La Pasqua del 1929 nel campo di concentramento di Solovki

 

 

 

La nostra Chiesa delle catacombe a Solovki[1] possedeva parecchie “chiese”, fra le nostre preferite erano la “cattedrale della Santa Trinità” e la “chiesa di san Nicola”. La cattedrale, situata nella profonda foresta, consisteva in una modesta radura: il cielo era la cupola, le betulle formavano le mura. La cappella di san Nicola, nel cuore della foresta, era una sorta di rifugio naturale formato da un gruppo di grandi abeti. Era là che erano celebrati più spesso gli uffici religiosi. La cattedrale non serviva che in estate per le grandi feste religiose e particolarmente, con grande solennità, per la festa di Pentecoste. Talvolta, prendendo precauzioni doppie, un servizio religioso aveva luogo segretamente altrove. Il Giovedì Santo del 1929, giorno delle dodici letture dell’Evangelo che descrivono la Passione del Cristo, questa commovente cerimonia fu celebrata nella nostra sala dei medici della decima compagnia. I nostri vescovi Nicolas e Victor erano venuti da noi per una disinfezione. Fermammo le porte e l’ufficio poté avere luogo. Il mattino di Venerdì Santo, i nostri guardiani diedero lettura di un ordine che proibiva per tre giorni di uscire dalle nostre sezioni dopo le otto di sera, salvo casi eccezionali e con un permesso del comandante del campo. Alle sette di sera, nel medesimo Venerdì, nel momento in cui noi altri medici tornammo alle nostre baracche dopo dodici ore di lavoro continuo, padre Nicolas venne ad annunciarci che l’ufficio del seppellimento del Cristo sarebbe stato celebrato in un’ora. L’artista R. era riuscito a dipingere un Santo Sudario minuscolo, grande come il palmo di una mano. Monsignor Massimo domandò dove dovevamo riunirci: “Nell’enorme cassa per pesci secchi che si trova vicino alla foresta”; “segnale convenuto: battere due colpi e poi tre colpi. È prudente venire soli”. Mezz’ora più tardi, monsignor Massimo ed io, ci recammo a questo “indirizzo”. Alcune pattuglie ci fermarono due volte per vedere i nostri permessi. Come medici ne avevamo uno, ma gli altri come potevano cavarsela? Monsignor Victor teneva la contabilità nella fabbrica di cavi; monsignor Nektar era pescatore, gli altri tessevano le reti…

Ed eccoci arrivati al limitare della foresta; apriamo l’enorme cassa, di una lunghezza di quasi otto metri. Nessuna finestra naturalmente ed una porta invisibile. Battiamo come convenuto. Padre Nicolas ci apre. Due dei nostri vescovi sono già sul posto, un terzo arriva. L’interno della cassa è trasformato in chiesa: rami di abete ricoprono il suolo ed ornano i muri. Qualche candela brilla: piccole icone sono state appese. Il minuscolo Santo Sudario posto su dei rami verdi sembra perdervisi. Siamo dieci in tutto; quattro o cinque altri arrivano più tardi, fra loro due monaci. L’ufficio ha inizio. Le preghiere sono appena bisbigliate: ci sembra di avere solo orecchie, non più corpi. Niente ci distrae, niente turba le nostre preghiere…

Come abbiamo poi potuto rientrare? Non lo so. Il Signore ci protesse. Nella camerata dei medici ebbero luogo il luminoso mattutino pasquale, seguito dalla Santa Liturgia. Con il pretesto di urgenze mediche diverse, senza un permesso scritto, noi eravamo una quindicina di persone, riunite poco prima di mezzanotte, per la grande festa di Pasqua. Una volta terminata la Liturgia, ci fu il banchetto pasquale. Grazie all’amore delle nostre famiglie, avevamo sulla tavola la “Paskha” (un cibo che rappresenta l’agnello pasquale) ed i doni tradizionali, antipasti ed uova colorate (simboli della Resurrezione). Avevamo anche del “vino” , fabbricato con succo di bacche selvatiche, lievito e zucchero! Ci separammo verso le tre del mattino. Ci fu un controllo verso le undici della sera e le quattro del mattino. Il comandante che era venuto a verificare la sezione a quell’ora, ci trovò completamente svegli, tutti e quattro, compreso monsignor Massimo. “Allora, dottori, non si dorme?” – disse, poi aggiunse – “Che bella notte! Non s’invidia chi dorme”, e partì senza aggiungere parola.

“Signore Gesù Cristo, noi Ti ringraziamo per questo miracolo della Tua misericordia e della Tua potenza”, disse monsignor Massimo con profondo accento, esprimendo così i nostri comuni sentimenti.

La bianca notte terminava.

In questo mattino di Pasqua, un delicato cielo rosa salutava il “monastero-bagno penale” che il sole raggiante accarezzava come per trasformarlo in quella luminosa città di Kitèje, scomparsa nel mare e che, secondo la leggenda, riapparirà un giorno. Una dolce ed inesprimibile gioia riempiva le nostre anime liberate.

Sono passati molti anni, ma la bellezza di quel mattino di Pasqua resta indimenticabile in me.

 

 

Da “Les nouvex martyrs russes”, dell’arciprete Michel Polsky,

Résiac, Montsurs, France, 1976, pp. 260-262. Trad. A. G.

In “Italia Ortodossa” (vecchia serie), Anno IV n. 14, 1981.

 

 

 

 

Dalla “Nona conversazione” di padre Dimitrij Dudko, parroco a Mosca

 

Com’è bello in questo nostro incontro di oggi proclamare “Cristo è risorto!”. È la musica dell’eternità. E come sono meravigliosi gli inni pasquali, gioia dello spirito! La gioia pasquale afferra tutti, anche coloro che non vorrebbero. Ricordatevi, ad esempio, i visi truci degli ateisti che circondavano la nostra chiesa prima della processione pasquale. Tutti accigliati, scontenti, ma quando risuonò l’esclamazione “Cristo è risorto!”, anche sui loro volti apparvero sorrisi buoni e luminosi e l’espressione di ira forzata si trasformò in una maschera comica. Ricordatevi l’antifona pasquale: “Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e a coloro che erano nelle tombe ha donato la vita”. Per ora è solo la nostra fede, per ora la morte esiste ancora come realtà, ma la fede è il principio vivificante della vita, senza la fede tutto è mortale. Cantiamo dunque quest’inno.


 

[1] L’isola di Solovki, la più grande del mar Bianco, possedeva un celebre monastero con sei chiese del quindicesimo secolo. Trasformata dai sovietici in un grande campo di lavoro forzato, vi furono internati migliaia di detenuti, soprattutto ecclesiastici. Nel 1926 erano già ventiquattro i vescovi ortodossi ivi detenuti. (ndt.)

 

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