I SANTI CALOGERO E FILIPPO
I santi più noti e venerati in Italia meridionale sono Filippo il Cacciaspiriti e Calogero del Monte Cranio: non c’è nome più “siciliano” di Calogero (ed è greco: il Bell’anziano, il monaco). Il culto di entrambi è, curiosamente, legato a località termali frequentate già nella preistoria (per esempio, le Eolie) o comunque segnate da fenomeni vulcanici, ma non credo che i due abbiano sostituito oscure divinità catatonie. Penso, piuttosto, che entrambi siano stati posti dall’immaginario popolare a guardia, come sentinelle, degli “ingressi” all’Ade: in Italia meridionale non c’è località vulcanica – termale in cui non sorgesse un monastero ortodosso.
Il culto di CALOGERO [18 giugno] – diffuso in tutta l’Isola e nella Sicilia continentale (Calabria meridionale) – è localizzato principalmente sul Cranio, presso Siaka – Sciacca (AG).
Il nome – Cranio ma anche Cronio o Crono – richiama la caratteristica forma dell’amba calcarea, ma forse è legato al culto del sanguinario Baal Hammon, divinità fenicia assimilata al greco Crono: dai teschi trovati nelle numerose cavità, si sa che vi furono compiuti sacrifici umani ancora nei primi secoli dell’Era cristiana. Il monte, con la sua fitta rete di grotte, fu sede d’un singolare monastero “vescovile” (sino all’invasione dei Normanni, vi risiedeva il vescovo di Trikala-Triocala). Il Cranio è un vasto intreccio di caverne naturali – per gli antichi, progettate da Dedalo – invase da vapori radioattivi e percorse da acque ricche di iodio e idrogeno solforato; si eleva presso l’antica Thermai di Selinunte, la polis greca più occidentale della Sicilia, fondata attorno al 628-650 a.C. da coloni provenienti da Megara Hyblea.
Qualsiasi copia del Bìos di Calogero è stata fatta sparire: sorte comune alle Vite di moltissimi santi ortodossi dell’Italia meridionale. L’innografia, composta dal monaco Sergio, ci fa sapere che Calogero proveniva da Calcedonia e che da Calcedonia era fuggito a causa di un’empia fede. Gesuiti del sei-settecento confusero Calcedonia con Cartagine (il p. D. Papebroch S.J. falsificò – in ASS, Junii III, 598-600 – i manoscritti, e anziché Chalkkidonos chora, trascrisse Karchidonos) e fecero di Calogero un africano, allo scopo di presentarlo come monaco latino=cattolico. Con il grottesco risultato che, dal 17°-18° secolo, Calogero è rappresentato come un negro.
L’icona di San Calogero nell’omonima grotta a Sciacca |
Di certo, Calogero era un calcedonese: vale a dire fedele al dogma proclamato a Calcedonia nel 451, e vittima delle persecuzioni scatenate dai monofisiti. Non sappiamo se si chiamasse davvero Calogero (o fosse soltanto un calogero), ma che provenisse da qualche località del patriarcato d’Alessandria, è verosimile. Secondo l’innografia, Calogero – insieme al vescovo Gregorio e al diacono Demetrio – sbarcò a Liliboeìon-Lilibeo, principale base dei commerci con l’Egitto, fondata nel 397 a.C. da fenici profughi dall’isola di Moutìa-Mozia (poi Mars-Allah, oggi Marsala – TP).
A Lilibeo, Gregorio e Demetrio subirono il martirio per mano d’idolatri: ma non è escluso che, fuggendo in Sicilia, i tre calcedonesi siano caduti dalla padella nella brace. Vale a dire, che pure il vescovo di Lilibeo fosse monofisita, visti gli intensi rapporti intercorrenti tra la Sicilia e i patriarcati d’Antiochia e Alessandria. Oppure, che abbiano avuto a che fare con i Vandali – fanatici ariani – che, al tempo del loro re Genserico (428-77) imperversarono in Sicilia e nelle altre isole del Mediterraneo.
Pare che, dopo il martirio di Gregorio e Demetrio, Calogero abbia trascorso i suoi giorni ramingo per l’Isola, nascondendosi di preferenza in antiche necropoli o nelle cavità d’origine vulcanica, numerose in Sicilia e negli arcipelaghi che le fanno corona. Ai tempi in cui l’innografo Sergio compose l’akoluthia (= l’ufficio liturgico), le reliquie di Calogero erano ancora custodite nel monastero del Monte Cranio. Dall’akoluthia non si può ricavare nulla di più: non pochi storici – così dotti da ignorare i documenti – non esitano a farne un tutt’uno con Filippo, un santo toto coelo diverso.
FILIPPO [12 maggio] è detto Pneymatodioktis, Cacciaspiriti, un appellativo che è un unicum nell’agiografia ortodossa. Popolare tra gli abitanti della Sicilia e della Grande Grecia, il suo culto raggiunse Tessalonica, dove Filippo era invocato – chissà perché! – contro il male di testa[1]. I gesuiti siciliani, invece, trasformarono anche lui in africano = latino = cattolico (e anche lui in negro!)[2].
Su Filippo abbiamo una Narrazione di certo tanto antica (non ha nulla dello stile agiografico divenuto popolare dopo l’8° secolo e consacrato nel 10° da san Simeone Metafraste) quanto strampalata, scritta da qualcuno che sembra avesse più dimestichezza con il ciclo dei miti d’Eracle, gli Apocrifi, la Cabala e persino il Corano, che con la Sacra Scrittura, della quale solo facendo salti mortali – o andando proprio di fantasia – si trova qualche debole eco (al massimo, 7-8 citazioni, e pure indirette).
Secondo questo strano Racconto, Filippo sarebbe un siro, che non parlava nessun’altra lingua che il siro (non parlava la lingua romana, ma si faceva capire, anche se solo “per miracolo”, vale a dire a malapena) e che possedeva un libro sacro, sembrerebbe scritto in caratteri sconosciuti e, perciò, ritenuto “magico”[3].
Non è per niente chiaro quando Filippo sia vissuto: confusi accenni sembra possano essere riferiti al generale Belisario che nel 535 liberò la Sicilia dai Vandali, e a sant’Apollinare, patriarca antimonofisita d’Alessandria (551-579). Il culto di Filippo è localizzato principalmente nel luogo d’Argirio (Argira-Agira – EN, la città che per prima tributò onori divini a Eracle) ed è legato all’Etna, nelle cui viscere si aggirano i figli dei Ciclopi Arge, Bronte e Sterope, insieme a Tifone, giunto in volo in Sicilia e precipitato – come Empedocle – nel cratere centrale. Come Eracle che, salito sul Cillene, scacciò i pestiferi uccelli Stinfali scuotendo bronzee nacchere, Filippo salì sul monte e, “facendo una benedizione” col suo misterioso libro, fece precipitare nelle viscere dell’Etna i demoni che, in volo, erano fuggiti dai bronzei vasi in cui li aveva rinchiusi, a Gerusalemme, il re Salomone (bronzei vasi che ricordano il vaso di Pandora e i calderoni di bronzo di Salmoneo, re della Tessaglia).
È, questo, solo un esempio per dire quanto sia strano il Racconto sulla Vita e i Miracoli di Filippo: per non parlare della pestifera Fonte Mamoniea di Argira (vedi la Fonte di Amimone che ad Argo forma la palude di Lerna, o il pozzo Mamonèo della Mecca), o della grotta in cui sarebbe vissuto il santo. Essa è descritta esattamente come la grotta sacra alle tre Eumenidi (con i suoi tre idoli d’Ade, Ermes e Gea), oppure all’antro di Itaca (o della Sicilia?) sacro alle Ninfe, descritto da Omero e che tanto interessò Plotino (che conosceva bene la Sicilia, per esserci vissuto).
È un Racconto strano, ma proprio per questo lo trovo “autentico”, nonostante le madornali sviste[4] e quel suo rincorrere gli Atti apocrifi dell’apostolo Filippo: per qualche strano motivo il culto di Filippo il Cacciaspiriti è ancor oggi vivo in località dell’Italia Meridionale tra loro distanti ma che – in età magnoellenica – fecero parte della stessa anfizionia e ch’erano dedite al culto di Eracle. E poi: se nei severi ambienti monastici del 10°-11° secolo lo si ricopiò ancora così com’era – senza tentare di correggere o di trarne una versione alla Metafraste – vorrà dire che si riconosceva a quel testo una veneranda “autenticità”. C’è da rimpiangere, perciò, che non sia giunta a noi l’Akoluthia: avremmo saputo se essa confermava almeno i dati biografici essenziali del Racconto o attingeva a un Bios perduto[5].
Un discorso a parte andrebbe fatto per il Monastero di San Filippo presso Agira: meta obbligata di tutti o quasi tutti gli asceti calabro-siculi dei secoli 9° – 11°, scompare improvvisamente per poi essere “riaperto”, alla fine dell’11° e agli inizi del 12° secolo a opera di Benedettini calati dalla Normandia. Con scarso senso cronologico (e del ridicolo) alcuni storici attribuiscono l’improvvisa diaspora o fuga dei monaci ortodossi d’Agira (principalmente verso le impenetrabili selve dell’Aspromonte reggino) alle incursioni degli Arabi.
Saraceni e Berberi (non Arabi), però, solo nel 962 iniziarono a penetrare nella Regione di Demenna, dove sorge il monastero, senza riuscire ad assumerne il controllo, e furono scacciati nel 1040. E comunque mai diedero un granché di fastidio ai monaci, vuoi per reverenziale rispetto, vuoi per superstizioso timore. Anche nelle zone dell’Isola in cui la loro presenza fu pervasiva e di qualche decennio più lunga (dall’841, Regione di Mazara; dal 902, Regione del Noto[6]) il monachesimo ortodosso – sia pure tra tante difficoltà – non si spense per niente, come si vorrebbe far credere, per nascondere la pulizia etnica operata dai Normanni in Italia meridionale ai danni dell’autoctona popolazione “greca” e ortodossa, in ossequio al Concordato stipulato a Melfi, il 23 agosto 1059, con il savoiardo Gérard de Chevronne (papa Nicola II). Si tace perciò l’unica ipotesi verosimile: furono i Franchi a mettere in fuga i monaci ortodossi da Agira, per insediarvi i Benedettini.
[1] Ne abbiamo notizia dal Bios di san Fantino, asceta nato a Tauriana (RC), vissuto a Tessalonica dove morì attorno all’anno Mille [14 novembre], omonimo e concittadino del san Fantino il Cavallaro (Ipponomevs), vissuto tra 4°-6° secolo [24 luglio]. Due discepoli calabresi di Fantino, Vitale e Niceforo il Nudo, da Tessalonica raggiunsero l’Athos: san Niceforo – detto anche il Mirovlita [5 luglio] - fu tra i primi compagni e discepoli di sant’Atanasio il Lavriota. Vedi M. Maximi, O Osios Fantinos o en Thessaloniki, Ormylia 1996.
[2] Un simpatico fenomeno di “resistenza” alla Storia scritta dai gesuiti siciliani, O. Caetani in testa: la popolazione dell’Italia meridionale, trovandosi a dover accettare statue di un Filippo (o di un Calogero) negro o negroide, afferma che il santo in realtà era soltanto nero; che s’era sporcato di fuliggini quand’era disceso all’Ade per ricacciarvi alcuni demoni evasi.
[3] Considerando che il siro non era certo sconosciuto in Sicilia potremmo pensare ad altre aree linguistiche: se Filippo fosse un monaco giunto da località più remote quali, per esempio, l’Etiopia o addirittura la Persia?
[4] L’arcangelo Gabriele è confuso con l’arcangelo Michele; l’apostolo Paolo con l’apostolo Pietro; ecc.
[5] Si conserva l’Apolitikion, tono 2. In italiano: Il monte d’Argirio risplende di luce [riferimento al fuoco dell’Etna?] e il tuo prezioso sepolcro spande guarigioni: voi bisognosi e malati accorrete, e presto attingete salute; dalle reliquie di Filippo sgorga guarigione per chi s’accosta con fede.
[6] Corrispondenti ai tre promontori della Trinacria – il continente circondato dal mare – le tre Regioni sono facilmente identificabili osservando una carta stradale. Grosso modo, La Regione di Demenna è compresa tra Messina – Catania – Termini Imerese; la Regione di Noto è compresa tra Siracusa – Caltanissetta – Agrigento; la Regione di Mazara tra Termini Imerese – Caltanissetta – Agrigento – Trapani – Palermo.