IL MONACHESIMO ORTODOSSO

 

L’intimo senso spirituale del monachesimo ortodosso si rivela nel sentimento della gioiosa tristezza (dal greco harmolipi). Questa paradossale espressione denota uno stato spirituale nel quale un monaco, nella sua preghiera, si addolora per i peccati del mondo e, allo stesso tempo, ha esperienza della gioia spirituale che nasce dal perdono di Cristo e dalla sua risurrezione. Un monaco muore solo per vivere veramente, si dimentica solo per trovare il suo io vero in Dio, diviene ignorante della conoscenza mondana solo per raggiungere la reale saggezza spirituale che è possibile acquisire unicamente nell’umiltà.

 

Il refettorio di un monastero cenobitico

Con lo sviluppo del monachesimo nella Chiesa apparve un modo particolare di vita che, comunque, non determinò una nuova morale. La Chiesa non ha una raccolta di regole morali per i laici e un’altra per i monaci e non divide neppure i fedeli in classi a seconda dei loro obblighi verso Dio. La vita cristiana è identica per tutti. Tutti i cristiani hanno in comune il fatto che “il loro essere e nome viene da Cristo”[1]. Ciò significa che il vero cristiano deve seppellire sotto terra la sua vita e la sua condotta in Cristo, cosa particolarmente dura da praticare nel mondo.

Quanto è difficile nel mondo viene coltivato con dedizione nella vita monastica. Nella sua vita spirituale il monaco cerca semplicemente di fare quello che ogni cristiano dovrebbe cercare di compiere: vivere secondo i comandamenti di Dio. I principi fondamentali del monachesimo non sono diversi da quelli della vita di ogni fedele. Ciò è particolarmente chiaro nella storia della Chiesa primitiva, prima che apparisse il monachesimo.

Nella tradizione della Chiesa c’è una chiara preferenza per il celibato come stato opposto a quello dell’uomo sposato. Questa posizione non è naturalmente ostile al matrimonio, che è riconosciuto come un mistero profondo[2], ma indica semplicemente che il matrimonio offre maggiori ostacoli pratici per il perseguimento della vita spirituale. Per tale ragione, sin dai primi albori del Cristianesimo, molti fedeli hanno scelto il celibato. In tal modo Athenagora il Confessore nel secondo secolo scrisse: “Puoi trovare molti uomini e donne che rimangono celibi per tutta la vita nella speranza di giungere più presso a Dio”[3]. Sin dai suoi inizi, la vita cristiana è stata associata con il rifiuto della propria volontà e con il sacrificio: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”[4]. Cristo ci chiama a darci totalmente a lui: “Chi ama suo padre e sua madre più di me non è degno di me, e chi ama suo figlio o sua figlia più di me non è degno di me”[5].

Ecco perché sono state coltivati fin dall’inizio la preghiera fervente e incessante, l’obbedienza agli anziani della Chiesa, l’amore fraterno e l’umiltà, oltre alla pratica di tutte le virtù essenziali per la vita monastica.

Non si può negare che il monaco e lo sposato hanno due modi diversi di vita, tuttavia questo non cambia la loro comune responsabilità verso Dio e verso l’adempimento dei Suoi comandamenti. Ognuno di noi ha un suo dono proprio e speciale nell’unico Corpo dell’indivisibile Chiesa di Cristo[6]. Ogni modo di vita, sposato o celibe, è soggetto ugualmente alla volontà assoluta di Dio. Oramai nessun modo di vita può essere preso come una scusa per ignorare o risponde solo in ciò che vogliamo alla chiamata di Cristo e dei Suoi comandamenti. Entrambe le vie richiedono grande impegno e determinazione.

Un eremitaggio solitario

San Giovanni Crisostomo sottolinea con grande enfasi lo stesso punto: “Ti inganni fortemente ed erri, se pensi che una cosa sia richiesta al laico e un’altra al monaco; l’unica differenza tra i due è che uno è sposato, l’altro no, ma sotto ogni altro aspetto hanno le medesime responsabilità... Poiché tutti devono raggiungere la stessa altezza; eppure noi pensiamo che solo il monaco è colui che ha voltato le spalle al mondo e deve perciò vivere rigorosamente, mentre il resto degli uomini ha il permesso di vivere una vita indolente!”[7]. Riguardo all’osservanza di particolari comandamenti evangelici, egli dice: “Chiunque è in collera con suo fratello senza causa, malgrado sia un laico o un monaco, si oppone allo stesso modo a Dio. E chiunque guarda con desiderio una donna, qualunque sia la sua condizione sociale, commette lo stesso peccato”. Il Santo osserva generalmente che, dando i suoi comandamenti, Cristo non opera alcuna distinzione tra le persone: “Un uomo non si definisce per il fatto d’essere laico o monaco, ma dal modo in cui pensa [e vive]”[8].

I comandamenti di Cristo richiedono severità di vita, una severità che spesso ci attendiamo solo dai monaci. La richiesta di un comportamento decente e sobrio, la condanna della ricchezza e l’adozione della frugalità[9], l’evitare i vani colloqui e l’impegno a mostrare un amore altruista non è indicato solo ai monaci, ma ad ogni fedele.

Perciò, il rifiuto del modo mondano di pensare è un dovere non solo per i monaci, ma per tutti i Cristiani. Il fedele non deve avere una mentalità mondana, ma deve vivere nel mondo come uno straniero e lavorare con la mente rivolta costantemente a Dio. La casa dei Cristiani non è su questa terra, ma nel Regno del Cielo: “Per adesso non abbiamo una città durevole, ma cerchiamo la città che deve venire”[10]. La Chiesa non può essere vista che come un comunità in cammino. Il mondo è la sua casa provvisoria ma la Chiesa è fatta per il Regno di Dio. Proprio come gl’israeliti liberati dalla schiavitù d’Egitto, mentre viaggiavano verso Gerusalemme subendo molte prove e tribolazioni, così il cristiano, liberato dalla schiavitù e dalla dipendenza dal peccato, viaggia attraverso molte prove e tribolazioni verso il Regno del Cielo.

L’eremitaggio San Basilio presso il Monastero serbo di Chilandari nel Monte Athos

Nei primi secoli cristiani quest’esodo dal mondo non richiedeva un luogo diverso ma un modo diverso di vivere. Un uomo non si allontana da Dio e si volge al mondo fisicamente ma spiritualmente, perché Dio è dappertutto e agisce in tutto. Così, allo stesso modo, il rifiuto del mondo e l’accoglienza di Dio non fu recepita in senso fisico ma come un differente modo di vita. Questo è chiaro specialmente nella vita dei primi cristiani. Benché vivessero nel mondo essi erano pienamente consapevoli che non erano espressione di questo mondo e non vi appartenevano: “Siete nel mondo ma non del mondo”[11]. E coloro che vissero in castità e povertà, cosa divenuta più tardi fondamentale per la vita monastica, non abbandonarono il mondo né si recarono sulle montagne.

Il distacco fisico dal mondo aiuta l’anima a rigettare il modo mondano di vivere. L’esperienza dimostra che la salvezza dell’uomo è difficile da acquisire nel mondo. Basilio il Grande indica che è dannoso vivere tra uomini che non si curano dell’osservanza rigorosa dei comandamenti divini. È estremamente difficile, se non impossibile, rispondere alla chiamata di Cristo, prendere la propria croce e seguirLo nell’ambito della vita mondana. Tra la moltitudine dei peccatori, non solo non si vedono i propri peccati ma si cade pure nella tentazione di ritenersi migliori e di aver raggiunto qualche risultato, dal momento che ci paragoniamo con coloro che sono peggio di noi. Inoltre, l’urto e il trambusto della vita quotidiana ci distrae dal ricordo di Dio. Non ci impedisce di sentire in noi la gioia intensa della comunione con Dio, ma ci conduce a disprezzare e dimenticare la volontà divina.

Questo non significa che allontanarsi dal mondo garantisca la salvezza, ma certamente ci aiuta nella nostra vita spirituale. Quando qualcuno si dedica completamente a Dio e alla Sua volontà, nulla può arrestarlo nella sua corsa verso la salvezza. San Giovanni Crisostomo dice: “Non c’è alcun ostacolo in chi lavora con forza per la sua virtù. Non così per quegli uomini che hanno un ufficio, per quelli che hanno moglie e figli a cui badare, per quelli che hanno servitori da istruire, per quelli che hanno posti d’autorità e vogliono impegnarsi nell’essere virtuosi”[12].

San Simeone il Nuovo Teologo osserva: “Vivendo in una città non siamo impediti a seguire i comandamenti di Dio ma dobbiamo essere zelanti, silenziosi e solitari. Non ci è d’alcun beneficio essere accidiosi e negligenti”[13]. Altrove egli dice che è possibile a tutti, non solo ai monaci, pure ai laici, “pentirsi e piangere continuamente pregando Dio e, con queste azioni, acquisire tutte le altre virtù”[14].

Monaco athonita

Il monachesimo ortodosso è sempre stato associato alla calma o al silenzio, qualità che sono primariamente uno stato interiore più che esteriore. Il silenzio esterno viene cercato per raggiungere più facilmente un’intima calma della mente. Questa calma non è un tipo d’inerzia o d’inattività, ma il risveglio e l’attivazione della vita spirituale. È vigilanza intensa e devozione totale a Dio. Vivendo in un luogo quieto il monaco riesce a conoscersi meglio, a combattere più profondamente le sue passioni, a purificare più pienamente il suo cuore, in modo da essere ritenuto degno di contemplare Dio.

Il padre di San Gregorio Palamas, Costantino, visse una vita tranquilla anche se era senatore e membro della corte imperiale a Costantinopoli. L’essenza di questo genere di vita è il distacco dalle passioni mondane e la completa devozione a Dio. Ecco perché San Gregorio Palamas dice che la salvezza in Cristo è possibile a tutti: “Sono davvero benedetti il coltivatore, il lavoratore del cuoio, il muratore, il sarto, il tessitore e in genere tutti quelli che si guadagnano da vivere con le loro mani e con il sudore della propria fronte, che rigettano da sé il desiderio della ricchezza, della fama e del benessere”[15]. Allo stesso modo San Nicola Kavasilas osserva che non è necessario per nessuno fuggire nel deserto, mangiare del cibo insolito, cambiare il proprio vestito, rovinarsi la salute o praticare qualche altra cosa per rimanere offerti a Dio[16].

La vita monastica, come allontanamento fisico dal mondo per abitare nel deserto, è iniziata nella metà del terzo secolo. Lo sciamare cristiano nel deserto è stato in parte generato dalle aspre persecuzioni romane del tempo. La crescita del monachesimo, comunque, è cominciata al tempo di Costantino il Grande e si è in gran parte generata dal rifiuto di molti cristiani ad adattare la Chiesa al carattere più mondano rispetto ai tempi iniziali e al desiderio di condurre una severa vita cristiana. Così il monachesimo si è sviluppato contemporaneamente in varie regioni, del Mediterraneo sud orientale, in Egitto, Palestina, Sinai, Siria e Cipro. Subito dopo ha raggiunto l’Asia Minore e l’Europa. Durante il secondo millennio, comunque, il Monte Athos è divenuto il centro del monachesimo ortodosso.

La più comune e sicura forma per condurre la vita monastica è quella cenobitica. Nel monastero cenobitico tutto è condiviso: alloggio, cibo, lavoro, preghiera, impegno, cure, lotte e risultati. Il capo e padre spirituale del cenobio è l’abate o igumeno. È famosa l’esortazione all’abate da parte di Sant’Athanasio l’Athonita: “Prendi cura che i fratelli abbiano tutto in comune. Nessuno deve possedere più d’un ago. Tuo è solo il tuo corpo e la tua anima, nient’altro! Tutto deve essere ugualmente condiviso con amore tra tutti i tuoi figli spirituali, fratelli e padri”.

Il cenobio è l’ideale comunità cristiana. In esso non è fatta alcuna distinzione tra ciò che è tuo e ciò che è mio ma tutto è pensato per coltivare un atteggiamento comune e uno spirito di fraternità. Nel cenobio l’obbedienza di ogni monaco al suo abate e la sua fratellanza, la sua gentilezza amorosa, la solidarietà e l’ospitalità hanno la più grande importanza. San Teodoro Studita osserva che l’intera comunità dei fedeli deve essere, alla fine, una Chiesa cenobitica[17]. Così il cenobio monastico è il più costante tentativo per giungere ad un’immagine di piccola Chiesa.

Il monastero athonita di Grigoriou

In questa “fuga mundi” il monachesimo sottolinea la posizione della Chiesa come un’ “anti-comunità” nel mondo e, grazie al suo intenso ascetismo spirituale, coltiva lo spirito escatologico. La vita monastica è descritta come “lo stato angelico”, in altre parole, come uno stato di vita nel quale si segue in terra l’esempio della vita in Cielo. La verginità e il celibato si spiegano in questo quadro e sono condizioni che anticipano quella delle anime nella vita futura nella quale “non si prenderà né sposa né marito ma saremo simili agli angeli in Cielo”[18].

Molti considerano il celibato come la caratteristica peculiare della vita monastica. Questo non significa che il celibato sia l’aspetto più importante di tale vita: semplicemente è una nota che distingue questo modo di vivere. Tutti gli altri obblighi, anche gli altri due voti monastici di obbedienza e povertà, riguardano essenzialmente pure ogni fedele. È necessario sapere che l’impegno cristiano assume una forma particolare nella vita monastica ma non tocca in nulla l’essenza del discorso [=l’integralità e la coerenza cristiana sono indispensabili anche a chi non è monaco].

Tutti i cristiani sono obbligati ad osservare i comandamenti di Dio, ma questo richiede grande impegno. La natura umana decaduta e asservita alle passioni è riluttante ad adempiere quest’obbligo. Essa cerca il piacere ed evita la pena che si crea nel combattimento con le passioni e con l’egoismo. La vita monastica è pensata per facilitare questa lotta. D’altra parte la vita mondana, particolarmente nella nostra società secolare, rende la vita ascetica particolarmente dura. Il problema per il cristiano nel mondo sta nel fatto che è chiamato a raggiungere la stessa meta del monaco ma in condizioni avverse.

La tonsura monastica, ossia il taglio dei capelli al momento in cui un uomo diviene monaco, è chiamata il “secondo battesimo”[19]. Il battesimo, comunque, è uno ed lo stesso per tutti i membri della Chiesa. È la partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo. La tonsura monastica non ripete, ma rinnova ed attiva la grazia battesimale. I voti monastici non sono essenzialmente diversi da quelli battesimali, con l’eccezione del voto del celibato. In effetti, i capelli vengono tagliati anche durante battesimo.

 

I punti che contraddistinguono la via di perfezione monastica

Tutta la Chiesa è chiamata alla perfezione. Ogni fedele, sia laico che monaco, è chiamato a divenire perfetto seguendo l’esempio divino: “Siate perfetti come il Padre vostro Celeste è perfetto”[20]. Ma dal momento che il monaco afferma l’integrale natura della vita cristiana, il laico è tenuto, alla sua maniera, ad affermarlo. La moralità “convenzionale” del laico da una parte e la moralità integrale del monaco dall’altra creano una differenziazione dialettica che prende la forma di un’antitesi dialettica.

San Massimo il Confessore, nel contrapporre la vita monastica con quella mondana, osserva che i successi di un laico sono i fallimenti per un monaco e viceversa: “I risultati positivi del mondano sono fallimenti per i monaci; mentre i risultati positivi per i monaci sono fallimenti per il mondano. Quando il monaco è esposto a ciò che il mondo considera ricchezza, successo, fama, potere, piacere, buona salute e molti figli, è distrutto. E quando un uomo mondano si trova nello stato povero desiderato dal monaco, nell’umiltà, nella debolezza, nel limite esistenziale, nella mortificazione e in cose simili, si considera un disastro. In tale disperazione molti si possono veramente considerare come impiccati. Ed è così che alcuni si sono impiccati davvero!”[21].

Il monastero athonita serbo di Chilandari

Naturalmente qui il paragone è tra il monaco perfetto ed un cristiano molto mondano. Comunque, in circostanze più normali, nella Chiesa le stesse cose funzionano in modo naturalmente diverso. Tuttavia questa differenza non può mai raggiungere una diametrica opposizione. Così, per esempio, la ricchezza e la fama non può essere vista come cosa ugualmente distruttiva per i monachi e i laici. Queste cose sono sempre nocive per i monaci, perché contrastano con il modo di vita da loro scelto. Per i laici, comunque, la ricchezza e la fama può essere anche un beneficio, pure se comporta dei rischi mortali. L’esistenza della famiglia e della società secolare con le sue necessità e le sue svariate esigenze, non solo giustifica ma qualche volta rende necessario l’accumulo di ricchezze e l’assunzione d’un alto compito. Tutto ciò che nel mondo può unire, nella vita monastica divide. Comunque, l’ultimo e supremo unificatore è Cristo stesso.

La vita cristiana non dipende solo dallo sforzo umano ma primariamente dalla grazia di Dio. Gli esercizi ascetici in tutte le loro forme e gradi non mirano altro che a preparare l’uomo armonizzando la sua volontà a quella di Dio per riceve la grazia dello Spirito Santo. Quest’armonizzazione raggiunge la sua più alta espressione e perfezione nella preghiera. “È nella vera preghiera che entriamo e dimoriamo nell’Essere Divino grazie al potere del Santo Spirito”[22]. Ciò conduce l’uomo al suo archetipo e lo rende una persona vera nella somiglianza con il suo Creatore.

La grazia della vita cristiana non è fondata da forme esterne. Non è fondata in esercizi ascetici, in digiuni, veglie e mortificazioni della carne. Quando questi esercizi sono praticati senza alcun discernimento divengono veramente detestabili. Questa repulsività non si origina dalla loro forma esterna ma dalla loro motivazione. Così tali esercizi divengono detestabili non solo perché appaiono esteriormente come un rifiuto della vita, un disprezzo per le cose materiali o un’auto-abbandonarsi, ma anche perché mortificano lo spirito, incoraggiano l’orgoglio e coltivano l’auto-giustificazione.

Viceversa la vita cristiana non è un rifiuto ma un’affermazione. Non è morte, ma vita. Non è solo affermazione e vita, ma è l’unica affermazione e vera vita. È affermazione vera perché và oltre ogni possibilità di rifiuto ed è la sola vita vera perché è la sconfitta della morte. La negativa atmosfera di alcune forme esterne di vita cristiana è dovuta precisamente al tentativo di affermarsi nonostante il rifiuto umano. Dal momento che non esiste alcuna affermazione umana che non finisca in un rifiuto, e nessuna vita mondana che non finisca nella morte, la Chiesa ha il suo giusto posto quando svela la sua vita dopo aver accettato ogni negazione umana e confermato ogni forma di morte mondana.

Il potere della vita cristiana si lega alla speranza della risurrezione, mentre il fine dello sforzo ascetico è partecipe della resurrezione. La vita monastica, come la vita angelica del Cielo vissuta nel tempo, è la preconoscenza e la pregustazione della vita eterna. Non mira a gettare via l’elemento umano, ma mira a vestirsi d’incorruttibilità e d’immortalità: “Perciò noi che siamo ancora in questo tabernacolo sospiriamo, essendo aggravati: e se perciò desideriamo già d’essere spogliati, ma sopravestiti, di modo ché ciò che è mortale sia assunto dalla vita”[23].

Una monaca suona il Simandro: è il segnale che chiama alla preghiera
 

I sospiri e la lacerazione sono il prodotto della presenza del peccato, che genera pure la sofferenza d’essere liberi dalle passioni e di riguadagnare un cuore puro. Queste cose richiedono una lotta ascetica, e un atteggiamento indubbiamente combattivo, dal momento che con esse si giunge all’umiltà. Tali lotte ascetiche rendono esausti e dolenti, perché vanno contro a stati e abitudini che sono divenute una seconda natura. È comunque precisamente attraverso quest’umiliazione, quest’auto purificazione che l’uomo apre la via per la rivelazione della grazia di Dio che gli appare e agisce nel suo cuore. Dio non si manifesta ad un cuore impuro.

I monaci sono definiti “guardiani.” Essi scelgono di sacrificare le loro necessità fisiche per raggiungere la libertà spirituale offerta da Cristo. Essi si legano al regno della morte per sperimentare più intensamente la speranza della vita futura. Si riconciliano con quella dimensione nella quale l’uomo è sconfitto ed annichilito, sentendo tale riconciliazione nel loro stesso corpo, trasformato all’interno della Chiesa e orientato verso il Regno di Dio.

La giornata del monaco è un cammino di perfezione graduale intessuto di diverse rinunce, che possono essere riassunte in tre. La prima rinuncia coinvolge completamente l’abbandono del mondo. Questo non si limita alle cose, ma include le persone e i propri genitori. La seconda è la rinuncia alla volontà individuale, la terza è la libertà dall’orgoglio che viene identificata con la libertà dall’atteggiamento fluttuante del mondo[24].
Queste rinunce successive hanno un significato positivo, non negativo. Permettono ad un uomo di aprirsi pienamente a Dio e di perfezionarsi ad “immagine e somiglianza” divine. Quando l’uomo si libera dal mondo e da se stesso si espande senza limiti. Diviene un persona vera che “include” in sé l’intera umanità come Cristo stesso. Questo è il motivo per cui, sul piano morale, il cristiano è chiamato ad amare tutti gli esseri umani, pure i suoi nemici. Allora Dio viene ad abitare in lui e l’uomo giunge alla pienezza del suo essere teantropico (= umano-divino)
[25]. Vediamo in ciò la grandezza della persona umana e possiamo capire che le lotte ascetiche hanno bisogno di una perfezione che l’uomo da solo non può dare.

La vita monastica è vita di perpetua ascesa spirituale. Mentre il mondo segue una via limitata dalle terrene contingenze, i fedeli con i loro obblighi e distrazioni mondane cercano di stare nei limiti istituzionali tracciati dalla Tradizione della Chiesa, il monachesimo segue un’altra direzione e vola in alto. Rifiuta certi compromessi e cerca l’assoluto. Si lancia lontano da questo mondo per correre verso il Regno di Dio. Questa è la meta essenziale della Chiesa stessa.

La scala della divina ascesa

Nella Tradizione della Chiesa questo percorso è dipinto come una scala che ascende verso il Cielo. Non tutti possono raggiungere la cima di questa scala spirituale. Molti riescono a giungere solo i primi gradini. Altri quelli successivi. Ci sono pure coloro che cadono da una posizione più alta a un’altra sottostante. La cosa importante non è l’altezza raggiunta ma la lotta incessante per tendere più in alto. Soprattutto la cosa più importante è che quest’ascesa si realizza solo progredendo nell’umiltà, cioè attraverso l’abbassamento di sé. “Tieni la mente nell’inferno e non disperare” rivelò Dio a San Silvano del Monte Athos. Quando l’uomo scende all’inferno nella sua intima lotta ha Dio in sé; allora è innalzato e trova la pienezza del suo essere[26].

Alla cima di questa scala spirituale ci sono i “folli per amore di Cristo”, definizione che l’Apostolo Paolo attribuisce a sé e agli altri apostoli[27], “folli” che “sono tali per amore di Cristo e si beffano delle vanità del mondo”[28]. Cercare la gloria tra gli uomini – afferma Cristo – impedisce di credere in Dio[29]. Solo quando l’uomo rigetta il proprio orgoglio può sconfiggere il mondo e dedicarsi a Dio[30].

Nelle vite dei monaci il cristiano vede esempi di uomini che hanno preso seriamente la fede cristiana e si sono impegnati in un percorso che ognuno è chiamato a seguire. Non tutti i monaci hanno raggiunto la perfezione, ma hanno cercato di raggiungerla e sono giunti ad una certo livello. Non tutti hanno posseduto i medesimi talenti, ma tutti si sono sforzati di essere buoni e fedeli servitori. Non hanno praticato il cristianesimo per essere additati quali modelli, specialmente da parte dei laici. Sono, invece, da considerarsi dei preziosi cartelli indicatori della strada della perfezione, comune a tutti, che ha il suo climax nella perfezione di Dio.

 

Georgios I. Mantzarides
Professore alla Scuola Teologica dell’Università di Salonicco (GR)
 

[tratto dal libro (testo abbreviato):
monaco Caritone, Ματιές στον Άθω – Images of Athos (edizione bilingue), 1997]

 

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Monachesimo.htm

 

[1] Massimo il Confessore, Mistagogia 1, PG91, 665C.

[2] Vedi Ef. 5, 32.

[3] Vedi Ef. 5, 32.

[4] Mc 8, 34.

[5] Mt 10, 37.

[6] “Ciascuno ha un suo dono proprio e speciale da Dio, chi di un genere chi di un altro” I Cor. 7, 7.

[7] Pros piston patera (Al padre fedele) 3, 14, PG47, 372-74.

[8] Ibid. 373.

[9] “Se abbiamo di che mangiare e di che vestirci, ci dobbiamo accontentare” I Tim 6, 8.

[10] Ebr 13, 14.

[11] Vedi Oroi kata platos (la pienezza delle regole monastiche) 6, PG 31, 925A.

[12] Catechismo 7, 28, ed A. Wenger, “Sources Chritiennes” vol. 50, Parigi 21970m 0,243.

[13] Catechismo 12, 132-5, ed B. Krivocheine, “Sources Chritiennes” vol.104, Parigi 1964, p.374.

[14] Catechismo 5, 122-5, ed B. Knvocheine, “Sources Chritiennes” vol. 96, Parigi 1963, p.386.

[15] Omelia 15, PG151, 180 BC.

[16] Vedi Sulla vita in Cristo 6, PG150, 660A

[17] Vedi Lettera 53, PG99, 1264CD.

[18] Mt 22, 30.

[19] Vedi i testi liturgici per assumere il Piccolo Abito. Grande Libro delle Preghiere, p. 192.

[20] Mt 5, 48.

[21] Massimo il Confessore, Sull’amore 3,85, PG90, 1044A.

[22] Archimandrita Sofronio, Pratica ascetica e teoria, Essex, Eng/e 1996, p.26. 23 2 Cor 5,4. 24 Vedi parte II, PG88, 657A. Per un paragone sulla tradizione patristica delle tre fasi della rinuncia vedi il libro dell’Archimandrita Sofronio, Ascetismo e contemplazione, pp. 26 e ss.

[23] 2 Cor 5, 4.

[24] Vedi parte II, PG88, 657A. Per un paragone sulla tradizione patristica delle tre fasi della rinuncia vedi il libro dell’Archimandrita Sofronio, Ascetismo e contemplazione, pp.26 e ss.

[25] Vedi Archimandrita Sofronio, Lo vedremo com’Egli è, Essex, Inghilterra 3, 1996, p.389.

[26] Vedi Archimandrita Sofronio, San Silvano del Monte Athos, Essex, Inghilterra 7, 1995, p.572; vedi anche Ascetismo e contemplazione, p.42.

[27] 1 Cor. 4, 10.

[28] L’anziano Paisios, Lettere, Souroti, Thessaloniki 1994, p.235. 29 Jn. 5, 44. 30 Vedi Archimandrita Sofronio, Ascetismo e contemplazione, pp. 33-4.

[29] Giovanni 5, 44.

[30] Vedi Archimandrita Sofronio, Ascetismo e contemplazione, pp. 33-4.

 

 

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