VITA DI SAN VITALE

Di Castronuovo di Sicilia, Abbate, e Confessore[1]



Trascritta da un volume stampato intitolato

“Vite de Santi Siciliani”

raccolte dal Padre Giuseppe Perdicaro,
della Compagnia di Gesù
nel Regno di Sicilia
Stampate in Palermo da Tomaso Remolo – nel 1688 –

Copiata da me Leonardo Mazziotta in Maggio del 1864.
Anno 990 - 9 Marzo


Mirabilis Deus in Sanctis suis
non fuit taliter Omni Nationi



Anno 990
9 Marzo

P. Ottavio Gaetano
 

 

Castronuovo Città mediterranea nella Sicilia molto dal mare distante, è situata sotto la pendice di alto monte, che parte guarda il mezzo dì, parte il Levante, nel suo nome mostra moderna la sua edificazione, ma ella in realtà è antica, che non se ne ha potuto rintracciare l’origine, né il nome, con che da’ primi Fondatori venne chiamata; che ella fosse stata delle più vetuste dell’Isola, si argomenta in primo dall’esser posta su di un altissimo monte da ogni parte scosceso, come usavano i primi abitatori della Sicilia, che in luoghi molto rilevati, ed eminenti situavano le Città più presidiate dalle rupi che da muraglie con che si ritenevano sicuri da nemici; inoltre si deduce la sua antichità dalle rovine di molti edifici, che giaccion presso alla medesima, e dall’ossa de Giganti, che di sotterra si cavano, come in altre più antiche del Regno: e vi sono certi argomenti essere stata abitata da Greci, e Cristiani; come si vede dalla dipinture, ed imagini, che gli antichi siciliani usavano nelle pareti delle cave, e dalla struttura del Battisterio alla forma greca, perforato nel fondo che per un cannoncello mandava giù l’acqua, finito il Santo lavacro; ci danno ancora di ciò fede le iscrizioni delle lapidi in greco, e latino idioma, che si leggono nella Chiesa di San Pietro vicino al fiume, e nel Tempio maggiore. Or questa antica città nelle guerre della Sicilia distrutta, essendo inespugnabile di sito, venne di nuovo riedificata, e perciò se l’impose il nome Castronuovo. Fu per molti anni posseduta da’ Saraceni ed alla fine si rese a Ruggiero Conquistatore della Sicilia; ed al pregio di sua antichità e di essere stata sotto le bandiere della Croce di Cristo, aggiunse gran vanto di tenere suo cittadino il Beato Vitale, uomo prodigioso, ed incomparabile Santità, come nella seguente sua vita si leggerà.

Nacque dunque San Vitale nella Città di Castronuovo da parenti non men di sangue illustre, che di ricchezze copiosamente forniti, ma più chiari per la Cristiana pietà. Sergio fu il suo padre, e Chrysonica sua Madre: entrambi a gran sollecitudin allevarono nell’età verde il loro figliuolo, e posero sotto la disciplina di eccellenti Maestri. Ma egli dallo spirito del Signore istrutto apprese in breve una più nobile dottrina che gli mostrò quanto fossero fallaci le speranze, che danno i beni del Mondo, e certe le promesse, che fa Cristo a’ suoi seguaci; onde posto in abbandono ogni cosa, acceso da gran desiderio di imprendere istituto di perfetta vita, lasciata la patria, e gli agi paterni, andonne in Argira al Monastero di San Filippo, e prese qui l’abito religioso, con molta umiltà, ed ubbidienza serviva in quei Ministeri che gli venivano imposti dal suo Abbate; e tutto intendo alla contemplazione delle cose celesti divenne in breve esatto esemplare della vita monastica, ed in cinque anni, che ivi dimorò si ammiravano sempre da quei servi di Dio i suoi gran progressi in ogni virtù. Obbligossi con facoltà dell’Abbate a voto di visitare le reliquie degli Apostoli Pietro, e Paolo, ed accoppiatesi con altri Monaci, ottenuta licenza da Superiori, si partì per Roma, e giunti in Terracina, volendo il malvaggio nemico dell’uman genere, che non combisse il suo divoto pellegrinaggio, gli tese insidie facendo che un serpe il mordesse in maniera, che gli recasse gravi pericoli della vita. Essendo dunque Vitale gravemente preso dal veleno pativa mortali svenimenti, ed i compagni non potendo apportarli soccorso attendevano già la sua vicina morte. Ma agli uomini pieni di fede, disse Cristo, che loro non nocerebbero i veleni; perciò il medesimo segnatesi colla Santa Croce, ad un tratto rimase libero; e così lieto per lo ricevuto beneficio, diede a Dio le grazie con i suoi compagni, che fecero della virtù di Vitale altissimo concetto.

Proseguirono intanto il loro viaggio, e giunti in Roma, dove riverentemente prostrati dinnanzi il Sepolcro de’ S.S. Apostoli offerirono i loro voti, e sodisfecero alla lor divozione; poscia per la volta di Calabria si dipartirono. Ma Vitale temendo non venire dalla vanagloria assalito, non volle far più ritorno al suo Monastero d’Argira, ma accultamente si involò da quei Monaci, ed in un luogo vicino alla Città di Santa Severino si nascose, e quivi fece dimora per due anni: tutto intento all’orazione la carne con digiuni, e penitenze mortificando. Quindi tragittò in Sicilia, e nel monte Etna in fronte al Monastero d’Argira, in cui egli aveva vestito l’abito, visse in solitudine per dodici anni, cibandosi di sole erbe, ed affliggendosi il corpo ignudo non men con rigori della neve, con estivi ardori del Sole. Ma temendo ancora in questo deserto luogo non venisse ravvisato per uomo di rigida penitenza, e si facesse alla sua spelonca concorso, andonne sempre di uno in altro luogo vagante e poi di capo fece ritorno in Calabria, e girando molte aspre e deserte montagne, finalmente elesse per soggiorno né confini della Città di Cassano il Monte Ligorachi appellato, che parve ben acconcio al suo disegno.

Quivi un dì gli venne incontro Antonio Abbate del Monastero vicino alla Calabria, sotto la regola di San Basilio, uomo di santissimi costumi, che aveva negli eremi, e montagne menata angelica, ed innocente vita. Questo dopo di aver trovato il santo uomo, ed umilmente chiestoli la penitenza, con scambievoli offici di carità si accolsero, e fatti vari ragionamenti sulle cose di Dio, volle Vitale conferirsi con esso nella sua cella, ove con molti salutevoli consigli ed ammaestramenti, l’istrusse: e ne lodò la costanza, conché sostenuto aveva le battaglie dell’infernale nemico: dicendo che fosse accorto a non intromettere nell’animo, per vincere gli assalti delle tentazioni, che egli contro ci muove l’oziosità o la diffidenza, che sono le sue fatali armature, conché egli abbatte le persone consagrate a Dio, egli è ben sagace diceva, ed astuto e non assale direttamente, ma con insidie, onde facilmente prende nel suo laccio i poco avveduti, e semplici, e fa che tralascino il sentiero della via ben cominciata, egli è non meno audace con pusillanimi, che timido con coraggiosi, se voltasi la fronte a’ suoi assalti: e noi medesimi somministriamo vigore della sua violenza con le nostre timidità; non avendo egli più forza, perché dal nostro Capitano Gesù Cristo fu già snervato, e vinto: le reti facilmente ci sfuggono da chi si solleva dalle vanità delle cose terrene colle ali della divina carità. Or dunque è di mestieri far animo, ed alla nostra resistenza fuggirà da noi il diavolo e resteremo nella pugna vincitori. Con egli ne’ Santi proponimenti confirmava Antonio, che le parole del Santo Padre con somma attenzione ascoltava.

Or dopo tali ragionamenti si partì Vitale per far dimora in altro luogo da ogni parte nascoso fuor dall’umano commercio, che Pietra Roseta oggi si appella; ma molto acconcia abitazione di assassini e micidiali, ove si nascondevano di avere tolto ai miseri viaggiatori o l’avere, o la vita. Or quivi egli santamente vivendo instantemente porgeva a Dio preghiere, che facesse da quel luogo sgombrare sì fatta razza di malvaggi uomini, ed impetrò, che affatto restasse libero da ogni infestazione e rese inoltre la strada agevole alla divozione del popolo per visitare un oratorio, che egli eretto avea al patriarca San Basilio, e vi aggiunse anche motivo l’aver egli mostrato una salutifera vena di acqua di gran virtù per guarire ogni malore; onde molta gente bisognosa, ed inferma vi andava per impetrar santità, la quale dava a Dio lode e grazie. Quindi quell’eremo risonava per tutto cantici di benedizioni, e molto più si accese in quei contadini la pietà: quando, per la copiosa pioggia, cresciute le acque dei fiumi, restarono inondate le biade, e si temeva sterilità; ma per intercessioni del Servo di Dio la furia della tempesta si represse e diedero i campi aloddevolmente la messe. Or per la grande estimazione, che da vicini villaggi si faceva del suo merito, abborrendo egli sommamente gli applausi degli uomini, si partì, e per un monte detto Raparo che guarda il Castello di San Chirico per vie molte disaggiate, giunse nella spelonca, che di Sant’Angelo si dice, ove da capo incominciò a vivere con molta austerità, e dopo alcun tempo passò nell’alta montagna di San Giuliano, e quivi ignudo tra rigori di eccessivi ghiacci passava le intere notti, e senza intermissione si tormentava con digiuni, e flagelli cosi severamente, che restò il suo corpo affatto ubbidiente allo spirito. Ma volle poi fornirsi di quelle virtù, di cui non può farsi acquisto fuorché nelle comunità, conversando or con uno facendo prova della pazienza, con altro dell’umiltà, con tutti le opere della misericordia, e carità compiendo si adornò in tal guisa l’animo con atti di pregio tale, che si rendé molto grato agli occhi divini. Perciò egli lasciata la solitudine, nel Monastero di Sant’Elia, che si chiama volgarmente Missanelli si ricoverò.

Quivi quantunque trovato avesse molti uomini, fu nondimeno a loro vivo esemplare di religiosa perfezione, poiché si dava a vedere nella mansuetudine singolare, nell’ubbidienza esattissimo, ammirabile nell’astinenza, assiduo nell’orare, e di profonda umiltà, continuamente per eccessiva dolcezza di devozione lagrimante. In somma aveva sì grande zelo della salute del prossimo, che non pativa taluno fosse o dall’ozio istupidito o, dalla golosità allettato, perché caritatevolmente l’ammoniva col suo esempio, ed al fervore lo stimolava: coloro poi che si mostravano amatori di se stessi, e de’ piaceri del mondo quasi che fossero velenosi bisce abborriva; non mai si compiacque di venir da altri lodato, anzi severamente il vietava. In somma tale fu lo splendore dell’osservanza che egli recò a quelli santi uomini, che non potevano contenersi di non fare quell’espressioni che suole riportare la santità.

Pertanto di nascosto si sottrasse dalla loro comunità e si rintanò in una valle che si chiude fra due monti di rimpetto alla Città delle Torri, ad Armento in Basilicata: dove trovata una spelonca piccola in essa molto tempo soggiornò, tenendo il medesimo uso d’asprissima penitenza. Ma se venne quivi molestato da demoni con spaventose larve, pure fu riconfortato dal Signore colla pienezza delle sue grazie perché andavano a lui le fiere de’ boschi a corteggiarlo, e con umili maniere si prostavano ai suoi piedi, non men che mansueti agnelli lo cingevano, lo intorniavano né si partivano prima di ricevere dall’uomo di Dio la benedizione, né solo gli animali terrestri, ma ancora gli uccelli accorrevano alla sua spelonca, a’ quali egli solea dare colle proprie mani di quei cibi, che erano per suo uso: e come se avesse dinanzi a se una moltitudine di uomini, così con essi si tratteneva favellando, e dopo averli benedetti, diceva, or andatevene via, date all’altri luogo di poter ancor essi avvicinarsi e di partecipare egualmente il ristoro, che avete sinora voi preso, ed essi incontanenti si partivano.

Una volta in tempo estivo vennero alcuni monaci alla sua spelonca molto lassi per gli eccessivi calori ed arsicci per gran sete e genuflessi a’ piedi del Santo Padre chiesero un poco di acqua per loro refrigerio; ma perché in quel luogo vi era gran seccagine, né pure se ne trovava un piccolo vaso egli non di meno per apportare agli ospiti alcun rinfresco vide nel campo pascolante una cerva, al suo imperio divenne con usata mansuetudine immobile; e tanto vi dimorò, finché presero da quella copiosamente il latte, che mitigò alquanto loro la sete. I monaci poscia, rese a Dio le grazie, e sublimando il merito del Santo Uomo, si partirono; ma non rimase soddisfatta la carità di Vitale, perché posto in orazione domandò con molte lacrime al Signore, che aprisse un largo fonte a beneficio de’ pellegrini; ed erompere un’occhio di limpidissima acqua, ed in tanta copia, che si stagnò in un fondo di terra, che sin oggi si dice il lago di San Vitale; ed in tutto il tempo che ivi dimorò in rendimento di grazia a Dio usava nelle gelate notti dell’inverno in quell’attuffarsi fino a mezza cintola, mortificando in siffatta guisa la carne che ancora solca affliggere con ardenti calori del sole.

Pervenne la fama della Santità di Vitale al gran Monastero, che si chiama col nome della Città vicina, Armento, allora retto da un’uomo di segnalata virtù per nome Luca. Questi sentendo la rigida vita, che menava un tal Monaco, e le meraviglie che Iddio faceva per le sue orazioni, incominciò a volger seco nell’animo se fosse utile spiar di qual tempra fosse quella virtù, che si fatte cose operava, e se veridica, o bugiarda fosse la fama; perciò verso la valle, ove faceva soggiorno il Sant’Uomo imprese il viaggio, e giunto al termine, dopo le usate genuflessioni, e scambievoli riverenze, sulla soglia della spelonca di Vitale fermatosi; di un in altro ragionamento passando, vennero a discorso di molte cose alla vita spirituale appartenenti; e dalle parole di Vitale ben comprese Luca, quanto alta fosse la celeste sapienza di cui era ripieno, e dall’esperienza imparò non discordar dal vero la fama. Or venuta l’ora del pranzo, volle trattar al meglio, ch’egli poteva l’ospite sì venerabile, perciò ordinò si apparecchiasse dal suo discepolo che Elia si chiamava, alquanto di frumento cotto nell’acqua e per maggior lautezza fe cogliere alcune cipolle nell’orto, e presane una, che divise in quattro parti dinanzi all’Abbate Luca presentò; ma questi tal cibo nauseando mostrò di sommamente aborrirlo; pur il mangiava Vitale essendo questo con pane di orzo il suo usato alimento. L’Abbate Luca intanto per non mostrarsi ritroso, benché temendo, ne prese ancora egli parte, ma appena gustollo che cadde tramortito in guisa, che perduti i sentimenti, pareva affatto finito. Dispose ciò Iddio per dimostrare di quale potenza fosse l’orare di Vitale, il quale subito genuflesso, alzati gli occhi al Cielo, pregò il Signore, che gli fosse in grado da sé strano accidente rendere libero quel suo servo, che non per vana curiosità, ma per zelo di suo onore, era a lui venuto, ad esaminare i suoi costumi, ed andamenti, e di poi, fatto sopra di Luca il segno della Croce, ad un tratto lo fece rizzare in piedi affatto libero, il quale chiede umilmente prostrato perdono al Santo Uomo, e confessò di aver, e nelle sue parole, e ne’ fatti prodigiosi, conosciuto esser egli pieno dello Spirito del Signore. Corse la fama della Santità di Vitale per tutte le Città vicine, ed alla sua cella correvano per loro bisogni dell’anima molte genti, e massimamente peccatori, a cui egli prometteva essere tanta la misericordia di Dio, che le lor colpe perdonerebbe. Onde divotamente si confessavano, ed egli vedendo il dolor di cuore e tristezza della lor anima per i peccati, che aveano commessi, soleva imporre molto lieve penitenza; perché considerava la debolezza della natura, e gran parte sodisfarne la pena l’interna contrizione; stimava egli dunque la noia della crudel penitenza non cagionasse della confessione abbonimento, o il demonio non inducesse l’uomo a disperazione. Dava perciò a ciascheduno secondo la qualità del morbo convenevole rimedio, e rimandava a casa ognuno ne’ costumi migliorati, e pieno di giubilo per la ritrovata amicizia con Dio. Benché fosse molto savio il Consiglio di Vitale, che illuminato da celeste lume, guidava le anime per gli abiti viziosi infiacchiti nella strada della virtù, non imponendo loro peso tanto insoffribile, ma quando si potrà dalle forze sostenerle, valendosi del consiglio dell’Apostolo, che di meno non venne approvato da alcuni, quantunque discreti e santi che si usasse si fatta clemenza con i rei di gravi falli, onde Leanzio di Petra ed Ilario di Galaso stimando non fosse Vitale uomo di vero consiglio e molta letteratura, vollero convenirlo ed interrogarlo quali motivi volgesse egli nell’animo di mostrarsi si benigno con uomini cotanto malvagi, lasciando secondo il merito impunite le lor colpe. Giunti dunque alla spelonca gli aprirono i loro pensieri, ed il Santo di molto gaudio si riempì, intesa la cagione di lor venuta, ed in argomento di sua letizia, fe subito preparare la mensa, e recare le sue usate cipolle, che vedute da quei padri, non potendone neppure soffrire l’odore incontenente, dalla tavola si partirono; di ciò prese l’opportunità Vitale per lor ammaestramento e disse: or se voi abborrite da un cibo, perché non vi aggrada, ed abbandonate la mensa, pensate voi che faranno i peccatori, fuggiranno dal confessarsi, se gl’imporranno legge troppo severe? Il chiamarsi colpevole dinanzi ad un uomo, e manifestare i suoi occulti pensieri, è molto noioso. Non è dunque da renderlo più che si può disgustevole con aspre riprensioni, e dure penitenze? È in gran pena l’intero rammarico. Cristo accoglieva i pubblicani e meretrici e bastandoli la contrizione del cuore non esigeva altro castigo. Alla donna adultera altro non disse in riguardo del suo errore, che non ritornasse più a peccare. Né meno impose a Maddalena penitenza: quantunque ella da sé castigò poi con lacrime, e disaggi di lungo romitaggio le sue macchie. Chi si duole, ancor ama, e chi ama da se medesimo cerca sodisfare le offese dell’amato. Anzi Iddio altro non richiede dal peccatore, che perfetto amore. Così egli, ed in conferma adduceva molti esempi, e della Scrittura, e degli antichi Padri, in maniera, che quegli uomini restando molto soddisfatti del discorso di Vitale, conobbero essere egli pieno dello spirito Divino; e formando alto concetto di sua prudenza, presero molto lieti commiato, e diedero a Dio lode di aver trovato un discreto maestro che saviamente guidasse le anime nella via della salute.

Quindi fu, che essendo richiesti i sopranomati Ilario, e Leonzio da un nobil’uomo per nome Basilio, che teneva il governo della Città di Bari, e vicini Castelli, per conferire con essi loro cose appartenenti allo Spirito; Vollero questi menar seco Vitale, che nella sua spelonca ritrovarono, e con molte istanze lo richiesero di sua compagnia, per sodisfare a pii desideri di Basilio. Accettò egli l’invito, e furono da questi amorevolmente, e con dimostranze di gran letizia accolti; poi nel dì seguente chiamò a se nelle più segrete stanze Ilario, per aprirgli i suoi segreti pensieri, ed apprendere i suoi consigli; Ilario volle seco Leonzio, per non errare; ma entrambi neppure affidandosi di sua prudenza, chiamarono unitamente Vitale, che intromesso nelle sue stanze, ed uditane la cagione; ricusò divenir Maestro di Spirito. Ladove erano quei due non men prudenti, che santi Sacerdoti, confessandosi egli per idiota, e di scarsa letteratura, dicendo, che da quelli ricevere poteva più savi consigli. Ma Basilio non acconsentì per niun verso, e volle, che Vitale, della cui santità si era ben raguagliato, fosse sua scorta nella via della salute, e ne restò pienamente soddisfatto, non solo per gli ammaestramenti, ma ancor per i miracoli, che vide egli medesimo operare, essendo che un dì mentre sotto l’ombra degli alberi a ciel sereno con Basilio ed altri ragionava delle cose di Dio, ecco repente coprirsi il Sole di oscurissime nubbi, e con spaventosi tuoni, e baleni cadere giù copiosissime pioggi, e dense grandini, che fecero gran stragge, non solo di quel luogo, per tutte le vicine contrade di uomini, ed armenti; ma con grande meraviglia la tempesta non s’approssimò a quel luogo, ove il Santo Uomo stava ragionando; neppur Basilio patì minimo danno ne’ suoi poderi, o nelle greggi. Dal che egli forte stupito, si prostrò ai piedi del Beato Vitale, ed offertogli doviziosi doni d’oro, ed argento, e ciò che fosse di suo beneficio liberamente, in riguardo del suo gran merito che avea presso Dio; egli rifiutò le offerte di ciocché era prezioso e solo accettò alcune imagini, e vasi per servizio del sacro Altare, e lasciatelo ben istructo con salutevoli ammonizioni, fece alla sua spelonca ritorno.

E qui volle rifabricare un Tempio prima consacrati alli gloriosi Martiri Adriano, e Natalia sua consorte, e per essere ricorsi a lui molti religiosi tirati dall’odore di sue Angeliche virtù, che bramavano la sua santa conversazione, si deliberò edificare un Monastero in cui ferventemente ciascheduno servisse al Signore. Operò egli in questo luogo molte, e molte meraviglie. Essendo che rendeva l’uso delle membra a’ storpi, la mondezza a’ lebrosi, a’ ciechi il vedere, e molti dall’oppressione de’ malvaggi spiriti metteva in libertà. Quindi molti da lontani paesi venivano a lui quasi a celeste medico ancor per la salute delle anime, confessando le loro colpe; ond’egli secondo il loro bisogno applicava rimedio convenevole, esortandoli ad una sincera confessione, ed a cessare dal mal fare, ed alla perseveranza del bene; animandoli a non ritornare in dietro per gli assalti del demonio. In somma a tutti giovando con sante ammonizioni li rimandava alle loro città.

Avvenne una fiata caso molto predigioso, e di grande ammaestramento a coloro che per darsi fede alle loro bugie, fanno contro di se imprecazioni, e scongiuri. Conciosiacché una donna richiesta da un’altra che le dasse apprestare un pane, rispose questa non esserle neppure un minuzzolo rimasto, ed in fede di ciò, oltre d’invocare il nome del Signore (come sogliono per ogni lieve cagione usar le donne) aggiunse in prova di essere ciò vero, che diceva, che venisse il suo collo circondato da una serpe, ma pronunziò contro se stessa la mendace, e spergiura femina la sentenza; perché nell’ora del pranzo in vece di prendere dalla sporta il pane, saltò fuori un serpe che se l’avviticchiò al collo; e dal mese di Maggio in fin al Marzo non poté per niun verso, quantunque usasse ogni arte di medicina, prosciogliersi da quella velenosa bestia, che dì e notte portava quasi collana. Alla fine fuggita dalla meschina ogni speranza di salute alle persuasioni di molte donne, che l’animavano a ricorrere al Sant’Uomo Vitale, acciò ottenesse da Dio per suo merito la grazia, dalle medesime accompagnate, andò al Tempio de’ Santi Martiri Adriano e Natalia; ma non trovato l’Abbate, che ritirato ne’ monti soleva le intere notti trapassare nella contemplazione, molto dolenti si posero a giacere fuori nell’atrio del Monastero, gelando per lo gran freddo, finché venuta l’ora di recitare il matutino, ritornando egli vidde la povera gente, che forte pativa per lo gran freddo, onde ordinò ad un tal Monaco per nome Nilo, che l’introducesse nella sua cella, e vi accendesse fuoco: mentre egli nel coro insieme co’ Monaci cantava le divine lodi quando dal sonno sorpresa, e dalla stanchezza giaceva la miserabil donna, una delle compagne si valse del cingolo del Beato Padre che trovò nella sua cella, e lo pose sul corpo dell’inferma; ed ecco il serpe ad un tratto dal collo si prosciolse e cadde in terra. Non si era ancora ella destata d’aver ottenuta la grazia finché ritornato il Santo si destò e sentissi dalla bestia affatto libera; onde piena di gran giubilo con tutta la brigata diedero molte grazie a Dio, e genuflesse dinanzi il Santo Uomo si percoteva il petto, chiedendo che impetrasse loro dal Signore perdono delle loro colpe; ed egli alla donna rivolto, disse le parole di Cristo: - Ecce sana facta es jam amplius noli peccare, ne deterius tibi aliquid contigat -. Facendola avvertire, i mentitori e spergiuri, che il tremendo nome del Signore vanamente chiamano per testimonio della falsità, porteranno del loro ardimento severissima pena.

Si conobbe in un altro avvenimento quanto fosse in grado a Dio il suo merito, perché infestando i Saraceni la Calabria, la Puglia e Basilicata, mettevano ogni cosa a saccheggiamento, e facevano non solo degli animali ma ancor degli uomini crudelissima stragge, e pervennero finalmente al Monastero del Venerabile Abbate, da cui fuggiti pel gran terrore i Monaci, egli vi rimase solo; e fu preso che lo richiesero di manifestare, dove pascolassero i suoi armenti, e dove fossero riposte le ricchezze, non credendo, che gli abitatori di quel luogo nulla possedevano, e che di ogni cosa di mondo spogliati, si procacciano colle fatiche delle loro mani la provisione del vivere; severamente lo minacciarono di farne mal governo. Alla fine decretarono di troncargli il capo, ed uno di loro più fiero alzò il ferro per colpirlo, ma di repente fu da una nuvola, quasi di caliginoso fumo, e terribile fiamma intorniato, dal che atterrito, senza sentimento in terra, sfuggendogli dalle mani la spada. Ma pur il Santo Abbate mosso a pietà dell’infelice barbaro, che giaceva tramortito, ne prese quella vendetta, che sogliono i Santi de’ loro malfattori, e fu di richiamarlo a’ sensi col segno della Croce, ed imponendogli che ritornasse a’ compagni, che ancor essi stupefatti del miracolo, viddero inoltre, che quando il Beato Uomo fece sopra il tramortito la Croce una fiamma di fuoco alzavasi sino al Cielo; perciò con timore si avvalsero a’ suoi piedi, ed umilmente chiesero del lor misfatto perdono, e che per loro porgesse a Dio sue preghiere, e Vitale con fervente sermone lor persuase, che si astenessero di più oltraggiare i Cristiani, né di spargere il sangue innocente, e depradare le loro sostanze. Diede ancor a quei barbari un buon ragguaglio della Santa Fede, della venuta di Cristo al Mondo, e del futuro giudizio, in cui punirà i rei con eterni supplicii di fuoco. Del che atterriti quegli infelici, e temendo la Divina vendetta, genuflessi dinanzi l’Abbate, promisero, che per l’avvenire mai più farebbero onta a’ seguaci di Cristo, non osando intanto mirarlo nel volto, che non sembrava loro di uomo, ma di un Serafino, e finalmente attenuto commiato si dipartirono.

La fama intanto de’ prodigi, che operava Iddio per intercessione del suo Servo, tirava al Monistero gran frequenza di popolo, che interrompeva il santo ozio di sua contemplazione, perciò presosi un suo nipote, e discepolo per nome Elia, che da molto tempo si era da Sicilia partito andò ad abitare vicino il fiume della Città di Rapolla, e qui in solitario luogo riprese da capo le sue usate penitenze di trapassar le notti, or immerso nei gelati stagni or orando ne’ monti, e con l’altre asprezze sopra narrate. Nulla però di meno andando i Monaci alla traccia del suo Abbate, alla fine il trovarono. Eresse perciò egli in quel luogo un Monastero, e con quelli dimorò in Santa conversione sino all’estremo di sua vita non tralasciando di ferventemente allo studio delle Sacre Scritture, all’osservanza dell’istituto monastico, al distaccamento delle cose caduche, e soprattutto a stabilirsi nell’umiltà, e carità fraterna, e designò intanto un uomo santissimo per suo successore nel governo del Monastero. Essendo egli acceso più che mai dell’amor del Signore, che sommamente bramava vedere, e ricevere la mercede delle sue fatiche; si preparò al suo felice passaggio esendogli già da un’Angelo recata la novella: onde chiamò a se Elia, uomo di prudenza, e di ogni virtù ornato, e gli disse già essere vicina l’ora di sua partenza dal mondo, e perciò dopo sua morte non facesse ivi dimora, ma che subbito alla Città delle Torri si conferisse; e dopo trenta anni (se sarà in grado a Dio) io sarò da te e ti paleserò dove si debba il mio corpo trasportare. Convocati dunque tutti i Monaci, e con salutevoli ammonizioni consolatili, passò al Signore alli 9 di Marzo ad un’ora di notte in giorno di Venerdì l’anno di nostra salute 990. Fu intanto nel Monastero di Rapolla, da lui edificato, onorevolmente sepolto; ed Elia ubbidendo a’ detti del suo Abbate, abitò nè confini della Città delle Torri; e quivi congregato un buon numero di Monaci eresse un Monastero menando lodevole, e Santa vita; ed ecco nell’anno trentesimo alle ora quattro di notte apparve il Venerabile Vitale in visione al Nipote, secondo avea promesso e gli ricordò ciò, che della sua traslazione gli avea imposto; e che voleva fossero le sue ossa in quel luogo suo portate.

Si partì nella medesima notte l’Abbate Elia con cinque altri Monaci, a cui gli aveva narrato la visione, e pervenuti a Rapolla, essendo per divina ordinazione i Monaci in tal guisa addormentati, che si diede agio di poterne torre dalla sepoltura il Santo Corpo il quale disotterrato senza pur che gli mancasse un capello, mandò una fragranza di Paradiso. Ed il medesimo Beato, a’ Monaci che atterriti facevano il pio officio, apparve, e promise che sarebbe per sortire loro felice il viaggio, onde ricompostolo in una bara portata da due giumenti, tutti lieti si rimisero nella strada ed arrivati in Pietra Pertosa, Città della Basilicata, ebbero in rivelazione che era a Dio in grado fosse ivi il merito del suo Servo con meraviglie manifesto, e mentra tra di loro i Monaci conferivano ciò, che aveva detto a ciascuno di essi un’Angelo, si udì un Coro di celesti spiriti, che con dolce melodia cantavano lodi al Signore. Divulgossi per tutto l’arrivo del Beato Abbate, e concorrevano intieri popoli delle Città, e Castelli vicini cantando le Litanie, e molti ciechi, e storpi, ed indemoniati impetravano rimedi de’ loro mali, e pieni di gran letizia alle loro abitazioni ritornavano. Giunti poi, al villaggio detto Guardia, tra Pietra Pertosa e le Torri, i giumenti portatori del sacro deposito divenuti immobili, non bastò niuna violenza a far che movessero un passo innanzi, il che pervenuto a notizia di Giovanni Vescovo delle Torri, congregato il Clero, e suo popolo con turiboli, e lumi andavano ad incontrarlo; ma accorgendosi che il Venerabile Corpo nemmeno si lasciava riporre in un carro nuovo che gli avea fatto lavorare per introdurlo nel suo Vescovato; con supplichevoli voci, e lacrime egli, e tutta la moltitudine pregò al Signore che esaudisse le loro preghiere; non di meno conoscendo, che non era al Santo in piacere di passare oltre, ma in quel luogo dimorare il Vescovo col Beato Elia, vestiti di abito sacerdotale, l’involsero in preziosissimo ed in nuovo sepolcro il riposero, ed un tempio fabricarono che fu al suo nome dedicato, né seccò ivi la copiosa vena delle grazie, ma più che altrove copiosamente sgorgò.

Correndo intanto quei tempi calamitosi in cui i Saraceni signoreggiando la Sicilia nella vicina Calabria facilmente tragittando mettevano a sacco le Città, e Villaggi, facendone crudelissima stragge; perciò i terrazzani intimiditi mettevano in abbandono l’abitazioni, e si rifugiavano su gli alti monti, che sembravano loro più presidiati dalla natura, entrato in timore il Vescovo delle Torri, uomo non men dotato di prudenza, che di lodevole vita, non fosse il Sacro Sepolcro per incontrare qualche oltraggio nel Castello della Guardia, perciò trasferirlo nella sua Cattedrale per aver inoltre un valoroso difensore in quei perigliosi assalti de’ barbari la sua Città, perciò insieme col clero e tutti i cittadini andò al Tempio, e dall’ora di terza del Venerdì in fin all’alba del Sabbato trapassò in vigilie, e ferventi orazioni; dopo il Vescovo prese un martello percosse la lapide del monumento, ponendo ancora gli altri ogni sforzo con più colpi, non si poté mai infrangere, come se fosse stata di materia più soda, che bronzo, ammirati tutti rimasero, che di sì strana durezza fosse divenuto il marmo, né sapevano a qual consiglio appigliarsi; pose intanto lo Spirito in mente al Vescovo un pensiero, che quell’opera doveasi imprendere da gente monda ed innocente. Onde esclusi gli altri, ritenne seco il Clero, e Religiosi nella Chiesa, ed ordinò loro, che porgessero a Dio ferventi suppliche, e con lacrime gli chiedessero gli fosse in piacere di concedere alla loro Città le ossa di quel Santissimo Uomo per scudo contro a’ nemici della sua fede, e per potentissimo a curar non men l’infermità del corpo, che le piaghe dell’anima; che si piegasse alle loro lagrime, ed umili preghiere, non riguardando l’indegnità di chi pregava, ma l’infinita sua misericordia, per benedire, e lodare perpetuamente il suo Santo Nome, ed a queste suppliche tutti risposero: Amen. Quando ecco di repente un gran terremoto, che scosse la Chiesa, e da sé cadde la lapide del Sepolcro, apparendo il Venerabile Corpo d’abito angelico vestito, e l’ossa spolpate dalla carne, ma a guisa di stelle risplendenti, la destra ancora intatta colle dita alzate in atto di benedire, e si riempì il Tempio di soavissima fragranza, che giunse sino alla piazza, ove aspettava la moltitudine del popolo, a gran voci con lacrime di tenerezza gridando: Kirie Eleison, furono riposte le Sacre Reliquie in un’arca, che processionalmente portarono quattro sacerdoti, cantandosi inni di lode al Signore, e collocarono nel Tempio che eressero e consagrarono al suo nome nella Città verso Oriente, e quivi versò il Santo Abbate la pioggia delle sue grazie sanando ogni sorta d’infermità.

Ma dopo alcun tempo Tuscano figliuolo di Baddi Conte, e signore di quella Città, di gente Normanna, che tolse a’ Greci la Puglia, Basilicata, e Calabria, volendo il Sacro deposito del Beato Vitale nella Città di Armento ove egli faceva sua residenza, e servendosi dell’opportunità, nascostamente lo tolse dalle Torri e lo portò in Armento, ove venne a gran giubilo ricevuto da tutto il popolo, e con grandissimo onore lo riposero nella Chiesa del Beato Luca Abbate Carbonese, nato in Sicilia di Castrogiovanni. Rimase intanto la Città delle Torri molto dolente e con amari gemiti tutt’i cittadini piangevano inconsolabilmente sì gran perdita; ma il Beato Vitale li racconsolò dandosi a vedere a molti in visione, e dicendo essere stato in piacere da Dio che le sue ossa fossero vicine a quelle dell’Abbate Luca, suo fratello, ma che non lasciava di essere con loro, tenendoli sotto il suo patrocinio, e che fossero di buon animo; perché adempirebbe i loro voleri, la quale visione confirmata con gli effetti di molte grazie ottenute temprò la loro mestizia, perché in ogni bisogno ricorrevano al suo Tempio, in cui quantunque non fossero le sue Reliquie, pur non mancò la sua protezione. La vita di San Vitale fu prima nel greco idioma da un Monaco suo discepolo scritta e poi tradotta da un’altro in latino; si è cavata da manoscritti della Chiesa di Armento ove si venera il suo Beato Corpo e nel proprio officio per tutta l’Ottava viene divisa nelle lezioni del matutino, e riferita dal Rev/o Padre Ottavio Gaetano nel II tomo de’ Santi di Sicilia all’anno del Signore 990.


 

[1] Il testo è tratto da: COMUNE DI ARMENTO, Millenario della morte di san Vitale, 9 marzo 1990, 15-39.

 

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