Jean-Claude Larchet

 

Dio non vuole la sofferenza degli uomini

 

(Parziale traduzione del libro:

Dieu ne veut pas la souffrances des hommes,

Les Éditions du Cerf, Paris, 1999).

 

 

 

Introduzione

 

Il Cristianesimo, soprattutto in Occidente, si è manifestato – e ancor oggi si manifesta – come una religione che giustifica e valorizza la sofferenza.

Tale giustificazione proviene in gran parte dal fatto che il peccato originale è stato presentato attraverso il pensiero agostiniano – ampiamente imposto in Occidente – come un peccato inscritto nella natura degli uomini che tutti erediterebbero nascendo, di cui tutti sarebbero colpevoli e per il quale tutti devono pagare un tributo. La sofferenza e la morte, sarebbero il principale prezzo da pagare.

Per quanto riguarda la valorizzazione della sofferenza, essa è principalmente legata al fatto che lo stesso Figlio di Dio, disceso tra gli uomini, ha sofferto la passione ed è morto crocefisso per salvarli.

A differenza del Cristianesimo orientale – che ha posto l’accento sulla Resurrezione, facendo della festa di Pasqua la più grande delle feste, e lasciando intuire, nei servizi liturgici del venerdì santo, la prossima vittoria di Cristo sulla morte –, il Cristianesimo occidentale ha valorizzato la Passione e la Crocifissione di Cristo sottolineando il forte valore della “redenzione”, dando al venerdì santo una importanza che, nelle mentalità generali, oscurava spesso quella della Pasqua, al punto che, mediante il culto della “Via Crucis”, le sofferenze di Cristo erano analizzate, suddivise ed esaltate in una rappresentazione in cui l’immaginazione andava ben oltre quanto la Scrittura e la tradizione ci permettevano di conoscere.

Così, mentre il Cristianesimo orientale rappresentava nella sua iconografia della Crocifissione il Figlio di Dio sereno e rappacificato, già vittorioso sulla sofferenza e sulla morte, il Cristianesimo occidentale, partendo dall’arte gotica, favoriva lo sviluppo di un immaginario religioso in cui Cristo crocifisso veniva rappresentato in modo drammatico, nello sforzo di porre in evidenza le sue sofferenze con il più grande realismo possibile.

Correlativamente in Occidente si è sviluppata una pietà concentrata sul culto delle sofferenze di Cristo e sull’imitazione, da parte del cristiano, del Cristo sofferente. In questo modo la sofferenza non era solo accolta ma ricercata come una via privilegiata di salvezza, collegandola all’idea che essa permetteva “l’espiazione delle colpe” o l’acquisizione dei “meriti” per la salvezza. Così, dopo essere stata giustificata come punizione per il peccato originale, la sofferenza trovava una giustificazione inversa e complementare quale mezzo per sfuggire al peccato. Queste due giustificazioni daranno luogo ad alcune perversioni dell’ascesi cristiana (per esempio nelle pratiche ben conosciute dell’autoflagellazione o nell’uso del cilicio) e a volte ad un vero culto della sofferenza (nella corrente di pensiero “dolorista”).

Questa opinione, benché sia stata in una certa misura rettificata e purificata dai suoi eccessi, continua in modo diverso a marcare la coscienza ma anche l’inconscio collettivo nelle nostre società occidentali e ha esercitato ed esercita ancora su di esse effetti importanti molti dei quali si sono rivoltati contro lo stesso Cristianesimo. Infatti B. Vergely, in un suo recente trattato filosofico dedicato alla sofferenza, sottolinea: “Il fatto che, in Occidente, il Cristianesimo abbia glorificato la sofferenza da un certo momento della sua storia e che la glorifichi ancora, è una catastrofe spirituale, la cui conseguenza è stata e resta quella di disperare e rivoltare gli spiriti”[1].

In tal modo, le “filosofie del sospetto”, che hanno costituito altrettante critiche filosofiche al Cristianesimo, si sono in parte sviluppate contro tale rappresentazione. Nietzsche ne vide le implicazioni etiche (nella misura in cui queste portano al culto della debolezza), Marx le implicazioni economiche (nella misura in cui conducono a rassegnarsi davanti alla miseria) e Freud le implicazioni psicologiche (nella misura in cui favoriscono la frustrazione oppure lo sviluppo di certe perversioni come il masochismo).

Il culto moderno del piacere in tutte le sue forme si è senz’altro sviluppato come reazione contro una civiltà dominata da una morale cristiana che, per secoli, non ha solo condannato il piacere ma valorizzato la sofferenza.

L’attuale successo delle correnti religiose come la New Age o il buddismo, sono dovute in gran parte alla loro pretesa di permettere all’uomo di uscire da questo mondo di sofferenza in cui il Cristianesimo pare, sotto certi aspetti, mantenerli.

Coscienti del rifiuto di queste giustificazioni passate riguardo alla sofferenza, i cristiani non ottengono nulla se oggi si rifugiano in un’attitudine in cui la sofferenza è presentata come un mistero che bisogna rinunciare a illuminare, mentre la maggioranza dei filosofi e degli esponenti di altre religioni si propongono di darle un senso e di liberarne l’uomo. In realtà il Cristianesimo costituisce senza dubbio il tentativo più riuscito per comprendere il senso della sofferenza e saperla affrontare a patto che sia riportato correttamente nella giusta prospettiva.

Per farlo è necessario sbarazzarsi da una rappresentazione falsa e nociva ritornando alle sorgenti. Su tali argomenti i Padri greci ci offrono dei punti di vista spesso diversi dalla concezione agostiniana e dalla tradizione di pensiero nata in Occidente.

Questo studio, prevalentemente fondato sulle loro riflessioni, non è uno studio storico ma piuttosto un saggio teologico che privilegia certe prospettive e sviluppa, partendo da esse, una riflessione sistematica e, ci pare, coerente. Il suo fine è quello di dimostrare che né la teologia, né l’antropologia, né la spiritualità cristiane conducono necessariamente a giustificare e valorizzare la sofferenza e che, contrariamente, conducono per molti versi ad averne una rappresentazione a priori molto negativa. Pare dunque che, secondo un discorso molto chiaro di sant’Isacco il Siro, “Dio non vuole la sofferenza degli uomini”[2] e non l’ha mai voluta; il Cristo non è venuto tra noi per farci soffrire ma piuttosto per liberarci dalle sofferenze; il Cristianesimo non è fondamentalmente la religione della sofferenza ma del benessere che Dio ha donato all’uomo creandolo e che ha in mente di donargli per l’eternità.

 

[…]

 

 

Conclusione

 

La nostra riflessione ci ha progressivamente portato a un certo numero di conclusioni che qui ricapitoliamo.

 

1. La sofferenza è estranea al disegno di Dio nei riguardi dell’uomo e del mondo e non è stata posta dal Creatore.

I Padri hanno affermato come eretiche le credenze secondo le quali Dio era il creatore dei mali, dal momento che queste negano la bontà di Dio e attentano pure alla Sua stessa essenza.

La sofferenza fa parte delle realtà “contro natura”, testimonia una perversione, un’alterazione e una corruzione della natura quale è stata stabilita originalmente da Dio; come gli altri mali consiste in una privazione del bene.

L’uomo nel suo stato originale paradisiaco non conosceva la sofferenza e non era nell’intenzione di Dio che la potesse conoscere.

 

2. La sofferenza appartiene, secondo i Padri, ai mali che discendono dal peccato originale senza il quale non sarebbero esistiti. Questo essenziale legame della sofferenza, alle sue origini, con il peccato ancestrale si rinforza eventualmente (ma non necessariamente) con i peccati personali dei discendenti di Adamo che confermano, perpetuano ed estendono, a gradi differenti, gli effetti del peccato ancestrale.

Originalmente legata al male, dal momento che il peccato è la sua principale o secondaria causa, la sofferenza può pure risultare dall’attività malvagia e malevola dei demoni.

È pure importante sottolineare che le precedenti considerazioni non implicano né l’idea che gli uomini siano necessariamente colpevoli (per natura o personalmente) delle sofferenze subite, né l’idea che la sofferenza sarebbe una punizione divina.

 

3. Il carattere negativo della sofferenza proviene anche dal fatto che nell’uomo decaduto diviene una sorgente di peccato, da cui nascono e si sviluppano le passioni malvagie (che sono per lui altrettante maniere per fuggire ed evitare il dolore). Il dolore, come il piacere, per quanto appartenga alle passioni naturali e irreprensibili, costituisce la base dalla quale nascono e si sviluppano le passioni malvagie e contro natura con quanto le sostiene.

Così l’uomo si abbandona maggiormente al peccato e alle passioni. Dal momento che tende ad identificare il bene al piacere e il male al dolore, si forma una coscienza morale e spirituale annebbiata e confusa.

Il dolore (proprio come il piacere) esercita sull’uomo decaduto una pressione molto forte che può facilmente divenire una influenza o una tirannia sempre maggiore nella misura in cui acconsente al male e conferma così il suo potere.

A causa della passibilità dell’uomo decaduto (sorgente di dolore e sofferenza) si costituisce una zona di debolezza e fragilità che da facilmente presa al male.

I demoni approfittano di questa situazione, agendo prioritariamente sulla passibilità dell’uomo, come abitualmente vogliono, per portarlo al peccato e a sviluppare passioni malvagie.

 

4. Il libro di Giobbe conferma molte conclusioni precedenti.

Vi si può particolarmente notare che Dio non è la causa dei mali accaduti a Giobbe.

L’idea che ne ha Giobbe stesso è in rottura con la generale logica dell’Antico Testamento secondo la quale Dio eserciterebbe un’immanente giustizia ricompensando i giusti e punendo i malvagi.

Un costante e fondamentale insegnamento del libro è che i mali dei quali Giobbe soffre non solo non sono un castigo dei peccati personali, ma non hanno assolutamente alcun rapporto con tali peccati. Al contrario, è proprio perché Giobbe è giusto che soffre: la sua giustizia eccita la gelosia e la malvagità del diavolo.

È alle azioni di questo ultimo che sono dovuti i mali patiti da Giobbe e le sofferenze ad essi legate. I mali sono favoriti da una debolezza della natura di cui Giobbe intravede il legame con il peccato primordiale i cui effetti intaccano ogni uomo.

La sofferenza pare essere come una tentazione che Giobbe, con le sue virtù e il particolare aiuto di Dio, può superare. Con le sue domande, il suo desiderio di un Mediatore e di un Salvatore, Giobbe, in nome dell’umanità che vive sotto l’Antica Alleanza, attende e annuncia il Cristo. Egli lo prefigura pure, essendo un “giusto sofferente” ed avendo un indefettibile accordo della volontà con Dio fino alle più grandi prove.

Attraverso la sua fede, il suo attaccamento a Dio e la sua speranza, e per la sua finale vittoria sulle tentazioni nella prova e nella sofferenza, prefigura il cristiano che trae beneficio dalla grazia acquisita all’umanità da Cristo e annuncia il nuovo statuto della sofferenza nella Nuova Alleanza.

 

5. Cristo è il Mediatore e il Salvatore che chiamava Giobbe. Essendo stato concepito virginalmente, non ha ereditato una passibilità che lo dominasse e resta totalmente libero nei riguardi della legge del peccato che ammala la natura decaduta degli altri uomini e li tirannizza attraverso la sofferenza.

Siccome ha assunto volontariamente la sofferenza e siccome la Sua volontà umana ha ricevuto l’assistenza della potenza della divinità, possiede il potere di resistere alle tentazioni esercitate dai demoni attraverso la sofferenza, non dando presa né al peccato né alle passioni malvagie che si suscitano da essa. La Sua volontà resta immutabilmente in accordo con la volontà divina e rimane, più fortemente della sofferenza, esente da ogni peccato e, a maggior ragione, da ogni rivolta contro Dio.

Attraverso questo, Cristo ci mostra l’attitudine da adottare per affrontare la sofferenza e le tentazioni che sono ad essa legate. Soprattutto ci acquisisce la grazia per poter adottare efficacemente la sua stessa attitudine, per non essere più sottomessi spiritualmente alla sofferenza, per evitare gli effetti nefasti (peccati e passioni) che i demoni cercano di indurre da essa.

 

6. Il progetto di Cristo è che la sofferenza sia abolita e che gli uomini non soffrano più. Detto diversamente, si tratta di liberare definitivamente la natura  umana e restaurarla nel suo stato originale e paradisiaco.

Questo progetto è stato compiuto da Cristo su se stesso in modo attuale e perfetto ma per gli uomini è solo allo stato potenziale. È alla fine dei tempi, dopo la resurrezione, che la natura umana acquisirà il nuovo modo di esistenza che essa ha ricevuto in Cristo.

L’ingresso nel Regno dei Cieli per coloro che sono uniti a Cristo, significherà la fine definitiva della sofferenza del corpo e dell’anima.

Nonostante ciò, Cristo ha già anticipato l’abolizione della sofferenza nel Regno dei Cieli sollevando dalle loro sofferenze coloro che, nella Sua vita terrestre, venivano a Lui e oggi continua ad operare tali miracoli.

In nessuno dei Suoi discorsi non ha mai giustificato la sofferenza.

Al contrario, con il suo comportamento ha mostrato che sollevare gli uomini dalle loro sofferenze è un'essenziale dimensione della carità nei riguardi del prossimo.

Lo sviluppo delle cure medicinali per opera dei cristiani del Cristianesimo antico mostra chiaramente che questo ultimo non ha un'attitudine di passività e di fatalismo nei riguardi della sofferenza ma considera come un dovere spirituale quello di combatterla per ridurla e, nella misura del possibile, annullarla.

 

7. Vi sono diverse ragioni che spiegano perché la sofferenza, per quanto sia stata potenzialmente abolita da Cristo, sussista nel mondo finché la natura, alla fine dei tempi, venga trasformata.

La sofferenza rimane un fatto che, piuttosto che essere aggirato, dev'essere assunto e affrontato meglio possibile. È una constatazione saggia e pragmatica che ne fa il Cristianesimo. D’altronde per tale compito il cristiano dispone di considerevoli possibilità.

In Cristo la sofferenza ha ricevuto un nuovo statuto: ha perso il suo potere tirannico d’indurre al peccato e alle passioni e di poter essere utilizzata dalle potenze malvagie per condurre l’uomo al male. Al contrario, la sofferenza può oramai essere utilizzata come un mezzo per combattere il peccato e le passioni e vincere le potenze del male.

Con la grazia di Cristo ricevuta nel battesimo, oramai "la potenza [di Cristo] si mostra nella debolezza" dell'uomo (2 Cor 12, 9). Il cristiano riceve la capacità di rimanere spiritualmente distaccato e impassibile di fronte alla sofferenza. Non solo può evitare che questa lo porti al male ma ne fa pure un’occasione di progresso spirituale. Lungi dal trascinarlo a peccare e a sviluppare delle passioni, la sofferenza può essere per lui un'occasione per purificarsi dai propri peccati e passioni e di sviluppare comportamenti virtuosi.

Il buon uso della sofferenza suppone comunque quattro disposizioni principali che una pratica regolare permette di elevare a virtù: la pazienza, la speranza, la preghiera e l'amore di Dio.

Nello sforzo impiegato per adottare e sviluppare queste disposizioni spirituali, il cristiano ha Cristo come modello e pedagogo.

Bisogna precisare, tuttavia, che se si può trarre del profitto spirituale dalla sofferenza non la si deve in ogni caso ricercare con questo fine. Il Cristianesimo non fa della sofferenza un fine della vita spirituale e neppure un mezzo obbligato per tale vita. I beni spirituali acquisiti nella sofferenza non sono ricevuti da questa, ma all'occasione di questa. Inoltre, non dipendono tanto dalla sofferenza stessa quanto dall'attitudine assunta dall’uomo nei suoi riguardi. In quanto beni sono sempre un dono di Dio.

La sofferenza costituisce di fatto una prova che, secondo la disposizione adottata nei riguardi di Dio, può condurre l'uomo sia alla sua perdizione sia alla sua salvezza. Scegliendo questa ultima via e progredendo in essa, il cristiano ha Cristo come guida esperta e compassionevole.


 

[1] La souffrance, Paris, 1977, p. 327.

[2] Discours ascétiques, 3.

 

 

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