Pavel Evdokimov

L’arte moderna o la “Sofia” dissacrata

 

  

Sin dalle origini la teologia occidentale ha manifestato una certa indifferenza dogmatica verso la portata spirituale dell’arte sacra di quell’iconografia che, malgrado il lungo martirologio, è assai venerata in Oriente. Provvidenzialmente, l’arte occidentale segnò tuttavia un ritardo sul pensiero teologico e, fino al XII secolo, rimase fedele alla Tradizione comune sia all’Oriente che all’Occidente. Questa tradizione comune è pienamente viva nella magnifica arte romanica, nella meraviglia della cattedrale di Chartres, nella pittura italiana che coltiva ancora la “maniera bizantina”.

Ma a partire dal XIII secolo, Giotto, Duccio, Cimabue, introducono l’artificiosità ottica, la prospettiva, la profondità, il gioco del chiaro-scuro, il “trompe-l’oeil” (l’illusione ottica). Se l’arte diviene più raffinata, più attenta all’elemento immanente, è meno portata verso la presa diretta del trascendente[1]. Recenti studi scoprono una forte influenza dell’intellettualismo domenicano anche nella visione di Frate Angelico. Rompendo con i canoni della tradizione, l’arte non viene più integrata al mistero liturgico. Sempre più autonoma e soggettiva, abbandona la “biosfera” celeste. Gli abiti dei santi non fanno più sentire sotto le loro pieghe i “corpi spirituali” e persino gli angeli appaiono come esseri fatti di carne e di sangue. I personaggi sacri si comportano esattamente come tutti, vengono abbigliati e collocati nell’ambiente contemporaneo dell’artista. Ancora un passo avanti ed il racconto biblico, l’evento miracoloso diviene solo occasione per eseguire sapientemente un ritratto, un’anatomia, un paesaggio. Il colloquio (diretto) da spirito a spirito si affievolisce, la visione del “fuoco delle cose” fa spazio all’emozione, ai trasporti dell’anima, alla commozione. Secondo Maurice Denis, Leonardo da Vinci è il precursore dei Cristi del genere Muncancsy, Tissot, e al termine della stessa linea emozionale, verranno le immagini attuali del “Sacro Cuore”. Parimenti, quando un Crocifisso, col suo realismo voluto, colpisce il sistema nervoso, il mistero ineffabile della Croce perde la sua potenza segreta, si cancella. Quando l’arte dimentica la lingua sacra dei simboli e delle presenze e tratta plasticamente “soggetti religiosi”, essa non è più percorsa dal respiro del Trascendente.

Passata la metà del XVI secolo, i grandi artisti come il Bernini, Le Brun, Mignard, Tiepolo, si esercitano su temi cristiani in totale assenza di sentimento religioso. La così detta arte sacra che oggi si trova nelle chiese è la più sprovvista di dimensione del sacro. Ma lasciamo parlare un teologo: “Tutta la controversia sull’arte sacra che in questo momento fa rabbia in Occidente si muove su un terreno e si dibatte in una alternativa che rivelano parimenti la completa eterogeneità tra le due arti sacre di Oriente e di Occidente. Più precisamente, essa mostra sopratutto che l’arte religiosa di Occidente, qualunque sia la concezione che uno se ne sia fatta, non ha assolutamente nulla di sacro, nel senso in cui sono sacre le icone. Fondamentalmente essa è un’arte soggettiva che mira ad esprimere il sentimento religioso… Mirabilmente tutto dice che l’arte religiosa in Occidente non è incorporata nella liturgia e che non si ha più neppure la nozione che potrebbe esserlo… Attualmente, a San Vitale (Ravenna) non c’è più altare né in generale oggetti liturgici. Con ogni evidenza ci si trova, dunque, in una chiesa dove tutto attende i santi misteri. All’incirca dall’epoca gotica, nelle nostre chiese più belle come in quelle più mediocri, si può benissimo celebrare la messa tutti i giorni, vi si trova di che stimolare o fiaccare la devozione spirituale, ma nulla è diverso dal laboratorio o dal museo, nulla vi riunisce nel mistero le pitture o le sculture che occupano i muri”[2].

Con la fine del XVIII secolo, l’arte perde visibilmente il legame organico tra il contenuto e la forma e si immerge nella notte delle rotture. Certamente, l’arte rimane complessa, e per fortuna mantiene tutte le tendenze, anche se la predominanza di alcune ne modifica il volto. Noi seguiremo unicamente l’evoluzione di quella che sfocia nella pura astrazione.

 

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Quando il «conoscere» non è più un atteggiamento di adorazione, comunione orante, la conoscenza si separa dalla contemplazione. In cambio di un “sapere per potere” e della crescita di questo potere sulle cose di questo mondo, si rinuncia all’approfondimento dell’interiorità che va fino all’incontro con il Trascendente e in Lui con tutta la realtà fremente di vita. Allora, però, l’essere si svuota del suo contenuto essenziale, perde la sua radice celeste, si snatura, si dissacra e la coscienza non scopre il “Dasein”, l’essere là, se non per rivelarlo come “essere per la morte”, rinserrato dal nulla. Si distrugge il reale dissociandone gli elementi, suscitando discontinuità invalicabili. All’uomo non rimane che la spiritualità dell’anima, per sua natura acosmica, oppure un moralismo di volontà che gli impediscono, entrambi, il colpo trasfigurante della materia. Una filosofia esistenzialista con le sue sostanze chiuse, rette dal principio di causalità. O un pensiero esistenzialista con le sue presenze senza spessore ontologico, non possono aprirsi al dinamismo energetico delle similitudini e delle partecipazioni autenticamente divinizzanti. La liturgia cosmica non trova più cantori perché l’opacità dei corpi non è impregnata dalla luce del Tabor e la gloria non affiora più in una natura dissacrata.

L’arte subisce l’influenza dei “signori” del mondo e della propria saggezza: l’artista, votato più che mai alla solitudine, cerca una specie di “sovra-oggetto”, di “sovra-realtà”, perché per lui la semplice realtà non è più esprimibile direttamente. Eroicamente ma senza molte speranze, si sforza di trovare quel lato segreto che è stato divelto dalle cose di questo mondo. Volendo conoscere l’oggetto secolarizzato, si perde il suo mistero; ma la sola ricerca, per reazione, per disperazione, di questo mistero, fa perdere la cosa e conduce all’astrazione docetista, al gioco fantasmagorico delle ombre senza corpo.

 

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La rottura con il passato scaturito dal Rinascimento e la nascita dell’arte moderna possono essere datate nel 1874, con la mostra allestita presso Nadar.

Andando dall’inquietudine profonda di Cézanne all’angoscia tragica di Van Gogh, la pittura indipendente, per sua natura soggettiva, mostra un bisogno di rinnovamento che cerca di manifestare stati d’animo sempre insoddisfatti. L’impressionismo e l’espressionismo trasmettono le reazioni soggettive della retina o del sistema nervoso dell’artista. Questa è la pittura del circostanziale, dell’estemporaneo interpretato emotivamente. L’oggetto emulsionato si disperde nel plasma luminoso e cromatico. La tecnica del tocco diviso e giustapposto insegue le vibrazioni colorate della luce e cerca la sintesi nel fissare l’attimo.

Il cubismo, da parte sua, scompone l’unità vivente nei suoi elementi geometrici e ricostruisce il quadro cerebralmente, come un problema matematico. Abbandona i giochi di luce e di colore ed analizza l’oggetto come si presenta all’immaginazione, collocato in uno spazio ridotto a due dimensioni oppure, al contrario, in uno spazio pluridimensionale come l’atomo dei fisici.

Il surrealismo rende irreale questo mondo e gliene sovrappone un altro, inventato, fino ad andare a profilare un’ “aura sovra-esistenziale”.

L’arte si emancipa da ogni “canone”, da ogni regola; se “teurgica”, si lancia in potenze magiche d’incanto, in false trascendenze, veri e propri “falsi parti metafisici”. È la voga delle maschere negre, del potere inebriante della mescalina, delle imitazioni del falso simbolismo occulto, delle composizioni che si ispirano al cemento armato, all’atomo e al razzo, delle immagini plastiche della velocità pura, della scultura col filo di ferro.

L’enorme pressione dell’universo “appiccicoso e soffocante” genera la danza moderna, un movimento indiavolato che però non porta in nessun posto. Questa è la terribile libertà di ogni artista di rappresentare il mondo ad immagine della propria anima devastata, giungendo fino alla visione di una immensa latrina dove brulicano mostri disarticolati. Ovunque si avverte la discontinuità dei ritmi spezzati, sincopati, la dissoluzione delle forme e la scomparsa del contenuto preciso, del soggetto del volto, del senso delle parole in poesia o della melodia nella musica.

Per la moderna coscienza “sfaccettata”, l’oggetto non esiste nella sua forma unica ma assume molteplici aspetti. Prima di scomparire, l’oggetto si impenna in un’ultima agonia, appare attorcigliato e convulso. Insomma il contenuto delle cose e l’epidermide dei volti si decompongono, tutto viene fatto a pezzi, atomizzato, disintegrato. Percepita in questa maniera, la realtà riflette una coscienza, pure essa, lacerata e a sua volta se ne impregna. L’uomo non è più dominatore delle tendenze anarchiche della natura. Egli non le mette più in ordine con il suo spirito, ma le registra e le aggrava col suo rifiuto di intervenire. Prima, le cose interrogavano, come in attesa e l’artista rispondeva ad esse facendole vivere pienamente sotto il suo sguardo creatore, restituendo loro l’innocenza verginale, facendole ritornare “da lui”, verso il loro candore e la loro ingenuità.

L’artista moderno, prima di guardare il mondo, interroga la propria anima ed applica alle cose la propria visione “disintegrante”, si rende complice dell’antica ribellione che vuole liberarsi innanzi tutto del Senso e di ogni principio normativo. Un simile ritorno verso il caos primordiale accelera l’usura del tempo e assottiglia l’essere sino all’indigenza del nulla. La materia si dissolve perdendo i suoi contorni, viene vista nell’atomo temporale di cui è stata esclusa la durata, e dunque il fremito del viso, la familiarità dello sguardo. Ogni suo frammento comincia a vivere un’esistenza particolare. Il celebre Saturno di Goya rode la sostanza dell’uomo. Nel momento delle convulsioni della fine del MedioEvo, attraverso le brecce che si aprono, si dipartono soffi solforosi che portano il brulichio dei desideri liberati, l’eterno vagare delle voglie. Le potenze irrazionali e demoniache irrompono e corrono qua e là per il mondo. Se l’uomo di Goya è spiato dai mostri che emergono dal suo subcosciente, in Bosch, persino il cammino paradisiaco prende la forma di un lungo, interminabile tunnel oscuro a cui si ispireranno Kafka e Freud. La via à tenebrosa, opprimente, molto poco certa riguardo al suo punto di uscita. Non maggiormente rassicurante è l’uomo visto da Picasso e dalla sua “linea di crudeltà”. In quel modo probabilmente i demoni vedono forse il mondo in un’ottica occulta e fuori dall’inaccessibile immagine di Dio.

Il livellamento universale sbriciola l’Unico, l’Ideato, il Sacro e li sostituisce con la magia di un movimento turbinoso su stesso, decentrato. Non si tratta più dell’eternità ridotta a frammenti dal peccato, ma del tempo ridotto in nulla. L’inferno non somiglia forse ad un frammento del tempo soggettivo dilatato ed eternamente fisso, un sogno senza sognatore, l’ultimo rifugio dell’inesistente? L’esistenza ultramoderna non conosce né l’Avvento, né la crescita dell’essere, né la successione degli eventi, ma contiene in sé una coesistenza di frammenti, di schegge che si ricoprono l’una con l’altra senza luogo né sequenza ordinata. La durata orientata cede il posto alla simultaneità, all’istantaneità, al futurismo, e si assottiglia in una pseudo escatologia del ritorno all’elementare. Al limite un cadavere non si muove, si distende. Già Dostoevskij profetizzava che l’uomo avrebbe perso anche la sua forma esteriore se avesse perso la propria fede nell’Integrazione divina. Un tempo i grandi Maestri, prendendo a soggetto una qualsiasi particella dell’essere, davano la sensazione di avere tra le mani il mondo palpitante di vita. Adesso il mondo si restringe su immensi pannelli alla povertà di alcuni frammenti.

Osserviamo la celebre Barbara di bronzo di Jacques Lipchitz. Non ha epidermide, quello che si vede corrisponde ad un volto ma non gli somiglia affatto. Lo scultore si è immedesimato in Barbara e trasmette sensazioni interne. Trasferisce in immagine visiva l’impressione cenestesica. Il groviglio di fili, di nodi, di sporgenze e di vuoti deve rivelarci le sensazioni di Barbara che avanza verso di noi. La sua interiorità viene tradotta senza alcuna analogia con la natura consueta. È un’arte cerebrale, che non cerca un senso, o il mistero del destino, ma la funzione, il rapporto, la dipendenza. Così lo scultore Henry Moore si occupa della proiezione di una sostanza in un’altra e si chiede cosa diventa il corpo umano costruito con la pietra. Simile è anche la pittura intra-atomica o la mistica corpuscolare di Salvador Dalì o di Francis Picabia.

L’arte non figurativa, informale, astratta, col negare ogni oggetto concreto sopprime qualsiasi supporto ontologico. Non è una mela rossa ma il rosso in sé, una macchia colorata nella quale l’artista proietta un significato comprensibile a lui soltanto.

Schopenauer diceva che tutte le arti contengono una tendenza segreta verso la “musicalità”. Ebbene, tra le arti, la musica è la sola a non presentare alcuna imitazione delle forme di questo mondo. Malgrado, o forse grazie a questa assenza, Kandinskij, Malevič, Kupka, Mondrian seguono l’auspicio di Mallarmé: “prendere in prestito dalla musica le sue leggi e i suoi poteri”. Violoncellista dotato, Kandinskij chiama i suoi abbozzi “improvvisazioni” e le sue opere finite “composizioni”. Kupka disegna “Fuga in due colori” e “Cromatismo caldo”. Paul Klee, musicista e compositore, nella sua pittura cerca metamorfosi in perenni germinazioni liriche o esplosive. Mentre il musicista Scriabine parlava della “sinfonia della luce” e di suoni suscitanti associazioni di colori. Survage, Béothy, Cahn, Valensi realizzano questo sogno su pellicole cinematografiche e fanno sperimentazioni su “ritmi colorati”, Richter arriva persino a fare film astratti.

La “musica concreta” elimina la melodia, l’armonia, il contrappunto. Mentre secondo Mozart l’essenza della melodia precede la sua differenziazione in parti, la frammentazione passa alla giustapposizione delle sonorità isolate, alla discontinuità del genere di Stravinskij, infine alla vibrazione pura e al caos dei rumori liberati. È sintomatico che Boris Bilinskij, nelle sue ricerche della “continuità delle forme e dei colori senza soggetto” illustra giustamente Débussy e Ravel presso i quali appare già un mosaico musicale, un susseguirsi di pezzi senza necessità di un legame organico.

Il pittore Tchourlandsky (prima di finire la sua vita in una casa di cura) traduce con i suoi “quadri-sonate” senza soggetto la sua “sensibilità musicale del mondo”. Malevič ha sentito in lui una mistica della notte dove il mondo si ricrea come potrebbe esserlo. È la “mezzanotte” mallarmiana e la sua “goccia di nulla”. Creatore del “suprematismo”, Malevič cerca l’intensità suprema dell’“assenza”. Lo spazio liberato da ogni trama diviene un “contenitore senza dimensioni”, senza componenti spaziali, una forma a priori pura senza soggetto né oggetto. In lui la diagonale traduce l’idea del movimento nella vacuità. È una astrazione depurata all’estremo che trova il suo segno in un quadrato nero su fondo bianco. Scrive «Die Gegen standlose Welt», “Il mondo della non-rappresentazione” e parla del mondo dell’idealità pura spogliata di qualunque realtà rappresentabile. Franz Kupka, studia teologia, impara l’ebraico per leggere la Bibbia e fa il medium in sedute spiritiche. Orfista, dipinge la “Fuga in rosso e blu” e trasferisce le sue esperienze metafisiche servendosi di segni geometrici e di un’affettività astratta. Il mondo cerebrale e ideale viene opposto violentemente al mondo reale e percepito. I piani verticali respingono il peso dello spazio.

In tutti questi artisti, la pittura “non-figurativa” conosce solo proporzioni e rapporti costruttivi, una ritmica dei piani colorati pura, linee discorsive e valori plastici.

Kandinskij ha descritto questo misticismo esangue nel libro, filosoficamente assai debole, intitolato “Sullo spiritualismo nell’arte”. Mondrian, calvinista olandese, membro della “Società di Teologia”, cerca il trascendentale nello stretto rapporto delle linee che si incontrano all’angolo destro. In P. Klee si sente, più che negli altri, la sete di penetrare la sfera primordiale, il “tohû wà bohù”, l’abisso senza forma né contenuto di cui parla la Bibbia all’inizio, la potenzialità pura e ideale. Egli pensa che gli artisti eletti scendano sino a quel luogo segreto dove le potenze primordiali alimentano ogni possibile evoluzione. Per Klee, la forma attuale non è il solo mondo possibile. Si indovina la tentazione demiurgica di intuire e di immaginare un cosmo diverso da quello che Dio ha creato. Alla stessa stregua il surrealismo del tipo di André Breton, di Max Ernst, di Picabia, forza le porte dell’irrazionale con “disorientamenti sistematici” e la curiosità stimolata cerca il nocciolo segreto delle cose – “Ding an sich” – nell’astrazione delle cose stesse. Ebbene, San Gregorio di Nazanzio avverte: “Maledizione all’intelligenza che ha guardato con occhio subdolo i misteri di Dio”[3].

Per Iavlenskij, amico di Kandiskij, l’arte esprime “la nostalgia di Dio”. La diagonale di Malevič o il movimento delle linee che si intersecano all’angolo destro, si fermano davanti al quadrato, secondo Mondrian, segno geometrico ideale dell’Assoluto. Nei grandi fondatori dell’arte astratta, il desiderio di penetrare dietro il velo del mondo reale è visibilmente di natura “teosofica”, occulta. “Allo stadio superiore – scrive P. Klee – c’è il mistero”. Una nuova era della conoscenza di Dio? Può darsi, ma essa si colloca fuori dal Dio incarnato, è una conoscenza dell’ideale e astratta deità fuori dal Soggetto divino…

Più inquietanti sono le forme dell’“esistenzialismo artistico”. L’inconscio sogna lo spazio curvo e la quarta dimensione. Ma la natura potrebbe pure vendicarsi ingannando la curiosità degli uomini. L’immaginazione inebriata delle sue illimitate potenzialità introduce l’allucinazione e il delirio per giungere all’arte grezza di Dubuffet, all’arte primitiva dei malati mentali, agli “incubi mistici” di Hernandez, al bestiario di Kopac, ai “costruttori chimerici” di Giraud, al primitivismo assoluto. Ricordiamo le parole di André Gide: “l’Arte nasce da costrizioni e muore di libertà”. La violenza sessuale ossessiona pittori come Goetz e Ossorio, o scultori come Pevsner, Arp, Stahly, Etienne Martin. Accanto ai “collages” e alla scrittura automatica, l’illogismo di Max Ernst o di Dalì sposa la precisione fotografica degli oggetti con il cambiamento della loro funzione, per esempio “l’orologio liquido”. In Pollok e in tutta la scuola americana Action Painting l’automatismo della velocità ha come scopo quello di escludere la coscienza. I colori vengono gettati sulla tela senza toccarla per evitare qualsiasi intenzione, anche non cosciente.

Georges Mathieu disegna in stato di trance, su una pedana, col suono della musica concreta. Un’immensa tela – 10 x 2 – viene coperta nello spazio di un’ora. Si bucano i tubetti, ne escono fuori i colori che si proiettano, per così dire, da soli, conformi all’ambiente magico di trance. Alla fine, l’artista giace in uno stato completo di prostrazione. La spontaneità impulsiva delle viscere sfiora il caos pre-cosciente. Gli ultimi grandi pannelli di Bernard Buffet, per via di una profanazione voluta, sono i più sintomatici. Il loro unico soggetto mostra uccelli mostruosi che, con sguardo di una immobilità cadaverica, calpestano un corpo di donna, nudo. Tutti veli, anche anatomici, vengono strappati e le posture, ben studiate, giungono alla profanazione massima ed oscena del mistero dell’essere umano. Davanti a questi pannelli, con il loro odore specifico di putrefazione, viene alla memoria un passo della “Scala” di San Giovanni Climaco: “avendo visto la bellezza femminile ha pianto di gioia ed ha lodato il Creatore... Un uomo siffatto è già risuscitato prima della Resurrezione di tutti”.

Se si vuole immaginare la decorazione murale dell’inferno, oggi un certo tipo di arte risponde alla bisogna. Il biblico “Astuto”, che Lutero traduce con “colui che arriccia il naso”, ha ridotto la sua esistenza all’amara professione di burlarsi dell’essere. Lo si può fare anche in buona coscienza e gusto, da artista, in modo impercettibile per sé e per gli altri. Si tratta di una resistenza “all’immagine e somiglianza di Dio”, ancor di più, al Dio “Filantropo” che tesse con la sua luce il suo volto umano. L’arte astratta, per sua natura, non contiene nulla in sé per conoscere “la Parola che si è fatta carne”. Cosa può dire sull’Eucarestia, sulla trasfigurazione del corpo, sulla resurrezione della carne? Una luce taborica senza Cristo, la luminosità dei santi senza i santi, sono raggio prigioniero di uno specchio magico, segno infernale di non pienezza.

 

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Tra i vari e possibili approcci filosofici, la concezione sofiologica è quella più idonea a definire la natura dell’arte astratta. Secondo questa dottrina, il suo fondamento “ideale”, nel senso platonico del termine, si trova nella sua espressione più classica, ben più in profondità dell’aspetto fenomenale, mobile e cangiante dell’essere. Esso è costituito da principi ideali, normativi, che vengono pure chiamati i “logoi” delle cose e degli esseri. Questo mondo ideale, che esiste al di sopra della forma temporale e spaziale dell’essere a cui dà una struttura e che permea, viene chiamato Sofia (Sapienza) creata. Creata e terrena, essa è a immagine della Sofia celeste e non creata la quale, secondo l’insegnamento patristico, raccoglie le idee di Dio, il suo volere creatore sul mondo. Le due Sofie sono radicalmente separate senza possibilità di confusione. La realtà ideale, creata, ontologicamente non separabile dalle cose, condiziona e struttura l’unità concreta del mondo e lega il molteplice in cosmo.

Ogni conoscenza consiste nel risalire dalle cose empiriche allo loro struttura intelligibile ed a cogliere la loro unità. La presenza dell’ideale in una forma sensibile, la loro armonia, condizionano l’aspetto estetico dell’essere che ogni artista legge e commenta. Ebbene, grazie alla libertà del suo spirito, l’uomo può trasgredire le regole, può anche invertire i rapporti. Proprio perché la sua libertà è massima nella sfera estetica la Bellezza colpisce il cuore umano senza un necessario legame con il Bene e con la Verità.

Cercando l’infinito, l’eroe umano può fermarsi alla Sofia creata, identificarla con Dio, divinizzare la natura. Ben oltre, in questa identificazione luciferina, può anche ritenersi la fonte dell’esplosione cosmica, ritenersi l’Infinito facendo a meno di Dio.

Il lato ideale, intelligibile esiste solo per fondare e unire il mondo visibile. Fuori dalla sua “biosfera di incarnazione”, l’ideale non ha né senso, né fine, né ragione di esistere. L’arte giustamente è un sistema di espressioni, una lingua particolare i cui elementi si collegano alla Sofia e la esprimono proprio come le parole esprimono il pensiero. Contrariamente ai segni convenzionali, le espressioni artistiche offrono il loro contenuto come un messaggio segreto. Rispetto all’icona, esse si possono accostare tutt’al più ai simboli religiosi, luogo in cui il simbolico è sempre presente. In greco le parole che indicano il diavolo e il simbolo hanno la stessa radice, ma il diavolo separa ciò che il simbolo unisce. Un simbolo è il ponte che lega il visibile all’invisibile, il terrestre al celeste, l’empirico all’ideale e veicola l’uno verso l’altro.

Gli iconoclasti credevano molto correttamente ai simboli, ma a causa della loro concezione “ritrattistica” dell’arte (imitazione, copia), negavano all’icona il carattere simbolico e di conseguenza non credevano alla presenza del Modello nell’immagine. Essi non arrivavano a cogliere che accanto alla rappresentazione visibile di una realtà visibile (copia, ritratto), esiste un’arte completamente diversa, nella quale l’immagine presenta il “visibile dell’invisibile”, e che si rivela come simbolo autentico. Essi avrebbero accettato più volentieri l’arte astratta con la sua raffigurazione geometrica, per esempio la croce che non portasse il crocifisso. Ma, la somiglianza iconica contrasta radicalmente con tutto ciò che è ritratto e si collega solamente all’ipostasi (la persona) e al suo corpo celeste. Per questo motivo è impossibile l’icona di un vivente e qualsiasi ricerca di somiglianza carnale, terrestre, viene esclusa. Nell’iconosofia, l’ipostasi “inipostatizza”, rende propria, non una sostanza cosmica (tavola di legno, colore), ma la somiglianza in sé, la forma ideale, la figura celeste dell’ipostasi viene ad assumere il corpo trasfigurato rappresentato nell’icona.

Il Pleroma verso cui tutto protende attualizzerà la sintesi escatologica “del terrestre e del celeste” (I Corinti 15, 42-49). L’arte anticipa profeticamente. Attraverso l’imperfezione attuale, essa profila la perfezione, racconta il mistero dell’essere. Ma se lascia la “biosfera dell’incarnazione” cambia natura e, quando coscientemente rifiuta ogni somiglianza, s’inabissa nell’astratto.

Sappiamo che la filosofia matematica cerca il pensiero puro spogliato di qualsivoglia forma antropomorfica. La scienza affronta sempre di più nozioni che superano la capacità umana di comprensione. L’arte astratta si oppone violentemente all’arte figurativa: “Giuro alla Natura che mai più la rappresenterò” dichiara Kupka. Certamente la cosa senza contenuto sofiologico è piatta ed assurda come le tele di Fougeron e quelle del “realismo socialista”. Ma l’ideale senza la cosa è cieco ed insignificante. È come se l’arte si esercitasse su entelechie di Aristotele che avrebbero perduto il luogo della loro attualizzazione.

Dal punto di vista sofiologico è evidente che l’arte astratta (ab-trahere, tirare, estrarre dal reale) si esercita sulla Sofia dissacrata, deviata dalla sua destinazione, sconvolta nella sua stessa essenza, nel suo rapporto con il reale, fatto che la priva del suo fine e la rende indecifrabile poiché la Sofia ha perduto il suo corpo. Da quel momento, è una falsa magia dell’istante. Dei fantasmi possono sempre offrire un godimento estetico. Ossessionano le vestigia del mondo frammentato ma non offrono che un assai magro interesse. Kandiskij o Paul Klee possono toccare una grande musicalità sol perché sono dotati di genio, ma l’uomo che osserva queste opere non è mai accolto in questo mondo devastato di qualunque presenza e volto. L’occhio può ascoltare le voci del silenzio, l’assenza colorata non fa che distrarre e alla fine stancare. Si può entrare in comunione, accennare ad un gesto di tenerezza per una di quelle donne dipinte da Picasso e definite dal P. Sergio Bulgakov “cadaveri della bellezza”, si può provare desiderio di pregare davanti al quadrato di Malevič? L’arte astratta si esercita sull’arcobaleno estrapolato dal suo contesto cosmico. Si può ammirare il suo spettro solare, analizzarlo e variare all’infinito i suoi colori, ma esso non unisce più il cielo alla terra, non dice nulla di essenziale all’uomo. Ma l’arcobaleno non è un gioco di colori né un oggetto estetico; secondo la Bibbia è il grande simbolo dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Nell’iconografia, l’arcobaleno regge il corpo di Cristo Pantocratore nel momento della sua gloriosa venuta. L’astrazione recide le vibrazioni luminose della loro fonte, dell’Oriente liturgico. Cosa può rivelare all’uomo orante che si prosterna davanti al lampo folgorante del volto divino e che dice: “Nella luce conosceremo ogni luce…”. Bello non è solo ciò che piace; più di una festa per gli occhi, esso nutre lo spirito e l’illumina.

Le esposizioni mostrano che le forme moderne non sopravvivono. Più la forma è vuota di contenuto sensato più è illimitata nelle sue combinazioni, nei suoi “come”; ma, dal momento in cui viene chiamata a dire “cosa”, a rivelare una “quiddità”, una soltanto coincide con il suo contenuto: che l’illimitato delle espressioni corrisponde al limitato dell’anima. Di contro, l’illimitato divino assume la sola ed unica espressione dell’Incarnazione: “Certo, per Tua natura, sei illimitato, Signore, ma hai voluto limitarti sotto il velo della carne”. Dio è presente nell’unico volto di Cristo, e con Lui tutto l’umano. La ieraticità dei santi, la loro immobilità iconografica quasi rigida, questa limitazione esteriore della forma svela l’illimitatezza del loro spirito. Dalla loro posizione frontale, senza alcun artifizio, il loro sguardo, ci brucia senza consumarci, come il roveto ardente.

 

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Nel suo valore intrinseco di simbolo, l’icona va oltre l’arte, ma anche la spiega. Noi possiamo ammirare senza riserve le opere dei grandi Maestri di ogni secolo e farne la vetta dell’Arte. Come la Bibbia si colloca al di sopra della letteratura e della poesia universali, l’Icona si discosta un po’. Salvo alcune eccezioni, l’arte “tout court” sarà formalmente sempre più perfetta dell’arte degli iconografi perché quest’ultima, giustamente, non cerca quella perfezione. Il solo eccesso nocerebbe all’icona, rischierebbe di distogliere lo sguardo interno dalla rivelazione del mistero, come una poesia eccessiva e ricercata nocerebbe alla potenza della parola biblica. La bellezza di una icona consiste in un equilibrio gerarchico estremamente esigente. Entro un certo limite e immediatamente, altro non è che un semplice disegno; al di là e secondo il genio contemplativo dell’iconografo, l’icona stessa impone e irradia l’intrinseca bellezza conforme al soggetto.

Espressiva, l’arte può esprimere contenuti diversi. Libera, può coincidere con l’icona – come una tela di Rembrandt – o allontanarsi da ogni contenuto religioso; al limite, può passare alla funzione puramente segnica o divenire soltanto oggetto estetico, arte per arte, decorazione, pesino può cambiare la sua funzione e cessare di essere arte.

La grande arte figurativa ci offre la visione trasfigurante dei Maestri, coglie la Sofia terrestre nell’armonia dei suoi due aspetti, reale e ideale, la canta e costruisce il Tempio sofianico. Ma questo, per diventare carne trasfigurata, teofanica, deve aprirsi coscientemente, con la fede e la santità dell’uomo alla luce divina, alla Saggezza non creata. La Sofia creata non è che l’ambiguo specchio della Gloria, offuscato dalla caduta, e per questo l’arte stessa rimane profondamente ambigua. Per incontrare la Bellezza faccia a faccia, per arrivare a toccare lo splendore energetico della grazia, occorre varcare le porte segrete del Tempio mediante una trascendenza, un superamento del sensibile e dell’intelligibile: è l’Icona. Non è più l’invocazione ma la Parusia, la Bellezza viene incontro al nostro spirito non per rapirlo ma per aprirlo alla vicinanza ardente del Dio personale. È la discesa della Saggezza celeste che fa della Sofia terrestre il suo ricettacolo splendente, il Roveto ardente. L’arte dell’icona non è autonoma, è inclusa nel Mistero liturgico e sfavilla di presenze sacramentali, fa propria una certa astrazione. Nella sua libertà di composizione, dispone a piacimento gli elementi di questo mondo nella sottomissione totale allo spirituale. Può rappresentare la Vergine dalle tre braccia, far camminare un martire mentre tiene la sua testa tra le mani, dare i tratti di un cane ad uno perduto in Cristo, mettere il cranio di Adamo ai piedi della Croce, personificare il cosmo sotto le sembianze di un vecchio re ed il Giordano in quelle di un peccatore, rovesciare la prospettiva e fare culminare in un solo punto tutti i tempi e tutti gli spazi. Qui la luce è più dell’oggetto, serve da materia colorante per l’icona, la rende luminescente in sé, rendendo inutile ogni sorgente luminosa, come nella Città dell’Apocalisse.

Senza poter provarlo, è evidente che l’arte astratta ha origine nell’iconografia, negli arabeschi musulmani, nel trascendentale. Cogliere questa corrispondenza iniziale, è come riaccendere la cattiva coscienza reciproca. Certo, la bellezza è stata universalmente prostituita e la contemplazione dissacrata.

L’accademismo dell’arte, così come l’accademismo della teologia e della predicazione, l’accademismo della vita cristiana hanno suscitato una giusta rivolta ed una ricerca appassionata e assai tragica del vero. Ma, ogni rivolta contiene in sé la propria trascendenza, l’inferno non esiste se non per la luce che splende nelle tenebre; la speranza del contrario, la dialettica stessa della metanoia infernale costituisce la punta avanzata del segreto soffrire. L’immensa impresa di demolizione inerente l’arte astratta è una forma di ascetismo, di purificazione, di aerazione che dobbiamo ammettere con timoroso rispetto. Risponde alla purezza dell’anima, alla nostalgia dell’innocenza perduta, al desiderio di trovare almeno un raggio o una scintilla di colore che non sia sporcata da una figura complice ed equivoca di quaggiù. Nella maggiore profondità delle aspirazioni, il rifiuto delle forme di questo mondo non è l’esigenza imperiosa del “completamente diverso”. Grida l’impossibilità di vivere da artista in un mondo ateo e chiuso, di esercitarsi sulle “nature morte” che non sono più materia di resurrezione. Per questo l’arte moderna è significativa. Ha portato la liberazione da ogni pregiudizio, ha soppresso gli ornamenti e gli accessori, ha demolito gli orrori dell’accademismo degli ultimi secoli, ha ucciso il cattivo gusto del XIX secolo e, in questo, è rinfrescante. La forma esterna viene disfatta. Ma a questo livello nessuna evoluzione è più possibile, la chiave delle corrispondenze segrete è perduta, la rottura tra il sacro trascendente divino e il religioso immanente umano diviene così radicale che non si può più semplicemente passare da un piano ad un altro. L’accesso alla forma interna, “sofianica” e uraniana, la contemplazione per trasparenza dell’invisibile nel visibile è sbarrata dall’angelo con la spada fiammeggiante. Alla luce delle ultime realizzazioni, solo il battesimo di fuoco può fare risuscitare l’arte[4].

La battuta di arresto dell’iconografia, nel suo stesso slancio, a partire dal XVII secolo, ha una schiacciante responsabilità per il destino dell’arte moderna. Con la sua “impasse”, quest’arte esprime l’attesa disperata di un miracolo. Ma, come ogni miracolo, questo è imprevedibile nella forma. Forse sarà nello sguardo virginale di un santo: in una manciata di humus, egli vedrà la traccia folgorante dello Spirito che, tanto tempo fa, da questa terra umida, scolpì il volto del primo uomo affinché accogliesse la luce dello sguardo divino.

Più che mai l’iconosofia moderna è chiamata a ritrovare la potenza creatrice degli antichi iconografi e ad uscire dall’immobilismo dell’arte dei “copisti”. Se il mondo ha perduto ogni stile quale espressione dell’universale umano e della comunione spirituale delle anime, l’immagine di Dio oggi impone il suo per interpretare alla sua luce il nostro tempo. Fedele alle sue origini, ma briciola dell’eone pentecostale, l’icona saprà chiudere il cerchio sacro sull’evangelo della Parusia e del volto umano di Dio trino? Oggi più di ieri la liturgia ci insegna che l’arte si deteriora non perché è figlia del suo tempo, ma perché è refrattaria alle sue funzioni sacerdotali: rendere l’arte teofanica, mettere l’icona, l’Angelo della Presenza, nel cuore delle speranze ingannate e sepolte. In “abito variopinto” di tutti i colori, Bellezza sofianica della Chiesa, il suo volto è umano: Donna vestita di sole, “gioia di tutte le gioie”, “colei che combatte ogni tristezza” e sfavilla di tenerezza indefettibile.

 

Traduzione dal Francese del prof. G. M., Palermo, agosto 2006.


 

[1] Il Cristo bizantino, elkomenos, umiliato e sofferente, fece da sé l’ultima ascesa in Signore di tutte le cose. Lo dice San Giovanni Crisostomo: “Guardo Cristo Crocifisso e vedo il Re”. Il Metropolita Filarete di Mosca precisa: “Il Padre è l’amore che crocifigge, Cristo è l’amore crocifisso, lo Spirito Santo la potenza invincibile della Croce”. Di contro, nell’arte occidentale dopo il XIII secolo, Gesù, l’uomo di dolori, sembra essere al centro stesso del dolorismo, sembra essere abbandonato dallo Spirito Santo come il Cristo di Andernach, di Colonia, il Devoto Cristo di Perpignano. La ricerca del realismo nel XV secolo si lancia ancor di più nell’immagine della sofferenza e della morte: è il culto delle cinque piaghe, del Santo Sangue, degli strumenti della passione, del Cristo abbandonato che attende il supplizio, della Vergine che nella sua ferita non è sostenuta da nessuna Colomba.

[2] L. Bouyer, I Cattolici occidentali e la liturgia bizantina, in Dieu Vivant, No 2l.

[3] Or. XXXI, 8. PG 36, 141 B.

[4] Leggere la meravigliosa analisi di Weidlé nel suo libro: Les Abeilles d’Aristée.

 

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