Intervista sullo ieronda Justin Popovic
di Klitos Ioannidis,
autore del libro Gerondikon del 20° secolo,
al Metropolita di Montenegro Amfilohije Radovic
e al Metropolita di Bačka Irenej Bulovic.
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Interlocutore: Il Metropolita di Montenegro, sig. Amfilohije Radovic, professore della facoltà teologica dell’università di Belgrado.
K.I.: Eminenza, prima di parlarci del suo grande Ieronda, può dirci qualche parola sugli Ierondes?
A.R.: La tradizione degli Ierondes non è un fenomeno casuale nella Chiesa Ortodossa. Teologicamente è appoggiata sul mistero della paternità eterna, sul mistero del rapporto tra il Figlio Unigenito, il nostro Cristo, con l’eterno Padre. Si appoggia, inoltre, sul mistero del rapporto vicendevole tra i maestri, tra gli istruttori della vita della fede, come si vede, ad esempio, nell’apostolo Paolo quando dice: “Siate imitatori miei, come anch’io lo sono di Cristo”. Quest’imitazione indica un’imitazione esteriore ma ha il senso di una trasmissione della stessa tradizione viva intesa come esperienza. Nella vita della Chiesa questo è molto importante, perché è su tale esperienza che si appoggia la vita della Chiesa stessa. Le persone portatrici di questa esperienza, sono i martiri del Vangelo e sono quanti illuminano il mondo.
Queste persone ci sono sempre state, indipendentemente dal fatto d’essere vescovi, presbiteri, diaconi o monaci. In tutte le epoche abbiamo avuto dei volti illuminanti come “sostegno della Chiesa e delle anime” e li abbiamo ancora oggi. Fortunatamente, poiché la nostra epoca si è talmente allontanata dall’esperienza di Dio da averla sostituita con l’esperienza di questo mondo! Per questo nel nostro secolo abbiamo ancor più bisogno dell’esistenza di queste persone che hanno esperienza di Dio affinché possano guidarci a Lui.
Padre Justin Popovic fu uno di questi Ierondes. Egli fu anche un intellettuale e studiò teologia e lettere. Per sua natura fu un filosofo: fu membro fondatore dell’Associazione Filosofica della Serbia, nel 1936[1].
Padre Justin Popovic si trovò coinvolto nella disavventura del dopo-guerra della Nazione serba e della Chiesa serba. Fu un uomo di notevolissimo spessore, un vero intellettuale, un teologo, un filosofo, un poeta, un conoscitore di diverse lingue e svolse un ruolo importante nelle vicende ecclesiastiche e, in genere, in quelle intellettuali. Lasciò, perciò, un enorme produzione di scritti. Qualche suo libro è stato pure tradotto in greco.
Si volse all’esperienza della Chiesa, che visse e studiò, inizialmente come teologo dogmatico e intellettuale. Si volse, soprattutto, verso i santi Padri, le vite dei santi e lo studio della Sacra Scrittura. Lo fece non con uno studio accademico ma con uno studio reale proveniente dalla vita.
K.I.: Lei ha conosciuto il padre Justin Popovic. È per noi una grande gioia, Eminenza, se ci parla di questa santa figura, che fu pure un illustre teologo ortodosso[2].
A.R.: Lo conobbi quando rimase bloccato in monastero, nel dopo-guerra, in seguito al suo allontanamento dall’università di Belgrado. Venne al funerale di una nota signora di Belgrado e fu allora che lo vidi per la prima volta. In quell’occasione, erano presenti anche dei vescovi ma nel volto del padre Justin Popovic, nella sua disincarnata figura, si vedeva un sacerdote, un levita di Dio che si distingueva da tutti gli altri, non solo fisicamente ma anche per la forza della sua parola e della sua dedizione alla parola di Dio che nasceva dal suo intimo.
Quando andai nel suo monastero, in occasione della tonsura monastica dell’attuale Metropolita di Erzegovina Atanasije Jevtić nel 1959, incontrai padre Justin Popovic e da allora ne fui legato fino al suo ultimo respiro.
K.I.: Lo conobbe, perciò, per vent’anni interi, visto che il padre Popovic si addormentò nel 1979.
A.R.: Certo. Tuttavia, mancai per dodici anni dalla Serbia, quando andai in Grecia per effettuare degli studi post-laurea. Ma anche allora restavamo in contatto tramite la corrispondenza.
Ci sono molte, moltissime cose che ricordo di padre Justin e che non si possono esaurire nel corso di un’intervista. A questo punto, cerco di raccontare qualche fatto.
Una volta con lo Ieronda parlavamo dei problemi del nostro tempo. Era presente l’allora ieromonaco e attualmente Metropolita, il sig. Atanasije Jevtić. Lo Ieron ci disse:
“Vedete, pure io, se non avessi la benedizione di Dio con la quale mi aggrappo al Signore, sarei rimasto un filosofo come Nietsze, sarei un disperato in quest’infinito e sconosciuto Universo„.
Questo mostrava la sua profonda dedizione e il suo amore verso il volto del Signore. E, dicendo queste parole, i suoi occhi divennero come due fontane, due fiumi di lacrime.
K.I.: Aveva le lacrime di devozione.
A.R.: Certo. Ad esempio, lo osservavi assai devoto nella preghiera e nella celebrazione liturgica; molte volte piangeva durante tutta la Divina Liturgia, dall’inizio alla fine. Ovviamente ciò era notato da chi si trovava nel Santuario, perchè recitava sommessamente le preghiere e nascondeva le sue lacrime. Le lacrime di devozione erano una delle caratteristiche importanti avute dallo Ieronda.
I suoi ultimi momenti dimostrarono maggiormente il suo essere uomo, perchè, negli ultimi momenti, si riepiloga la vita di un uomo. Perdendo le forze esterne, l’uomo si rivela e mostra se veramente custodisce dentro di sé un appoggio nell’eterno, in Dio. Quando, allora, ci avvisarono che padre Justin era sul punto di esalare l’ultimo respiro, andammo e lo trovammo agonizzante, con dei medici e delle monache e qualche altra persona. Vedendolo come era sdraiato sul letto, guardavo il suo volto luminoso e i suoi occhi che brillavano di gioia e grazia. Non ho mai visto tale gioia in vita mia. Contemplavi un’uomo di ottantaciunque anni, che dentro di sé aveva una giovinezza rinnovata ed eterna.
Era sempre come un ragazzino. Uno scrittore, il nostro celebre poeta Matija Bećković, quando vide il padre Justin per la prima volta – era già alla fine della sua vita terrena – disse che pensava di andare incontro ad un anziano comune mentre, invece, vide padre Justin vivissimo, come un fuoco.
Gli piaceva ospitare, accompagnare l’ospite anche fuori dal monastero. Ascoltava con molto amore le parole dell’altro, come un ragazzino. Una volta, quando ritornai in Serbia dalla Grecia e gli raccontavo diverse cose sul Monte Athos, piangeva. Preso dallo spavento gli chiesi perchè piangeva e lo udii dire:
“Ah Justin!, con quanto tormento hai trascorso questa vita. Questi sono i veri monaci, quelli che vivono sul Monte Athos„.
Poi si rivolse a me e mi chiese:
“Che ne pensi, padre Amfilohije? Esiste la salvezza per me? Sappi che ho una speranza: che per le preghiere di questi santi uomini, gli Aghioriti, Dio abbia pietà anche di me„.
Aspettava da me una parola di salvezza. Era tale la grandezza della sua umiltà.
K.I.: “Egli si beffa dei beffardi, ma ai mansueti darà la grazia„.
A.R.: È proprio così. Anzi, sig. Ioannidis, la cosa che mi fa impressione nella conoscenza di tali persone è che assomigliano tra loro. È come se fossero nati dalla stessa madre; questo è evidente nel vedere la loro figura, nel loro comportamento e nelle loro parole.
K.I.: Questa è la nascita dall’alto.
A.R.: È esattamente questo.
Il padre Justin Popovic amava molto i bambini e i fiori. Diceva pure che dinnanzi a Dio i bambini e i fiori ci renderanno giustizia.
K.I.: Questo è molto bello.
A.R.: Mostrandogli i fiori che aveva piantato, disse a uno scrittore e giornalista serbo che vive a Parigi e lo andò a trovare:
“Fratello Komneno, prendi con i tuoi occhi un po’ di questa bellezza, perchè ne avrai bisogno lì, a Parigi„.
Lo scrittore s’impressionò di questo perchè, come diceva poi, si sarebbe aspettato un monaco tra delle mura e con una mentalità chiusa, mentre, al contrario, trovò un uomo con tanta sensibilità per il mistero della natura[3].
K.I.: La stessa sensibilità per la natura era anche nello Ieronda Porfirios. Egli usava la natura per fare degli esempi che utilizzava nella sua opera pastorale. Una volta, un suo figlio spirituale ricorda che lo Ieron Porfirios gli mostrò un fiore e gli disse: “Questo piccolo fiore con il suo profumo glorifica Dio„.
A.R.: Se oggi molti dei giovani in Serbia si sono rivolti alla Chiesa, questo è dovuto alla presenza di padre Justin Popovic. Tantissimi giovani continuano ad andare nella sua tomba fino ad oggi. La sua presenza fu importantissima e nel futuro darà senz’altro ancora maggiori frutti.
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Interlocutore: il Metropolita di Bačka, sig. Irinej Bulović, professore nella facoltà teologica dell’università di Belgrado.
K.I.: Abbiamo la preziosa fortuna che Sua Emminenza, il Metropolita di Bačka sig. Irinej Bulović, condivida con noi le sue memorie, esperienze e testimonianze del grande uomo di Chiesa e intellettuale serbo, il padre Justin Popovic.
I.B.: Fui studente della scuola media nella mia patria, quando ancora le cose erano assai difficili per la Chiesa di Serbia, malgrado fossero trascorsi molti anni dalle spietate persecuzioni. Ciononostante, lo spirito comunista era ancora assai potente e crudele. In quel tempo i ragazzini interessati alla vita spirituale, erano relativamente pochi e le edizioni di interessanti libri erano rare. Mi ricordo, quindi, con quanta esultanza d’animo presi tra le mani il mio primo libro del padre Justin Popovic. Quel libro fu edito all’estero, visto che dopo la seconda Guerra Mondiale, padre Justin non poteva oramai pubblicare niente nel nostro paese, poichè era considerato persona indesiderata per le autorità e lo Stato.
K.I.: Per causa del comunismo?
I.B.: Sì. Malgrado lo Ieron non avesse mai avuto un qualsiasi coinvolgimento nella vita politica del paese, scrisse, ancora da giovane teologo, le sue famose opere sull’ateismo e l’Umanesimo Europeo[4], di cui il comunismo è estrema conseguenza. Così, coloro che detenevano il potere considerarono padre Justin pericoloso alla loro espansione ideologica.
Il libro che avevo tra le mie mani era stampato a Monaco, in Germania, e conteneva diversi tratatti e articoli dello Ieronda, scritti con uno stile forbito; padre Justin era un impareggiabile padroneggiatore della lingua serba.
Fui molto impressionato da quel libro. Quando finì la scuola media e andai a Belgrado per studiare teologia, si presentò un ieromonaco, collega nostro, padre Giovanni, che conosceva lo Ieronda e si recava diverse volte al monastero nel quale padre Justin viveva isolato. Padre Giovanni s’incaricò volentieri di condurmi con lui per conoscere padre Justin Popovic.
Fui affascinato tantissimo dal volto dello Ieronda, che era ancora più impressionante di quanto sembrava dai suoi scritti. Quando celebrava la Divina Liturgia, quando parlava del nostro Cristo o di qualsiasi argomento della nostra fede si sconvolgeva talmente, con tutto il suo essere, che si sarebbe potuto dire che fosse un vulcano spirituale.
Era pieno di vita e di muovimento. Pensi che persino verso la fine della sua vita – si addormentò all’età di ottantacinque anni – non camminava ma correva. Avanzava così, con un passo vivo e svelto. Rimasi a bocca aperta quando per la prima volta – era in Grande Quaresima – vidi il modo con il quale faceva le metanie negli Uffici. E pensavo: “Questo piccolo anziano ha le molle? „.
Il suo discorso aveva una forza vulcanica ed era sempre armonizzato con un’estrema umiltà e amore. Era una combinazione che può sembrare strana e impossibile ma era una realtà nella figura dello Ieronda Justin.
Allo Ieronda Justin Popovic, caratterizzato da grandissimo splendore, accadde questo fatto stupendo e sorpredente. Dalla sua più tenera età, da quando iniziò a scrivere le sue prime righe che sarebbero emerse in una pubblicazione, fino al Marzo del 1979 in cui scrisse le sue ultime righe – delle migliaie di pagine scritte in tutta la sua vita – egli seguiva una linea continua e crescente; approfondendo semplicemente quanto da giovane aveva sentito. Fu sempre radicato nella tradizione ortodossa che testimoniava con tutta la sua forza.
Certamente era pure un profondo conoscitore delle problematiche e delle riflessioni dell’uomo occidentale. Eppure, nei suoi diari e nei suoi testi, scritti ancor prima di aver compiuto diciott’anni, ancor oggi conservati, si riesce a distinguere il grande teologo dogmatico dei decenni successivi, con la differenza, naturalmente, dello stile dell’età e delle sue capacità espressive.
K.I.: È vero, Eminenza, che esortava agli studi teologici in Grecia?
I.B.: A tutti i suoi figli spirituali, tra i quali ci fui anch’io, diceva: “Senza la lingua greca non potete conoscere la letteratura patristica. Poi, senza i Padri della nostra Chiesa non esiste né interpretazione dei Testi Sacri né teologia. Qualsiasi cosa viene scritta oggi, dal momento che non si basa sui Padri, non ha legame con la teologia esperenziale ortodossa. Per questo andate in Grecia, dove ancor oggi è preservata ininterotta e viva la tradizione della nostra Chiesa. Lì si trovano dei centri e dei vivai, c’è il Monte Athos. Lì la teologia non è qualcosa di astratto, ma è vita e fatto„.
Effettivamente, con la sua benedizione, andammo tutti in Grecia. E questo fatto segnò tutta la nostra vita e la nostra esistenza. Personalmente posso dire che, grazie all’esortazione dello Ieronda, ho acquisito una – diciamo – autocoscienza di ‘doppia provenienza’. Non posso dire di essere solo serbo; sono pure greco.
K.I.: Disse, d’altronde, la famoso frase: “Sono nato serbo e morirò greco„.
I.B.: È proprio questa frase che mi definisce.
K.I.: Mi commuovo tanto, Eminenza, ogni volta che penso alle Sue parole.
I.B.: Lo Ieron Justin aveva questa sensazione e voleva trasmetterci questa fiaccola. E di fatto lo fece. Voglio aggiungere anche questo che è stupendo. Il suo pensiero teologico fruttificò maggiormente nel mondo greco-ortodosso che in Serbia, nel mondo slavofono.
K.I.: Evidentemente a causa del comunismo.
I.B.: Anche per questo motivo, ma anche perchè non c’è disponibilità ad assumere profondi insegnamenti. Pochissime persone sono disposte a seguire i significati e alte fonti vivificanti, coltivate dallo Ieronda Justin nei suoi trattati. Sia in Grecia che a Cipro ho incontrato persone, tra gli studenti delle scuole medie e delle università, che avevano letto i libri del padre Justin, cosa che non accade così frequentemente in Serbia.
K.I.: Eminenza, quale parola edificante del padre Justin vorrebbe dirci?
I.B.: Tra le tante, una cosa che mi impressionò, fu che, mentre era severo nelle sue espressioni teologiche – senza alcun gioco di parole ci suggeriva sempre la forma classica – aggiungeva, suggellandolo con il suo esempio, che bisogna avvicinarsi ad ogni singola persona “con piedi di colomba„ cioè camminando come una colomba. Ci indicava così di affontare con molta attenzione l’altra persona, di fare in modo di non ferire, non umiliare, non disprezzare il nostro prossimo, qualunque egli sia.
Questo mi fa ricordare le parole di San Nettario, il grande santo e taumaturgo del nostro secolo, secondo il quale la nostra costanza nell’Ortodossia, benedetta e indispensabile, e le nostre lotte contro le eresie non ci liberano dal debito dell’amore verso tutti, anche nei confronti di quelli che sono nell’errore e degli eretici.
K.I.: I Padri della Chiesa ci hanno tramandato che, nella vita del monaco, c’è l’ardore nel cuore, anche per i demoni.
I.B.: Tutti i Padri, tutti gli Ierondes che sono, nel vero senso della parola, i nostri illuminatori, hanno esattamente questa stessa esperienza e ci danno questa stessa testimonianza, con il sigillo personale di ognuno, con il proprio modo di espressione di tale vissuto e di tale esperienza. La quintessenza, però, è questa.
K.I.: Riguardo alla santità dello Ieronda Justin cosa avrebbe da dirci?
I.B.: La sua santità è confessata da tutti in Serbia, tanto dal pleroma della Chiesa quanto dalla sua gerarchia. Non c’è neanche uno che mette in dubbio le sue virtù e la sua santità. Molti sono quelli, non solo in Serbia ma anche in Grecia, che hanno ammirabili esperienze dallo Ieronda Justin, pure guarigioni o altro genere di aiuto carismatico.
K.I.: Cosa avrebbe da dirci riguardo la sua proclamazione come santo dalla Chiesa?
I.B.: La proclamazione e la venerazione dei santi nell’Ortodossia è, come sa, un fatto carismatico, che sobbalza e sgorga spontaneamente dal vissuto del popolo di Dio. La proclamazione ufficiale è come una conferma festosa di una coscienza già esistente, della coscienza cattolica, del sentimento cattolico della Chiesa. Questo sentimento esiste. Però, gli anni trascorsi dalla sua dormizione sono pochi e, forse, è un pò presto per quest’atto ufficiale della Chiesa che tuttavia non credo tarderà a pronunciarsi.
Come conclusione direi che nella persona di padre Justin Popovic si armonizza l’ottimo teologo dogmatico e l’autore di vite di santi, visto che scrisse anche dei Sinassari. Questo legame tra l’Altare e la cattedra accademica, questo legame della teologia come vissuto e come espressione di questo vissuto – il dogma e l’esperienza non sono due cose separate ma è la stessa medesima cosa, perchè il dogma esprime l’esperienza spirituale e l’esperienza spirituale si esprime come dogma della Chiesa – è un messaggio molto grande del padre Justin nei nostri giorni.
(Dal libro: Gerontikon del 20° secolo, a cura di Ioannidis Klitos, ed. Nektarios Panagopoulos, 1999)
[1] Nel 1968, uscì un libro in greco di padre Justin Popovic Uomo e Dio-uomo. Questa edizione greca venne pubblicata con continue riedizioni dalla casa editrice “Astir„ , tradotta dal Metropolita di Erzegovina, Professore della Facoltà Teologica dell’università di Belgrado, sig. Atanasije Jevtić. Dell’archimandrita Justin Popovic, l’indimenticabile professore dell’Università di Atene, Ioannis Karmiris, scrisse nel suo prologo al libro: “Nacque nel 1894, fece studi di Teologia in Serbia, Russia e Inghilterra, fu proclamato nell’anno 1926 dottore di Teologia dalla Facoltà Teologica dell’Università di Atene, nella quale presentò la tesi di laurea col titolo Il problema della personalità e della conoscienza secondo San Macario l’Egiziano. Nell’anno 1935 fu eletto libero docente e, in seguito, professore di dogmatica nella Facoltà Teologica di Belgrado. Nell’anno 1945, col predominio del regime comunista in Iugoslavia, fu costretto ad abbandonare l’Università e a ritirarsi in Monastero, come padre spirituale, continuando lì, sotto difficili condizioni, il suo compito spirituale e intellettuale. Fino ad oggi rappresenta la coscienza nascosta della Chiesa serba, e in genere anche quella dell’Ortodossia martirizzata„.
In un altro punto dello stesso prologo, Karmiris scrive: “Egli, quindi, identifica il Teantropo Cristo con il Suo corpo divino-umano, la Chiesa e, in particolare, la Chiesa Ortodossa. Per questo considera come tragedia fondamentale dell’uomo odierno la sua disecclesiazione, cioè l’alienazione (Ef. 4, 18) e il suo allontanamento dal Teantropo Cristo e dalla completa vita di grazia nel Suo sangue. Egli nota pure che il Teantropo [= Dio-uomo] Cristo è l’Α e l’Ω dell’uomo; egli è un vero uomo solo tramite il Teantropo e nel Teantropo, in modo tale che la sua lotta per il Teantropo diviene una lotta per l’antropo [= l’uomo]”.
[2] Nella coscienza ortodossa egli è stato già confermato come “padre e dottore della Chiesa” (Igumeno G. Kapsanis), “dottore fermo della Chiesa cattolica Ortodossa” (monaco Teoklitos Dionisiatis), “grande figura Patristica” (Metrop. di Ydra Ierotheos), “eccelso teologo dell’Ortodossia e santo asceta” (Metrop. di Florina Agostino), “la colonna più alta tra le altre dell’Ortodossia” (Gavriil Dionisiatis), “il santo guaritore di Dio” (Metrop. Atanasije Jevtić). Nella coscienza del pleroma ortodosso, sopratutto del popolo fedele della Serbia, egli è cosiderato beato e santo della Chiesa di Cristo.
[3] Poesia, preghiera dell’anima divinamente ispirata del padre Justin Popovic.
[4] Brano dal testo di padre Justin Popovic sull’Umanesimo:
“La cultura europea ha per fondamento l’uomo e nell’uomo si esauriscono il suo programma ed il suo fine, i suoi mezzi ed il suo contenuto. L’Umanesimo ne è il principale architetto. Essa, infatti, è costruita sul principio: L’uomo – quello europeo – è misura di tutte le cose, di quelle visibili e di quelle invisibili. Egli è il sommo creatore dei valori e colui che li distribuisce. La verità è quella che egli proclama come tale; il bene ed il male sono ciò che egli riconosce come tali. Per dirla in breve e con chiarezza: l’uomo europeo s’è proclamato dio. Non vi siete forse accorti come egli ami atteggiarsi a dio, con la scienza e con la tecnica, con la filosofia e con la politica, con l’arte e con la moda – si atteggia a dio ad ogni costo, pure con l’Inquisizione e con il Papismo, con il ferro e il fuoco e, perché no?, anche con il trogloditismo e il cannibalismo? Con il linguaggio della sua scienza umanistico-positivistica ha dichiarato che Dio non esiste. E, guidato da questa logica, ha da tutto ciò coraggiosamente concluso: Visto che non c’è Dio, sono io dio!
L’uomo europeo non ama nulla quanto atteggiarsi a Dio, sebbene nell’universo sia come un topo in trappola. Per dimostrare la sua divinità, ha dichiarato che tutti i mondi che stanno sopra di noi sono vuoti, senza Dio e senza esseri viventi. Egli vuole soggiogare la natura a qualsiasi costo, per cui ha organizzato una campagna sistematica contro la natura e a tale campagna ha dato il nome di cultura. In quest’opera ha impegnato la sua filosofia e la sua scienza, la sua religione e la sua etica, la sua politica e la sua tecnica. Ed è riuscito a levigare un pezzettino della crosta della materia, ma non l’ha trasformata. Lottando con la materia, l’uomo non è riuscito a renderla umana, ma essa è riuscita a limitarlo ed a renderlo superficiale, a ridurlo a materia. Ed egli, circondato da essa, si riconosce in essa.
Sapete chi ha vinto? L’ironia, poiché la cultura ha reso l’uomo schiavo della materia, delle cose. È una verità evidente: l’Europeo è schiavo delle cose, non è loro dio. Davanti a loro devotamente s’inchina, lui che si dice Dio, s’inchina, cioè, davanti agli idoli che si è costruito. Nella lotta contro tutto ciò che è soprannaturale, ha sostituito tutte le aspirazioni che superavano la materia con le conquiste della cultura; ha barattato il Cielo, l’anima, l’immortalità, l’eternità, Dio vivo e vero. Ed ha trasformato in Dio la cultura. Giacché su questo pianeta oscuro l’uomo non può resistere senza un qualsiasi dio, sia pure un dio falso. Questa è la fatale ironia di un uomo siffatto.
Non vi siete resi conto che l’Europeo, nella sua mania per la cultura, ha trasformato l’Europa in una fabbrica di idoli? Praticamente ogni frutto della cultura è diventato un idolo. Perciò la nostra è un’epoca dedita principalmente all’idolatria. Nessun continente è così invaso dagli idoli come l’Europa contemporanea. In nessun luogo ci si genuflette di fronte alle cose ed in nessuna parte del mondo non si vive così per le cose come in Europa. È questa la peggiore specie dell’idolatria, poiché ci si genuflette di fronte all’argilla. Forse che l’uomo non adora la fulva argilla, quando con tutte le sue forze ama ciò che è terreno, il suo corpo fatto di terra e afferma tenacemente: ‘Sono corpo e solo corpo!’ Forse che l’Europeo non si prostra di fronte alla fulva argilla quando proclama come ideale una classe sociale, la nazione o l’umanità?
Non c’è dubbio: l’Europa non soffre d’ateismo, ma di politeismo; non soffre per la mancanza di dei, ma soffre perché ne ha moltissimi. Dopo aver perduto il vero Dio, essa ha voluto saziare la sua fame di Dio con la creazione di molti falsi dei, idoli. S’è creata idoli fondandosi sulla scienza e sulle sue ipotesi; partendo dalla tecnica e dalle sue invenzioni, s’è creata idoli; s’è formata idoli dalla politica e dai suoi partiti, e pure dalla moda ha ricavato idoli. In mezzo a tutti gli idoli dell’universo ha eretto il trono dell’egoismo dell’uomo europeo, dell’europeo Dalai-Lama”.