì da poter fare il bene sostenendo i bisognosi. Dalla bocca non esca più alcun cattivo proposito, ma piuttosto sempre una buona parola capace di edificare quando occorre e fare del bene a coloro che lo comprendono. Non contristate lo Spirito Santo di Dio che vi ha contrassegnati col suo sigillo per il giorno della redenzione.

    Contristare lo Spirito Santo, vuol dire proprio andare contro quell’unità, andare contro l’ispirazione interiore dello Spirito, che ci chiama ad essere uno in Cristo.

    Asprezza, impeto, clamore, oltraggio, tutto ciò deve essere estirpato dal cuore insieme alla malizia in tutte le sue forme. Al contrario, mostrarsi buoni e compassionevoli gli uni verso gli altri, perdonandosi reciprocamente, come Dio vi ha perdonati in Cristo. Sì, cercate di imitare Dio come fanciulli prediletti e seguite la via dell’amore, secondo l’esempio di Cristo che ci ha amati e si è dato per noi, offrendosi a Dio in sacrificio gradito.

    Quanto alla fornicazione, all’impurità sotto ogni forma, o ancora alla cupidigia, il loro nome non sia neppure pronunciato tra voi. Cosa che spetta ai santi.

    Per un cristiano, non c’è differenza tra morale e spiritualità, ci sono esigenze cristiane di vita che sono le stesse esigenze di quella vita nuova. Non sono precetti esterni, non sono leggi coercitive che ci vengono imposte dal di fuori.

 

 

Traduzione italiana del prof. G. M. Palermo 2005

 

 

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