LO STARETZ PAISIJ VELICKOVSKIJ
Lo Staretz Paisij ebbe una parte assai notevole nella rinascita del monachesimo e della vita ascetica in Russia. Egli stesso percorse una lunga via di ricerca spirituale e d’incertezze interiori e nel corso della sua vita, che superò i settantanni, esercitò la sua influenza in varie località. Forse sono proprio queste peregrinazioni che, come lui, costrinsero altri ricercatori di Dio ad errare da un luogo ad un altro, una prova della decadenza della vita monastica in Russia.
Paisij proveniva da una famiglia sacerdotale. Nacque nel 1722 a Poltava e già nei primi anni della giovinezza venne a contatto con la vita ecclesiastica. Secondo l’uso dell’epoca, cominciò gli studi con la lettura del “Salterio” e dell’ “Orològion”. Ma ben presto l’istruzione tradizionale non riuscì a soddisfare le sue esigenze. Egli si isolò dall’ambiente circostante e cominciò ad immergersi nella lettura della Sacra Scrittura e delle opere dei Padri. Nella sua giovane anima sorse il desiderio di abbandonare il mondo e di farsi monaco, per condurre una vita simile a quella degli angeli. A tal punto amava il silenzio – così si narra – che sua madre stessa solo di rado poteva intrattenersi a parlare con lui. Era d’animo mite ed equilibrato, assai timido non solo di fronte agli estranei, ma anche nei rapporti con i familiari.
Dopo la morte del fratello maggiore – egli aveva allora tredici anni – grazie all’intervento dell’arcivescovo di Kiev fu accolto nell’Accademia teologica di quella città. Nei quattro anni che vi trascorse diede prova di essere uno scolaro diligente e dotato di notevole intelligenza, ma vi trovò ben poca soddisfazione interiore. Nell’intimo del suo animo metteva sempre più profonde radici un orientamento per la vita monastica. Con alcuni compagni di scuola, che nutrivano lo stesso ideale, vagheggiava in conversazioni notturne, che si protraevano sino alle prime ore del mattino, pellegrinaggi a Gerusalemme, all’Athos, dove fioriva nella sua genuina bellezza l’ascesi cristiana, al Sinai e nei deserti dell’Egitto, il cui profumo spirituale egli aveva respirato negli scritti di san Efrem Siro e nelle vite dei santi monaci egiziani. “Giacché – così si legge nella sua biografia – il Signore gli concesse già nella giovinezza la sapienza, l’umiltà e l’intelligenza proprie dell’età avanzata”. E così una notte egli lasciò di nascosto la scuola, fuggì da Kiev e si diede alla vita errante come un pellegrino in cerca della patria celeste. Il destino lo condusse dapprima al monastero di Ljubec, non lontano dalla città omonima sulle rive del Dnjeper. L’igumeno lo accolse amorevolmente nella comunità, gli assegnò una cella di obbedienza (poslnsanije) nel monastero. Paisij provava una profonda gratitudine e gioia constatando quotidianamente con quanto amore i confratelli si assoggettavano alla guida del loro padre spirituale, il quale attendeva al suo ufficio con la bontà e la saggezza richieste dalla responsabilità della sua funzione. Tre mesi trascorsero in pace in queste comunità, allorché in seguito alla nomina di un nuovo igumeno, che aveva un carattere rigido e dispotico, tutta la vita del monastero si trasformò di colpo, i fratelli furono presi da angoscia e smarrimento; alcuni fuggirono dal monastero ed anche per Paisij la vita divenne insopportabile. In una notte d’inverno si recò al fiume ed attraverso il ghiaccio passò all’altra riva.
Di nuovo cominciò ad errare per le ampie steppe verso il Sud ed un giorno si trovò dinnanzi alle mura del monastero di san Nicola costruito su un’isola del fiume Tjasmin ed appartenente alla Moldavia. Le sue preghiere furono esaudite ed egli fu accolto tra i confratelli. Nuovamente egli attese obbediente ai lavori che gli venivano affidati e si dedicò con tale zelo al servizio del monastero che qualche tempo dopo, alla festa della Trasfigurazione, l’igumeno gli diede la tonsura monastica e gli impose il nome di Platon. Aveva diciannove anni. Nella solitudine di Tjasmin la sua anima poté riposare e lentamente maturare. Ma avvenimenti esterni, la persecuzione per opera degli Uniati, provocarono un inatteso mutamento. Le chiese furono chiuse ed i monaci cacciati dal monastero. Ed egli ripercorse la via per Kiev. Vi fu accolto e trovò lavoro nella tipografia della Pecerskaja Lavra, dove apprese pure l’arte di incidere icone nel bronzo. Ma tuttavia il giovane monaco ardeva dal desiderio di condurre la vita di eremita in solitudine e nella quiete sotto la guida spirituale di uno staretz, a cui poter affidarsi nella difficile via dell’ascesi. Allorché, un giorno, due monaci partirono per un pellegrinaggio, Platon si unì a loro e giunse, dopo lungo errare per l’Ucraina e la Moldavia, in Valacchia con il proposito di raggiungere l’Athos. Per un certo tempo rimase dapprima a Traisteny, nello Skiton di san Nicola Taumaturgo, e successivamente in quello di Kerkul, che sorgeva in una regione celebre per la bellezza e l’ubertà del suolo. Sotto la guida esperta degli Startzy Vasilij ed Onufrij, come pure grazie all’aiuto dell’igumeno di Kerkul, Feodosij, egli progredì nella vita interiore e ben presto apprese il vero silenzio dei monaci, “principio della penitenza e della preghiera” secondo san Isacco Siro.
Tre anni o forse un po’ più trascorse Platon in Valacchia ed in questo periodo apprese la lingua della regione, giacché nutriva la speranza di tradurre in essa gli scritti dei Santi Padri. Finalmente giunse il giorno in cui poté realizzare il suo più ardente desiderio, di recarsi cioè all’Athos. Aveva 24 anni quando assieme allo ieromonaco Trifon, dopo aver ricevuto la benedizione dell’igumeno dello Skiton egli si mise in viaggio. Fu il momento più importante della sua vita quello in cui, dopo aver affrontato i pericoli e le privazioni che comportava un viaggio per terra e per mare, si presentò ai suoi occhi l’Athos ed egli, con i suoi compagni, dopo essere sbarcati, salirono alla Laura di san Atanasio. Platon ottenne come abitazione un kellìon nei pressi della Laura. Attorno a lui vivevano in piena povertà, rinuncia e silenzio monaci e padri che avevano ormai raggiunto un elevato grado di vita ascetica. Nella ricerca di un monaco che lo guidasse nella vita spirituale, egli si rivolse a più di uno tra loro, offrendo i suoi servizi. “Ma Dio dispose – si legge nella Vita – che non trovasse ciò che cercava. Allora egli si affidò alla Provvidenza Divina e rimase anche nel tempo successivo solo”.
“Chi potrebbe narrare tutte le sue lotte – si legge nella Vita – allorché solo davanti a Dio, con zelo ardente lottava per la formazione dell’anima sua. Egli prese su di sé la povertà e le privazioni, il digiuno e la sete, la contrizione e l’autoaccusa. Quanti sospiri e preghiere uscirono tra le lacrime dal suo cuore! Quali lotte dovette affrontare contro l’ira, la sensualità, la superbia, che assalgono la mente che si rivolge a Dio, quanti combattimenti contro lo scoraggiamento che è così terribile con coloro che si dedicano al silenzio e le passioni! A quali tentazioni fisiche e spirituali dovette opporsi, quante debolezze e sofferenze superò! A tutte queste prove si aggiunsero dubbi di ogni genere, incertezze e momenti di disperazione di fronte agli agguati del demonio e la difficile e tremenda lotta contro i pensieri. Ma il giovane monaco superò tutte queste difficoltà col l’aiuto del Signore a cui era unito con tutto l’animo. E quante preghiere di ringraziamento egli elevò a Cristo dal cuore finalmente libero”.
Quasi tre anni trascorse così in una beata solitudine ed in un fruttuoso silenzio: “ogni giorno rappresentava per lui il gradino più elevato su cui salire, preso, come era, dal desiderio di nuove lotte e godendo della fiamma rugiadosa dell’ardore divino”. In questo periodo di tempo giunse dalla Valacchia all’Athos il già menzionato ieromonaco Vasilij e, quando comprese quale sviluppo avesse preso la vita spirituale del giovane Platon, lo rivestì del piccolo abito monastico (Mikròn Schima) e gli ridiede il nome di Paisij. Erano passati intanto altri quattro anni, allorché a lui si rivolsero alcuni giovani monaci e lo pregarono di prenderli sotto la sua guida spirituale. Questi monaci erano alcuni di lingua moldava, altri slava. Poiché assai scarsi erano i monaci insigniti del sacerdozio, Paisij, in seguito alle insistenti preghiere dei suoi confratelli, dopo lunghe incertezze accettò di farsi consacrare sacerdote. Quindi ottenne dal Pròtos della Laura un vecchio kellìon disabitato, consacrato al profeta Elia, non lontano dal monastero del Pantokrator: Paisij vi edificò una chiesa, un refettorio e sessanta celle. Il rispetto e l’amore, di cui era oggetto da parte di tutti, erano tali che la sua Comunità cresceva di giorno in giorno. Ben presto le celle a disposizione non furono più sufficienti, per cui i monaci erano costretti a vivere in uno spazio ristretto ed in difficoltà economiche. Paisij considerò se non fosse il caso di ritornare in Valacchia e costruirvi tra i monti un nuovo monastero. Perciò partì con sessanta monaci alla volta di Costantinopoli e di Galatz, donde passò in Valacchia. Ma siccome non trovò alcuna località adatta al suo scopo, si recò a Jassy ed ebbe a disposizione dal metropolita della Moldavia il monastero di Dragomirna intitolato alla discesa del Santo Spirito. Qui Paisij, che nel frattempo aveva ricevuto anche il grande abito angelico (Méga Schima), introdusse la vita cenobitica secondo le norme di san Basilio e san Teodoro Studita. Per quanto concerneva l’ufficio liturgico introdusse la prassi dell’Athos. In chiesa il coro di destra cantava in slavo ecclesiastico, quello di sinistra in moldavo. Nessun monaco poteva chiamare un oggetto “mio” o “tuo”, poiché tutto era comune, così come Dio lo ha creato, i pasti venivano consumati in comune e solo i malati o quanti erano di salute cagionevole potevano assentarsi dal refettorio. Tutti i lavori del monastero erano compiuti esclusivamente dai monaci, che vi attendevano con tutte le loro forze e con timore di Dio. Infatti il lavoro in comune allontanava dall’animo la disobbedienza, lo spirito di opposizione e l’ostinatezza, che distruggono i comandamenti divini. Giacché, di ogni altra virtù conta per prima la rinunzia alla propria volontà ed alle proprie idee. Con il “silenzio sulle labbra e la preghiera nel cuore” ognuno fa il proprio dovere, serve l’igumeno ed i confratelli con prontezza d’animo ed amore. Nella cella il monaco legge la Sacra Scrittura e le opere dei Padri e, tra le lacrime e le metanie, prega il Signore e la sua purissima Madre, che lo guardano dalle icone e gli danno forza. Chi ha compiuto pregressi nella vita spirituale attende, con l’autorizzazione dello Staretz, alla preghiera del cuore. Ogni sera i novizi debbono confessarsi dallo staretz. La sera, nel tempo libero dagli uffici in chiesa, i monaci si riunivano, tenendo ceri accesi, in refettorio e lo Staretz leggeva e commentava brani delle opere ascetiche di san Basilio, di san Teodoro Studita o di san Simeone il Nuovo Teologo. Le letture ed il commento in slavo ecclesiastico si alternavano a quelle in moldavo. Mentre si leggeva in una lingua, i monaci che usavano l’altra cantavano l’Akathistos in Chiesa.
Così si costituì la vita monastica sotto la guida del padre Paisij, la cui attività di Staretz ebbe un particolare sviluppo a Dragomirna. Egli era un instancabile modello di tutte le virtù ascetiche e spesso partecipava direttamente ai lavori dei monaci dicendo: “Fratelli nessuno può starsene ozioso, giacché dall’ozio nascono tutti i mali”. Nelle lunghe notti autunnali ed invernali attendeva, con due monaci che conoscevano il greco, alla traduzione delle opere dei Padri in slavo ecclesiastico ed in moldavo. Era suo desiderio “raccogliere il miele che scorre dalla bocca dei Santi Padri” e trasmetterlo alla nuova generazione di monaci. Così nacque la traduzione slava della Filocalia (in slavo: “Dobrotoljubije”), che fu poi pubblicata grazie all’appoggio del metropolita Gavriil di Pietroburgo.
In lunghi anni di sereno lavoro la vita comunitaria aveva raggiunto un notevole livello ma gli avvenimenti politici provocarono profondi mutamenti nel monastero e nel destino dei monaci. Nel 1774, dopo sei anni di lotte, ebbe termine la guerra tra la Russia e la Porta Ottomana. In seguito agli accordi di pace una parte della Moldavia toccò all’Austria, tra cui anche quella in cui sorgeva il monastero di Dragomirna. Lo Staretz, profondamente preoccupato per il futuro dei suoi confratelli, pregò il metropolita di assegnargli il monastero di Sekul, che si trovava nella parte della Moldavia rimasta sotto la Turchia[1]. Infatti aveva ricevuto una lettera dell’igumeno di questo monastero, il quale lo invitava presso di sé assieme ai suoi confratelli. Paisij ottenne il permesso e già dopo un breve periodo di tempo il numero dei monaci si era così accresciuto che il monastero di Sekul non riusciva a contenerli. Dopo difficili lotte interiori, egli decise di trasferirsi con una parte dei confratelli nel grande monastero di Njametz, distante due ore di cammino da Sekul, che gli era stato destinato come centro della sua attività. Così doveva amministrare due monasteri. Ben presto a Njametz sorse un nuovo ospedale, furono costruite celle per i confratelli e venne riorganizzato il servizio di assistenza per i pellegrini e per i poveri. La comunità continuava a svilupparsi: 400 monaci vivevano a Njametz, cento a Sekul.
Una seconda volta, durante la seconda guerra russo-turca (1786-1790), lo Staretz ed i suoi discepoli dovettero affrontare gravi difficoltà. Proprio in questo periodo di tempo, Paisij era stato insignito della dignità di archimandrita. Nel suo intimo lo staretz era rimasto indifferente a questa dignità, per cui con semplicità ed umiltà continuò a reggere i due monasteri dedicandosi quotidianamente ai problemi dell’amministrazione ed alla cura della vita spirituale dei suoi monaci. Trascorreva le notti lavorando alle traduzioni dei testi patristici per portarle a termine, spesso, al lume di una candela seduto sul letto e rannicchiato, passava l’intera notte scrivendo tutto circondato da libri in diverse lingue. La sua vita racconta inoltre delle sue doti profetiche: più di una volta egli predisse fatti che poi si avverarono. Inoltre i miracoli e le guarigioni da lui compiute contribuirono ad accrescere la fama ed il rispetto di cui godette lo staretz sino alla morte.
Concluse la sua vita pia ed attiva il 15 novembre del 1794 all’età di 72 anni.
Appena si diffuse la notizia della morte dello Staretz, schiere di devoti, provenienti da ogni parte e da ogni classe sociale, corsero al monastero per vedere ancora una volta il loro Padre. Finché visse, la porta della sua cella era rimasta sempre aperta a tutti ed egli aveva accolto quanti lo visitavano con instancabile zelo e viva partecipazione ai loro affanni e bisogni ed a tutti aveva dimostrato benevola comprensione con i suoi consigli ed ammaestramenti. Così si manifestò ancora una volta tutto l’amore e l’affetto per il defunto allorché i pellegrini ed i monaci si congedarono dalle sue spoglie mortali esprimendogli per l’ultima volta la loro gratitudine. Quattro giorni dopo il decesso nella chiesa principale del monastero di Njametz ebbero luogo le esequie alla presenza di tutti i confratelli.
Entrambe i monasteri in cui Paisij aveva esercitato le funzioni di igumeno e di staretz, divennero importanti scuole di vita ascetica. E l’influsso di Paisij e gli effetti della sua opera si esercitarono non solo nell’ambiente circostante ma anche in terre assai lontane. Con la sua permanenza all’Athos ed i suoi rapporti con il movimento di rinascita del monachesimo, che nell’Athos ebbe il centro, Paisij rinnovò la parentela spirituale ed ascetica che aveva sempre unito la vita religiosa russa e la Santa Montagna. Anche per questa ragione è di particolare importanza la sua influenza sul monachesimo russo e sullo “Starcestvo”.
LETTERA DELLO STARETZ PAISIJ SULLA VITA MONASTICA
Al sacerdote Dimitrij, che imita le opere di Abramo ed osserva con zelo i comandamenti di Dio, mio amico carissimo, Signore e Padre.
La gioia del Signore sia con lui!
Devi sapere, carissimo amico, che il Santo Spirito tramite i Santi Padri ha fissato tre forme di vita monastica: la vita eremitica, quella solitaria con due o tre monaci, ed infine la cenobitica.
La vita eremitica deve essere così intesa: trascorrere la propria esistenza lontano dal consorzio umano, nel deserto preoccupandosi della salvezza dell’anima, affrontando le lotte per l’anima ed il corpo e confidando unicamente in Dio, poiché egli è il solo aiuto e conforto su questa terra.
La vita assieme con uno o due compagni deve intendersi nel senso che uno Staretz, esperto nelle Sacre Scritture, vive solitario ed ha uno o due discepoli che gli sono sottomessi ed obbedienti nel corpo e nell’animo.
La vita cenobitica comincia, per analogia a quella del Signore con i suoi Apostoli, come prescrive san Basilio il Grande, con dodici fratelli, non meno, e può svilupparsi con l’aiuto di Dio, sino alla formazione di comunità che abbracciano molti monaci appartenenti anche a più nazionalità. Il significato di questo genere di vita consiste nel fatto che i confratelli che vivono uniti nel Cristo, costituiscono una sola anima ed un solo cuore, hanno un solo pensiero ed una sola volontà, per amore del Cristo si impegnano a rispettare i comandamenti divini, si aiutano a vicenda a portare i pesi gli uni degli altri, in quanto uno si sottomette all’altro nell’amore, considerano come padre e maestro l’igumeno del monastero, il quale deve essere superiore agli altri nella conoscenza della Sacra Scrittura ed istruire gli altri con la parola e l’esempio. A lui debbono completamente sottomettersi rinunciando assolutamente alla propria volontà ed al proprio pensiero; insomma debbono mettere in pratica diligentemente, senza opporsi, con zelo, amore e rispetto tutti i suoi insegnamenti ed istruzioni che corrispondono ai comandamenti di Dio ed alla dottrina dei Padri. Deve essere possesso comune tutto ciò che è necessario per i bisogni corporali e non è ammessa in alcun modo la proprietà privata. In tutte queste tre forme di vita monastica, così come furono fissate dal Santo Spirito, molti Santi Padri trovarono l’approvazione del Signore e risplendettero per le loro doti spirituali come un sole. E per tutte e tre le forme i Padri citano esempi dai Sacri Testi.
Della prima forma, cioè di quella eremitica, allorché meditano sull’altezza di una simile vita, che riguarda solo coloro che hanno compiuto progressi e sono liberi dalle passioni e che in modo misterioso ad essa sono chiamati dalla Divina Provvidenza – e d’altra parte essi conoscono le debolezze dei principianti e di coloro che sono avviluppati dalle passioni, i quali sono esposti, nella loro testardaggine alle molteplici tentazioni del demonio – i Padri così si esprimono: “Guai a colui che conduce vita solitaria e che cade nella disperazione, nel sonno, nella disattenzione o nell’angoscia, poiché nessun uomo lo potrà risollevare”.
La vita in comune con uno o due confratelli è lodata dai Santi Padri, i quali la considerano una condizione gloriosa ed angelica, la chiamano la via regale e si richiamano in ciò alle parole del Signore nella Sacra Scrittura: “Dove due o tre sono raccolti nel nome mio, io mi trovo in mezzo a loro”.
A favore della vita cenobitica essi citano il seguente passo della Scrittura: “Che cosa c’è di meglio e di più bello della vita in comune dei fratelli?”.
Sebbene la vita monastica si presenti in tre forme, tuttavia san Giovanni Climaco insegna che quelli che vogliono farsi monaci, non si volgano a destra o a sinistra, ma si incamminino per la via regale. Ciò significa che non debbono ritirarsi nel deserto, poiché la vita isolata nel deserto richiede un grado di forza spirituale che è propria solo degli Angeli, mentre il principiante, che ancor spesso soggiace alle passioni dell’anima, non può osare di consacrarsi alla vita eremitica a meno che non voglia correre il pericolo di cadere vittima delle fantasie del suo intelletto. Né può scegliere la vita cenobitica, non perché sia inutile, ma perché richiede somma pazienza. “Che cosa è più utile di una vita siffatta?”, si chiede San Basilio ed a fatica trova le parole per lodare la grandezza e la novità di questo genere di vita.
Ma anche questo santo consiglia di incamminarsi per la via regale, cioè di vivere assieme ad uno o due compagni, poiché questo sistema è il più facile per molti e non richiede una grande longanimità, sebbene non sia del tutto semplice. Infatti non è particolarmente difficile sottomettersi al Padre spirituale o ad un confratello e per di più ciò esige minore pazienza.
Nella vita comunitaria con molti confratelli si è sottoposti non solo al proprio Padre spirituale, ma a tutti i monaci da cui provengono dispetti, disonori, ed ogni genere di tentazioni. Bisogna considerare sé stessi polvere e cenere sotto i loro piedi e servire tutti come uno schiavo, con povertà di spirito e timore di Dio. Si deve anche trascorrere la propria vita in estrema povertà e sopportare con pazienza la mancanza di cibo e di vesti. È difficile comprendere per l’intelletto umano ed esprimere con parole quanto difficile sia l’esercizio di una tale virtù e quale compenso nell’altra vita attenda coloro che sino alla morte sopportano la vita comunitaria gradita a Dio.
Perciò come dicono i Santi Padri, coloro che vogliono abbracciare la vita monastica, possono optare per una di queste due forme e scegliere in quale combatteranno per il Cristo rinunciando al mondo. Sia nella prima, che è piena di letizia, che nella seconda, simile a quella dei martiri, essi ottengono, secondo san Giovanni Climaco, la duplice corona da Dio nel giorno del Giudizio finale. La terza forma, l’eremitica, non è più prescritta né consigliata dai Padri ai principianti, che rinunciano alla vita terrena, in quanto la paragonano alla crocifissione del Cristo, mentre paragonano la vita comunitaria alle sofferenze del Cristo sopportate per la nostra salvezza prima della crocifissione. È questa una vita che è riservata solo ai forti ed ai perfetti: si tratta di scegliere da soli e di tenere pronta contro il demonio la spada, cioè la parola di Dio. Chi audacemente si spinge in essa e conosce troppo presto il deserto, taglia cespugli di spine anziché messi e trova la propria rovina anziché la salvezza. Quale ne è la causa? Il fatto che egli disprezzi e distrugga l’ordine stabilito da Dio, che – come già si è detto – il Cristo nostro Signore ha fissato con la sua immacolata e purissima vita nel corpo ed anziché soffrire con il Cristo nella vita comunitaria, osa salire, pieno di superbia sulla sua croce nel momento in cui preferisce la vita eremitica a quella cenobitica. Costui non è un eremita, ma un impostore e la sua non è una vita eremitica né un perseverare nell’isolamento e nel silenzio, ma un atteggiamento presuntuoso. Ed a causa di esso molti monaci, sia nel passato che attualmente, si sono rovinati. Traviati e turbati da Satana, si sono preparati una molteplice e tremenda morte, dalla quale ci salvi il Salvatore con la sua grazia.
Ma che cosa io ora ammiro del paradiso terrestre, cioè della vita comunitaria – dell’albero della vita, piantato da Dio – e della beatissima obbedienza, in cui trovano rifugio i deboli ed i principianti, poiché non osano affrontare da soli la lotta contro l’avversario del genere umano, così che, godendo dell’immortale frutto di quest’albero e rinunciando del tutto alla propria volontà, si salvano dalla morte e da tutte le tentazioni di Satana? Insomma di questa vita di cui il Santo Spirito è il muro e la protezione?
Essa è un porto sereno e protetto dalle tempeste, aperto a tutti coloro i quali vogliono salvarsi dall’infuriare senza alcun fine dei mali di questo mondo. È una nave diretta dal Santo Spirito, che, evitando ogni pericolo, trasporta nel porto del Regno dei Cieli, quanti nell’attraversata dell’immenso mare della vita comunitaria si affidano senza difficoltà, alla direzione della Grazia. È un luogo in cui si guarisce ed una sicura medicina per quanti, assaliti dalle passioni del corpo e dell’anima, vogliono esserne liberati. È una vera scuola per i soldati di Cristo che si trovano a lottare spiritualmente con l’avversario, sul quale vogliono riportare una vittoria gloriosa ed apportatrice di salvezza. Perciò essi dispongono di un’arma insuperabile nel Santo Spirito.
La vita cenobitica con l’obbedienza, che le è propria, fu istituita direttamente dal nostro Salvatore Gesù Cristo per l’umanità su questa terra ed un esempio del suo compiacimento per essa ce l’offri trascorrendo la vita con i suoi santi apostoli e discepoli. Precedentemente la radice ed il fondamento della vita comunitaria era stata la divina obbedienza, che il Signore ispirò agli Angeli nel Cielo ed agli uomini in Paradiso, in quanto è la prima e la più importante delle virtù e quella da lui particolarmente amata. Essa fu distrutta dall’invidia di Satana e dalla nostra debolezza, ma il potente ed indicibile amore del Signore per gli uomini e la sua infinita misericordia la rinnovarono e la ristabilirono. Egli infatti fu obbediente al Padre sino alla morte. Con la sua obbedienza distrusse la nostra disobbedienza ed aprì le porte del Regno dei Cieli a tutti coloro che rettamente credono in lui ed obbediscono ai suoi comandamenti divini. Condussero vita cenobitica anche gli antichi e pii Padri, dispersi nelle laure e nei monasteri per tutto il mondo, secondo le regole di san Basilio, la bocca del Cristo. Nelle difficili condizioni di vita attuali, degne di gemiti e lacrime, mancano siffatte guide, per cui, quando in un cenobio un monaco vuol raggiungere la perfezione, Dio stesso e la lettura delle opere dei Santi Padri gli fungono da maestri e da guida.
Tu devi sapere, amico mio nel Signore, che quando io abbandonai il mondo per consacrarmi con zelo ardente alla Gloria di Dio nella vita monastica, non fui ritenuto degno nei miei anni giovanili né di una sana e retta istruzione, né di un consiglio, né di una indicazione secondo la dottrina dei Santi Padri. In un monastero isolato la mia vita monastica ebbe inizio per l’indicibile misericordia di Dio. Ma né ricevetti un’utile istruzione, né comprendevo affatto che cosa fosse l’obbedienza, in qual modo debba essere dimostrata e quale segreto vantaggio abbia in sé. Né l’igumeno stesso, né il mio padre spirituale m’istruirono sufficientemente a questo riguardo. Essi mi diedero la tonsura e l’abito monastico, senza fissarmi un periodo di prova, come è usuale per i novizi, per far morire in me l’ostinazione e la presunzione, e mi hanno lasciato senza alcuna guida spirituale. Il mio padre spirituale rimase nel monastero solo una settimana dopo la mia vestizione e poi se ne andò – ancor oggi non so dove – e mi disse: “Fratello, tu sei esperto nella lettura; vivi come Dio ti insegna”.
E così mi trovai ad essere una pecora senza pastore, senza un uomo che mi potesse guidare, per cui cominciai a rivolgere l’attenzione ora qua ora là, cercando tutto ciò che potesse apportare pace ed utilità all’anima mia. Cercavo, ma non trovavo nulla, finché un giorno giunsi nel porto tranquillo e difeso dalle tempeste del monte Athos, dove speravo di trovare un ristoro per la mia anima. Ma vi trovai solo pochi confratelli appartenenti al mio popolo che sapessero leggere e fossero esperti nella Sacra Scrittura, e poiché vidi che non ero degno di trovare la guida che speravo, stetti per un certo tempo nella mia cella in apparente solitudine e sperando nell’aiuto di Dio per la mia povera anima. Leggevo nel frattempo gli scritti dei Padri che avevo ricevuto per opera dei miei benefattori dai monasteri serbi e bulgari ed in questa lettura impegnavo tutta la mia attenzione.
Quando poi il Signore diede il dono della vista a me cieco, riconobbi improvvisamente come in uno specchio, in quale maniera mi convenisse iniziare la mia vita monastica, quale grazia divina avessi perduto poiché non potevo sottopormi con il corpo e l’anima come un ignorante, nel servizio dell’obbedienza ad un esperto padre spirituale. Compresi pure di non essere degno di essere condotto ad una così santa attività. Mi resi conto che l’apparente silenzio in cui vivevo non era conforme alle mie forze e che piuttosto si addiceva a quelli che, ormai perfetti e senza passioni, si preparano a vivere in solitudine. Così mi decisi a scegliere per la mia vita la via regale, cioè di prendere come guida, anziché uno Staretz, Dio e la Gloria dei Santi Padri e di vivere assieme ad un confratello in concordia ed in armonia di spirito, nel reciproco servizio ed aiuto.
Qualche tempo dopo, in seguito a molteplici pressioni e preghiere, cominciai ad accogliere poco a poco presso di me, con timore ed umiltà, discepoli con cui condurre vita in comune. In tal modo per la Grazia del Cristo si formò sulla via regale un nostro cenobio, che si accrebbe per il numero dei confratelli sempre maggiore. Più tardi, per una serie di ragioni che, carissimo fratello, ti ho già esposto, ci trasferiremo tutti assieme dal Santo Monte dell’Athos nelle terre della Moldavia e della Valacchia dove fu fissata, a Dragomirna, con la grazia del Signore la nostra vita comunitaria. Con il passare del tempo si raccolsero nella nostra comunità non meno di cento monaci, i quali in piena concordia volevano combattere per il Signore nella santa obbedienza. Nessuno possedeva neppure il più piccolo oggetto, poiché questa è la regola più importante per la vita cenobitica secondo san Basilio il Grande. Ed essa fu rigidamente osservata nella nostra comunità. Inoltre ci siamo sforzati di distruggere qualsiasi forma di volontà individuale e di presunzione per consacrarci con la riflessione e la prudenza all’obbedienza. È questa la seconda regola ed entrambe sono radice e fondamento della vita in comune. Così l’assenza di ogni forma di egoismo e l’obbedienza furono le basi della nostra vita monastica assieme alle altre norme della vita cenobitica, che il tempo non mi permette di esporre ora nei particolari. Nella nostra comunità che la Grazia del Cristo ha difeso, noi confratelli cercammo di dare prova reciproca di amore sincero e divino.
Eccoti la mia relazione sulle tre forme di vita monastica, che tu così spesso mi hai chiesto, e sulla nostra misera vita, che è distante dalla vera vita comunitaria, fiorita all’epoca dei Santi Padri, quanto la terra dal ciclo.
Affidandomi a Dio ed alla sua Santissima Madre per mezzo delle preghiere dei miei confratelli vivo nella speranza della salvezza sebbene ne sia assolutamente indegno. Perciò ti supplico di pregare per me il Signore e rimango umilmente il tuo amico che di tutto cuore ti desidera la salvezza.
Nella viva attesa della tua visita, a te sempre legato da amicizia: l’indegno igumeno dei confratelli raccolti nel nome di Cristo.
Lo ieromonaco Paisij
Addì 16 maggio 1766, nel monastero cenobitico di Dragomirna in Moldavia-Valacchia.
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Non fu un’impresa facile conciliare la vita cenobitica con lo Starcestvo. Gli stessi monaci, che riconoscevano l’importanza della guida di uno Staretz nella vita ascetica, non volevano concedergli alcuna funzione nel cenobio, poiché ritenevano che l’attività dello staretz fosse giustificata nella vita degli skita o dei monasteri idioritmici. Ancora all’epoca di Paisij le regioni montane boscose della Moldavia erano così isolate ed inaccessibili, da sembrare a molti adatte alla vita negli skita e non solo vecchi monaci esperti, ma anche numerosi novizi si lasciavano attrarre da questa situazione in modo da preferire una vita isolata nei boschi tenebrosi a quella in un monastero. Sino alla metà del sec. XVIII l’“attività della preghiera mentale” era poco conosciuta in Moldavia e Valacchia. Dalla “Vita” dello Staretz Paisij apprendiamo che egli, diffondendo la preghiera di Gesù, urtò spesso contro l’opposizione dei monaci. Mentre si trovava nel monastero di Dragomirna si vide costretto a comporre un’apologia della preghiera di Gesù. In essa procedette contro gli avversari di quest’ultima appoggiandosi sulle testimonianze dei Padri e tentò di reprimere tempestivamente le opinioni avverse al riguardo. Sembra anche che per un certo tempo e specialmente nei monasteri da lui diretti prevalesse la sua concezione ascetica e l’opposizione fosse stata battuta. Ma venti anni dopo, poco prima della morte di Paisij, giunse uno scritto in cui i vecchi monaci di un vicino monastero della Bukovina si lamentavano del fatto che di nuovo cresceva “la graminia dell’ignoranza e della calunnia”, per cui il vecchio igumeno si vide nuovamente costretto ad inviare un suo precedente scritto, sia pure in forma alquanto ridotta.
In questa lettera Paisij presenta un quadro interessante delle polemiche esicaste del sec. XIV e cerca di difendere la pratica della preghiera mentale sulla base degli scritti dei Padri della Chiesa e degli autori esicasti. Nello stesso tempo questo scritto è importante per la conoscenza della personalità dello Staretz e della sua concezione della vita ascetica come pure per l’interpretazione della preghiera mentale nella tradizione religiosa ed educatrice dello Starcestvo.
La polemica sulla preghiera di Gesù, che terminò con la vittoria di Paisij, ebbe un’importanza notevole nella storia dello Starcestvo russo. Secondo le parole di Paisij, questa preghiera è al centro della guida spirituale e dell’educazione degli Startzy, specie nei riguardi della nuova generazione di monaci, sia in Russia, come tra i monaci russi all’Athos. Essa è uno strumento essenziale per la nostra salvezza, “a nostra disposizione ogni ora ed ogni minuto”, così come san Serafim di Sarov ebbe a dire più volte.
Agli avversari ed ai calunniatori della preghiera mentale,
cioè della preghiera di Gesù
Io, polvere e cenere, prostrato in spirito sulle ginocchia del mio cuore di fronte all’inaccessibile maestà della tua gloria divina, ti prego, Gesù dolcissimo, Figlio Unigenito e Logos di Dio, splendore della gloria ed immagine dell’ipostasi del Padre, tu che hai concesso la vista al cieco nato, illumina la mia mente avvolta dalle tenebre, rischiarane i pensieri sconvolti e concedi la tua grazia alla mia anima spregevole. Possa questa mia opera essere di onore al tuo santissimo nome e riuscire di vantaggio a coloro i quali si uniscono a te, nostro Dio, con la loro santa e spirituale attività di preghiere e sempre portano te, preziosissima perla, nel loro cuore. Possa essa convertire coloro i quali, nella loro profonda immoralità, osano calunniare questa attività di preghiere.
Quali giuste ragioni avete di diffamare questa preghiera? Trovate forse che sia inutile invocare il nome di Gesù? O forse il cuore merita una mortificazione, il cuore, sul quale, come su un altare, la mente celebra davanti a Dio ed offre in sacrificio il mistero della sua preghiera? Ma la mente ed il cuore sono creature di Dio e, come tutto il corpo, sono in sé buone. Che male c’è dunque se uno dal profondo del suo cuore con la mente eleva a Gesù dolcissimo una preghiera e da lui ottiene la Grazia? O forse voi disprezzate e negate la preghiera mentale, poiché ritenete che Dio non sentirà la preghiera fatta segretamente nel cuore, ma solo quella che la bocca pronuncia? Ma questo significa bestemmiare.
Io però vi chiedo ancora: voi diffamate la preghiera perché forse vi può essere capitato d’aver visto voi stessi o di aver appreso che qualcuno il quale la praticava, o ne ha ricevuto un danno spirituale oppure l’ha considerata un inganno per la verità o gli è derivato da essa un qualche svantaggio, per cui voi meditando siete giunti alla conclusione che la causa ne è stata la preghiera mentale? Ma non è così. La santa preghiera mentale, che opera per mezzo della Grazia divina, purifica l’uomo da tutte le passioni, lo spinge ad obbedire con ardore ai comandamenti divini e lo conserva indenne da tutti i dardi e tentazioni del maligno. Certo – io stesso l’ammetto – se qualcuno prega, di propria iniziativa, non ad alta voce, come insegnano i santi Padri, e senza seguire il consiglio di chi ne ha esperienza, costui senza dubbio cade nelle reti e negli agguati del demonio. Com’è possibile? È realmente la preghiera mentale in questo caso la causa dell’inganno? Sia lungi da noi questo pensiero! La presunzione e la superbia di colui che agisce di propria iniziativa, ne sono la causa, allorché cede agli allettamenti del demonio e soggiace alle fantasie della sua anima.
La divina preghiera mentale ha i suoi solidi fondamenti nelle parole del nostro Signore Gesù Cristo: “Ma quando tu preghi, ritirati nella tua cella, chiudine la porta e prega segretamente il Padre tuo e il Padre tuo, che vede ciò che è segreto, ti ricompenserà apertamente”. Queste parole del Signore, san Giovanni Crisostomo, la bocca del Cristo, il cervello del mondo, il dottore ecumenico, nella sua saggezza derivante dal Santo Spirito, riferisce non alla preghiera pronunciata con la bocca e con la lingua, ma a quella che sale dal profondo del cuore. San Basilio il Grande, la colonna di fuoco e la bocca ardente del Santo Spirito, afferma che l’uomo nel suo intimo ha una bocca spirituale, grazie a cui gode della Parola divina. E san Gregorio il Teologo così si esprime sulla preghiera mentale: “Considera sempre la mente come un tempio di Dio, affinché nell’intimo del tuo cuore possa dimorare immaterialmente il Re”.
È bene sapere che secondo gli scritti dei Santi Padri, ci sono due forme di preghiera mentale: una per i principianti, che può essere paragonata all’attività pratica (pràxis), l’altra per coloro che hanno raggiunto un maggior grado di perfezione, che corrisponde alla contemplazione (theorìa). La prima rappresenta l’inizio, la seconda la perfezione, poiché l’attività pratica è un salire verso la contemplazione. Tutto il combattimento ascetico, che si affronta con l’aiuto di Dio consiste nel conseguire l’amore per il Signore, la mitezza, la pazienza, l’umiltà e nel realizzare gli altri comandamenti del Signore e dei Padri; nello sforzo di raggiungere la perfetta obbedienza dell’anima e del corpo; nella scrupolosa osservanza dell’Ufficio divino e delle preghiere in cella; nella pratica segreta della preghiera mentale; nel pianto e nella meditazione sulla morte. Questa lotta dura finché l’intelletto umano è guidato dall’arbitrio e dalla volontà individuale e si chiama, come è ben noto, attività (pràxis). Essa non è affatto una contemplazione. Allorché l’uomo, con l’aiuto di Dio, per mezzo del combattimento ora menzionato, ma specialmente grazie alla profonda umiltà ha purificato l’animo ed il cuore da ogni passione e dalla libidine corporale, allora la Grazia di Dio, madre nostra comune, prende sotto la sua guida, come un bambino, l’intelletto da lei purificato e lo porta di grado in grado sempre più in alto e gli manifesta, a seconda del grado della sua purezza, gli indicibili ed incomprensibili misteri di Dio, e ciò viene giustamente chiamato la vera contemplazione spirituale (theorìa).
Questa è la preghiera contemplativa o – come la chiama san Isacco Siro – la preghiera pura, riverente contemplazione di Dio. Nessuno può giungere a questa contemplazione di propria iniziativa e con i propri mezzi, se Dio non lo chiama e non lo guida con la sua Grazia. Se qualcuno ha osato ascendere a questa contemplazione senza la luce della Grazia divina, sappia costui – scrive san Gregorio Sinaita – che le sue non sono contemplazioni, ma fantasie ed immagini false ad opera del demonio. Si sappia che san Gregorio Sinaita distingue otto forme di contemplazione. Egli infatti scrive: “Noi distinguiamo otto forme principali di contemplazione: la prima riguarda Dio, causa invisibile, senza principio ed increata di tutte le cose, l’unità della Trinità e la divinità soprannaturale; la seconda l’ordine ed i gradi delle potenze angeliche; la terza la struttura della creazione; la quarta la discesa invisibile sulla terra del Logos; la quinta la risurrezione dell’universo; la sesta la seconda e tremenda venuta del Cristo; la settima i tormenti eterni; l’ottava il Regno dei Cieli nella sua infinità”.
Sia anche ben noto che questa divina attività della preghiera mentale fu costantemente praticata dai nostri antichi Padri, ispirati dallo spirito di Dio e risplendette come un sole tra i monaci che vivevano nei monasteri e negli eremi di tutti i paesi: sul Sinai, negli Skita egiziani, sul monte Nitria, a Gerusalemme e nei monasteri circostanti, insomma, per dirla con una sola parola, in tutto l’Oriente. Fu praticata anche a Costantinopoli, sul Santo Monte Athos, in molte isole ed in ultimo tempo, per la Grazia del Signore, anche in Russia. Molti nostri Padri teofori, ardenti del fuoco serafico dell’amore per il Signore ed il prossimo, furono ritenuti degni di diventare, in quest’assemblea spirituale, i più rigidi custodi dei comandamenti divini ed i vasi eletti del Santo Spirito, dopo che ebbero purificato il cuore e l’anima da tutti i difetti propri dell’uomo dell’Antico Testamento. Molti tra loro, infiammati da un misterioso entusiasmo divino ed illuminati dalla saggezza del Santo Spirito, scrissero sulla preghiera mentale in armonia con quanto si legge nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Ed agirono in tal modo per particolare disposizione della Provvidenza divina, affinché nei tempi successivi l’attività della preghiera mentale non cadesse nell’oblio. Nessuno che professasse la fede ortodossa, ha mai osato disprezzare la preghiera mentale, questa difesa del Paradiso del cuore; all’opposto tutti si volsero ad essa con profonda stima e rispetto, come qualcosa che in sé racchiude un grande tesoro spirituale.
Ma Satana, il seminatore di ogni malvagità ed il nemico di ogni buona azione, vide che i monaci, grazie all’attività della preghiera mentale, rimanevano saldi in un indefettibile amore ai piedi del Cristo e si perfezionavano sempre più nell’obbedienza ai suoi divini comandamenti. Perciò impiegò tutte le sue macchinazioni per screditare e calunniare questa attività salvatrice, e, se gli fosse riuscito, per cancellarla definitivamente da tutta la superficie della terra. Egli, il maestro della menzogna, cercò nelle pianure d’Italia il serpente calabrese, l’eretico Barlaam e, mentre s’annidava in lui con tutta la sua potenza, gli suggeriva di diffamare la nostra fede ortodossa[2].
Come Gesù Cristo nostro Signore, dai primordi della fede ortodossa fino ad oggi per i non credenti è una pietra di scandalo, mentre per i credenti è la salvezza dell’anima, così anche accade con la preghiera di Gesù. Sebbene per alcuni non credenti ed in preda al dubbio essa sia stata una pietra di scandalo e causa di tradimento, tuttavia prima che sorgesse questo eretico, nessuno osò calunniare apertamente, sia con i discorsi che con scritti, l’attività spirituale di questa preghiera e quanti la esercitavano. Barlaam fu il primo a calunniarla. Come un serpente che esce dall’inferno, giunse dalla regione italica della Calabria in Grecia e prese dimora dapprima a Salonicco, non lontano dal santo Monte dell’Athos. Lì ebbe notizia dei monaci agiorìti e della Santa preghiera che essi praticavano. Trascinato dalla superbia provocata dalla sua cultura filosofica e dall’astrologia, egli cominciò a schizzare il mortale veleno della calunnia, dapprima sui monaci e sulla stessa preghiera, poi addirittura su tutta la Chiesa di Cristo e sulla sua dottrina. La luce della divinità del Cristo, increata ed eterna, fu da lui proclamata creata, quella luce che sul monte Tabor risplendette dalla sua purissima figura, sui santi discepoli ed apostoli.
Questo eretico, il suo discepolo Akindynos, e gli altri suoi seguaci ritennero create molte altre cose, che per natura e sostanza procedono dall’eguale natura e sostanza della Tuttasanta Trinità, – così come dal sole derivano i raggi, la luce e lo splendore – e precisamente: l’operare, la potenza, la grazia, la luce e lo splendore, i doni, l’intelletto ed altre cose ancora che non è possibile menzionare. Tutti i Cristiani ortodossi, che riconoscevano che in Dio non c’è nulla di creato e che tutto in lui è increato ed esistente ab aeterno, furono giudicati da Barlaam e Akindynos seguaci del dualismo divino e del politeismo – e sì che loro due erano in realtà atei! Perciò i monaci agiorìti si raccolsero in un concilio locale sull’Athos ed anatematizzarono dapprima le calunnie di Barlaam, poiché costui non aveva voluto sentire ragione alcuna neppure dopo le ripetute ammonizioni orali e scritte. Successivamente i quattro grandi concili, tenutisi nella Chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, estesero l’anatema a tutti gli eretici ed ai loro seguaci. Ai due primi concili fu presente anche san Gregorio Palamas, in veste di ieromonaco, al terzo in qualità di arcivescovo di Tessalonica. Il quarto concilio fu tenuto dopo la sua morte. In tutti questi concili la Chiesa lanciò l’anatema contro le loro dottrine erronee. I monaci furono invece proclamati puri e senza colpa e venne riconosciuta l’inconsistenza delle calunnie e menzogne lanciate contro di loro. Così la santa preghiera di Gesù che viene recitata con l’intelletto nel cuore e non solo con le labbra, non fu turbata dagli attacchi nemici, ma rimase splendente come un sole e fu esaltata da tutta la Santa Chiesa come un’attività divina.
Ed ora io vi supplico e prego che siate animati da zelo divino che abbiate una fede inconcussa negli scritti dei Padri e nella dottrina che vi è esposta: essa è in armonia con la Sacra Scrittura, con le professioni di fede dei Dottori ecumenici e con la Santa Chiesa, poiché in loro tutte opera lo stesso Santo Spirito. Questi come nei Dottori ecumenici, così ha manifestato la sua opera anche nei Padri fondatori della vita monastica. Ed a loro ha svelato, a causa della loro vita gradita al Signore, i misteri del Regno di Dio, cioè il significato profondo della Scrittura, per cui la dottrina contenuta negli scritti dei Padri rappresenta il retto insegnamento per i monaci che vogliono salvarsi. Siate fermamente fedeli a questa dottrina; allontanatevi ed evitate ogni chiacchiera, qualora i calunniatori volessero avvicinarsi a voi. Infatti né essi né altri possono citare sia pure una sola testimonianza dai Sacri testi a favore della loro malvagia sapienza che fondano soltanto sulla sabbia delle divagazioni del loro intelletto lontano da Dio.
Ma voi, che siete figli fedeli ed autentici della Chiesa ortodossa vi attenete alla verità, costruita sulla solida pietra della fede. Voi avete un gran numero di testimonianze a favore della obbedienza ai comandamenti divini e della santa preghiera di Gesù, cioè i nostri Santi Padri Teofori che io qui menziono (....). Seguite la loro dottrina ed impegnatevi con il corpo e l’anima in ogni opera buona e gradita a Dio con tutte le vostre forze e con l’aiuto della Grazia del Signore. Amìn.
* * *
L’attività dello Staretz Paisij non si limitò alla sola Moldavia. Già nei primi anni della sua opera nei monasteri di questa regione egli venne in contatto con alcuni zelanti asceti della Russia centrale, i quali erano scontenti della vita monastica contemporanea. Nel corso di pochi anni i monasteri diretti da Paisij divennero meta di pellegrinaggi. Grazie a questi pellegrinaggi la nuova generazione di Startzy venne in diretto contatto con Paisij e portò una nuova vita in numerosi piccoli eremi della Russia.
In: “Messaggero Ortodosso”, Roma, agosto-settembre 1984 nn. 8-9.
[1] Già a suo tempo gli abitanti di Costantinopoli avevano preferito «il turbante turco alla tiara papale»… (ndr).
[2] Tutta questa parte della lettera si riferisce alla celebre controversia tra san Gregorio Palamas da un lato e Barlaam e Akindynos dall’altro. Barlaam era un monaco greco di Calabria che, sensibile all’influsso del pre-umanesimo, giunse a Costantinopoli verso il 1330 desiderando di venire a contatto con la cultura ellenica. Ben presto acquistò fama di studioso e filosofo e Giovanni Cantacuzeno, “Gran Domestico” alla corte di Andronico III, gli ottenne la cattedra di filosofia dell’Università imperiale, dove Barlaam commentò gli scritti dello pseudo-Dionisio. La sua fedeltà all’Ortodossia non suscitava alcun sospetto, tanto che nel 1333-1334 fu incaricato ufficialmente di discutere con i rappresentanti della Chiesa Romana inviati a Costantinopoli per preparare l’unione delle due Chiese. Nel 1339 svolse una missione confidenziale alla corte di Papa Benedetto XII ad Avignone. Tuttavia ben presto cominciarono le sue idee teologiche a destare gravi motivi di preoccupazione. Avverso alla scolastica occidentale, egli ritenne che il carattere apofatico della teologia ortodossa, carattere che nello pseudo-Dionisio aveva avuto la sua più evidente espressione, fosse l’argomento più adatto per realizzare l’unione delle Chiese. Se infatti Dio è inconoscibile, non era il caso di discutere sul “Filioque”, dato che a questo riguardo sbagliavano sia i Greci che i Latini. Il pericolo rappresentato dalle posizioni di Barlaam fu subito compreso da san Gregorio Palamas, a quell’epoca ieromonaco all’Athos, che lo denunciò in una serie di lettere dirette ad un suo discepolo Akindynos, ed allo stesso Barlaam. In esse, pur ammettendo l’inconoscibilità di Dio si pone in risalto la Rivelazione, grazie a cui il Cristo ha dato agli uomini una conoscenza sovrannaturale, ma reale, ben più reale di quella filosofica.
La polemica si complicò allorché il monaco calabrese a Costantinopoli ed a Tessalonica si mise in contatto con i monaci esichasti. Vi scoprì il metodo dell’orazione di Gesù che urtò la sua mentalità di umanista. Li accusò di messalianismo, poiché pretendevano, a suo giudizio, di vedere l’essenza divina con gli occhi del corpo. Alle accuse di Barlaam rispose san Gregorio Palamas con le “Triadi in difesa dei Santi Esichasti”, che sono la prima sintesi teologica della spiritualità ortodossa. Per quanto concerne l’accusa di Messalianismo, la Chiesa ortodossa rispose con la distinzione di san Gregorio Palamas tra essenza ed energie divine, le quali ultime sono conosciute dagli uomini. Alle “Triadi” seguì da parte di san Gregorio Palamas il “Tomo Agioritico”, così intitolato perché firmato dagli igumeni e monaci dell’Athos degli anni 1340-1341. Vi si sostiene che, nell’economia della salvezza, Dio si rende realmente visibile perché nella Chiesa il Regno dei Cieli è realmente anticipato così come il Cristo si manifestava già ai giusti dell’Antico Testamento. Successivamente due concili, nel giugno e nell’agosto del 1341 condannarono le dottrine di Barlaam e di Akindynos, il quale aveva tenuto nella polemica un atteggiamento ambiguo. Barlaam ritornato in Italia, divenne vescovo di Gerace e fu maestro di greco del Petrarca. Tuttavia la polemica contro Barlaam ed Akindynos non cessò anche in seguito a vicende politiche interne dell’Impero bizantino. Nel 1347 san Gregorio Palamas fu consacrato arcivescovo di Tessalonica. Nel 1351 fu tenuto il Concilio più importante che condannò l’ultimo avversario di san Gregorio Palamas, Niceforo Gregoras. Il “Tomo sinodale”, pubblicato da questo concilio contiene l’approvazione da parte dell’Ortodossia della dottrina palamitica. Esso è riprodotto nei libri liturgici ortodossi. (Cfr. J. Meyendorff, St. Grégoire Palamas et la Mystique orthodoxe, Paris 1959, 88-105).