Leo Moulin

 

L’idea benedettina dell’uomo e la sua attualità

 

“Conoscere gli uomini e amarli lo stesso”

 

(Leone Tolstoj)

 

 

Questo breve articolo è estratto da La vita quotidiana secondo San Benedetto (ed. Jaka Book) opera del famoso medioevalista francese Leo Moulin. San Benedetto ha cercato di vivere il vangelo in un’epoca di grandi cambiamenti storici, al tramonto dell’Impero romano in occidente. È aperto il campo di discussione a proposito dell’attribuibilità della regola a san Benedetto anche perché, in quel tempo, la “regola” per dei monaci non era tanto uno scritto quanto la vita di un santo. In ogni evenienza questo non toglie alcun interesse alla Regula che, molto probabilmente riflette la vita e il pensiero dello stesso santo, una vita che i cristini d’Oriente odierni venerano ancora. Il commento che Leo Moulin fa su un aspetto della regola pare, dunque, d’indubbio interesse e indica indirettamente come esistesse una comune tradizione all’interno del primo millennio cristiano. La visione concreta e pratica della Regula è infatti facilmente riscontrabile in molti scritti monastici cristiani d’Oriente della stessa epoca. Ciò, come dice Moulin, è molto prossimo ai bisogni e alla sensibilità del mondo attuale.

 

 

Benedetto dunque conosce gli uomini, le loro debolezze e i loro limiti. Non nutre alcuna illusione a loro riguardo. Tuttavia, ed è questo che lo distingue da un Machiavelli, ad esempio, o da un Hobbes, la sua visione disincantata e realistica non lo induce a pensare che i figli di Adamo siano irrimediabilmente perduti e che non ci sia nulla da fare o da sperare. In Benedetto non c’è traccia di disprezzo o acredine, non c’è ombra dello “zelo tetro e amaro” (c. 73,1), che anima tanti puritani o idealisti che vogliono fare la felicità della gente suo malgrado.

Benedetto ama gli uomini per quello che sono, e specialmente i deboli, i malati, i vecchi, i poveri, i giovani, i peccatori, i recidivi (c. 31). Per loro vuole essere un “tenero padre”, che “sempre preferisce la misericordia alla giustizia” (c. 64,26), che “desidera farsi amare piuttosto che temere” (c. 64, 36). Machiavelli, e qui sta tutta la differenza, opta per la paura e il terrore (Il Principe, cap. XVII), Benedetto è il pastore di un gregge a cui non propone nulla di rigoroso e gravoso (nihil asperium, nihil grave, Prol. 107), in quella che, dopotutto, ai suoi occhi è soltanto una “piccola regola per nuovi adepti”, (hanc minimam inchoationis regulam, c. 73, 23).

Di questa tenerezza, incessantemente e attivamente presente, si potrebbero moltiplicare gli esempi: ogni pagina della Regola ne offre a iosa. Notiamo, ad esempio, con quanta umanità Benedetto tratta i fratelli esclusi, per errori gravi, dalla comunità, gli scomunicati, i recidivi. Un problema sociale che ci è familiare anche oggi. Per lui costoro sono, anzitutto, dei malati (c. 27 e 28) ai quali la Comunità deve stare vicina con tutto il cuore, per evitare che affondino “in un abisso di tristezza” (abundantiori tristitia). Se tutti i rimedi falliscono, la Comunità deve ricorrere a “un mezzo più efficace”, la preghiera, “affinché il Signore, che può tutto, renda la salute al fratello malato” (c. 28, 17), che verrà così a resipiscenza. La stupenda parola! Derivata da sapientia, etimologicamente significa “ritorno alla ragione”, e solamente in seguito assumerà il significato di “pentirsi”. Essere –infine– ragionevole, comprendere, conduce al pentimento (speriamo).

La sollecitudine di Benedetto non si applica solo ai casi estremi, come quelli di cui abbiamo appena parlato, ma si estende agli aspetti più umili del vivere quotidiano. Ne è testimonianza questo passaggio dei capitolo 22: “Levandosi... i fratelli si incoraggino dolcemente (sottolineo l’avverbio, L.M.), in modo da non offrire a quelli (ancora) assonnati il pretesto di reagire brutalmente”. E altrove (c. 8): “Ci si leverà all’ora ottava della notte (cioè, tra le due o le tre dei mattino), in base a una valutazione ragionevole in modo che ci si alzi a digestione compiuta” (iam digesti surgant). E più avanti, questo passaggio, nel bel mezzo del capitolo relativo agli “uffici divini della notte”, che tratta di un dettaglio assolutamente prosaico (ma Benedetto, padre del monastero, pastore del gregge, medico delle anime, Vicario di Cristo, pensa a tutto): “dopo un breve intervallo, durante il quale i fratelli potranno uscire per soddisfare i bisogni della natura. (ad necessaria naturae c. 8,12”...

Bisogna prendere gli uomini come sono, nella piena coscienza della loro intima debolezza, della debolezza dei deboli., (infirmorum contuentes imbecillitatem, c. 40,6); organizzare, ad esempio, il lavoro con moderazione, tenendo conto di quelli che sono deboli (mensurate (...) propter pusillanimes) “infermi o delicati” (c. 48,57) e, soprattutto, è necessario non pretendere che siano conformi all’immagine astratta, idealizzata, che ci si è fatta dell’uomo.

Gli uomini bisogna accettarli per quello che sono, nella loro infinita diversità, nonostante le ineguaglianze nel sapere, nell’intelligenza, nella ricchezza spirituale, nella saggezza, nei meriti, nello zelo, nella resistenza fisica e morale, che li caratterizzano. Perché soltanto agli occhi di Dio esiste e può esistere uguaglianza: “noi serviamo, allo stesso titolo, nella milizia di un solo Signore” (c. 2,56). Sul piano del terreno e del quotidiano, gli uomini sono profondamente ineguali. Benedetto lo sa e lo dice.

L’Abate dovrà dunque “piegarsi alle disposizioni della maggioranza”, “senza parzialità”, “secondo il valore dell’intelligenza di ciascuno” (c. 2,92); “non turberà il gregge che gli è affidato” (c. 63,5) con decisioni arbitrarie o nocive all’armonia della Comunità. Non deve logorare le sue pecorelle con troppe pretese, ma guidarle con “discernimento e moderazione” (discernat et temperit, c. 63,42) – due parole-chiave del pensiero benedettino.

Dunque, niente gregari. Nessuna irreggimentazione, nessun livellamento alla base. Meno ancora egualitarismo, questo attentato alla dignità della persona umana, che mortifica i migliori, abbassandoli ingiustamente al livello della folla, e avvilisce gli umili, facendo loro credere, mendacemente, che non esistano differenze tra gli uomini. L’Abate deve rispettare le diversità tra un uomo e l’altro e dare ad ognuno la possibilità di far fruttare il talento (Matteo, 25,14-30) che Dio gli ha dato, e in questo modo di sbocciare.

L’età in sé non è un merito né un demerito: “in nessun momento, e in nessun caso, l’età saprebbe creare un prestigio o un’inferiorità” (c. 63,14): questo significherebbe l’introduzione di un elemento meccanico nel processo di giudizio e di scelta, e un attentato alle ricchezze potenziali della diversità. La frase è sconvolgente, per quell’era della gerontocrazia in cui fu scritta. Benedetto spiega: “spesso è proprio ai più giovani che Dio rivela la soluzione migliore” (c. 3,8).

L’Abate dunque verrà scelto “in base ai meriti della sua vita e alla saggezza della sua dottrina, anche se è l’ultimo (per la data della sua professione, L.M.) nella gerarchia della comunità” (c. 64,7-8). L’età non ha importanza; è (in linea di principio, perché gli uomini restano uomini) un sistema di selezione e di promozione che si basa su di un’amplissima gamma di scelte possibili.

Segue uno splendido quadretto di quel che deve essere il capo di un’impresa benedettina. L’Abate, “Vicario di Cristo”, dalla cui volontà tutto dipende e deve dipendere, sarà, proprio per questo, moderato, riservato, indulgente; non sarà agitato o inquieto, eccessivo o ostinato, o geloso o troppo sospettoso (un po’ è bene che lo sì: è il destino di tutti coloro che dirigono un’impresa). Che non finga, soprattutto, di ignorare gli errori nascenti; che vi porti rimedio, che li “recida alla radice”, appena “cominciano ad avere un peso”. Che non esiti dunque a punire, ma “con prudenza e carità”, “senza nulla di eccessivo”, dosando i suoi interventi a seconda delle circostanze (Miscens tempora temporibus, c. 21,13). (Questo vale.,per gli insegnanti, per gli ufficiali e per i capifamiglia). Perché, di tutte le virtù che insegna Benedetto, quella che mette maggiormente in evidenza è la discretio, “madre di tutte le virtù” (c. 64,48), ovvero il senso della misura, il discernimento, la moderazione, il giusto equilibrio tra quel che si può sperare dagli uomini e i gravami della realtà quotidiana.

In Benedetto non c’è niente di repressivo. Quando punisce, vuol punire l’errore o l’ostinazione in esso assai più che il colpevole. Dal momento che non si fa illusioni sugli uomini è incline a perdonare: ai suoi occhi, la colpa è parte integrante della natura umana, ed è alla luce di una simile visione che egli la giudica. Punire, punire un “malato”, va bene, ma non troppo, “per non spezzare la canna (già) incrinata” (c. 64,33), per non infrangere il vaso, a forza di voler “togliere la ruggine” (c. 44,31): non sogniamoci di voler rendere gli uomini perfetti, soprattutto loro malgrado. Insomma, “che l’Abate odi i vizi, ma ami i fratelli” (c. 44,27): la distinzione non è sempre facile da fare. E meno ancora da applicare nella vita di tutti i giorni: come amare questo fratello “vizioso”, “colpevole”, “malato”, forse, ma “cattivo ?

Benedetto ha piena coscienza del fatto che la vera grande arte è quella di governare gli uomini, come verrà detto nel Medioevo: “ARS ARTIUM, GUBERNATIO HOMINUM”.

Egli sospira: “È un compito difficile e faticoso governare gli uomini” (c. 2,84)

 

 

Una attenzione totale

 

La visione realistica degli uomini che impregna tutta l’esperienza personale di Benedetto e ispira la sua Regola, non induce affatto il Patriarca d’Occidente ad abbandonarli a se stessi; è convinto che del “gregge turbolento e indocile” che gli è affidato sia possibile fare qualcosa di buono. Questa “piccola Regola per i neofiti” può, quanto meno, permettere di acquisire “onestà di vita e muovere i primi passi nella vita religiosa”: per mezzo della preghiera, “breve”, “pura e frequente”, della mortificazione (“odiare la propria volontà”), con l’obbedienza e con la fede. Per mezzo della vita vissuta insieme ai fratelli, in quella preghiera di pietra che è il monastero, “l’officina (officina), dove, scrive Benedetto, dobbiamo lavorare diligentemente con tutti questi strumenti. (c. 4,98), animati dalla ferma intenzione di restarvi sempre legati. (stabilitas, c. 11,99). “Militando sotto la Regola e l’Abate., incarnazione della Regola cui si deve obbedienza e che è il solo autorizzato ad esigere tale obbedienza (Regulae auctoritas, c. 37,3). Sono questi gli ingredienti fondamentali di tutta la vita religiosa.

Interviene ancora un altro elemento, altrettanto fondamentale, sia nella vita quotidiana dei religiosi, sia, questa volta, nella vita quotidiana del cittadino del nostro tempo: voglio parlare dell’osservanza. L’osservanza, che è la stretta applicazione, in tutti i momenti della vita, in tutte le azioni, di una attenzione tesa e totale. Significa fare, “senza ritardo”, senza esitazioni, senza mormorare né replicare, senza tiepidezza o pigrizia, con zelo e applicazione la missione affidata a ciascuno, o semplicemente i piccoli doveri quotidiani. E farlo bene! Vuol dire essere sempre presenti a se stessi, senza sosta: Actus vitae suae omnia hora custodire (c. 2,56), che, in linguaggio moderno, si potrebbe tradurre: “conservare ad ogni istante il controllo delle proprie azioni”, dei propri atti, dei propri gesti e del proprio pensiero. La distrazione, il ritardo, la balordaggine, la dimenticanza, il lapsus, la fantasticheria, la negligenza, l’errore (nell’oratorio, c. 45, a tavola, c.38) non sono permessi. L’uomo è sempre considerato responsabile di ciò che fa, di quel che è e di quel che pensa. (È inutile, credo, sottolineare la modernità di questa esigenza: il self-control, la padronanza di sé, la razionalizzazione dei comportamenti, sono uno dei fondamenti dell’azione e della supremazia europea nelle società del passato (Cf. L. Moulin, L’aventure européenne, pp. 67-69).

Citiamo un solo passaggio della Regola, il capitolo 46, per illustrare quel che abbiamo appena detto: “Quando a un monaco, durante una qualunque attività, nelle cucine, in cantina, nel corso di un servizio, nella panetteria, in giardino, nell’esercizio di un mestiere, o in qualsiasi luogo (notiamo l’enumerazione, il più possibile esaustiva), capita di sbagliare, di rompere o di perdere qualche cosa, o di commettere un altro fallo, dovunque ciò avvenga...”: ecco tutto questo costituisce una colpa, un delitto (delictum). D’altronde, Benedetto precisa (c. 33): “Se qualcuno tratta uno degli oggetti del monastero senza garbo o con negligenza,sarà rimproverato. Se non si corregge (sempre quest’idea tipicamente benedettina: è la perseveranza a costituire la colpa per eccellenza), subirà la disciplina regolare, che va dalla reprimenda pubblica (c. 23), alla privazione della “comunità del desco” (c. 24), dalla scomunica alla verga.

In nessuna circostanza, per poco importante che sia, il monaco può sbagliare o cedere, né può giustificarsi dicendo “non l’ho fatto apposta”. Certo, ma hai sbagliato. Oppure “Ho creduto di far bene”: bisogna far bene, e non “credere” – questo verbo invertebrato – di averlo fatto. É così di seguito.

Praticando giorno dopo giorno, scrupolosamente, queste virtù, è possibile diventare un pochino migliori di quanto non si fosse al punto di partenza; senza illusioni, perché la caduta e la recidivia non sono mai lontane e sono sempre possibili.

Taluni, tuttavia, potranno percorrere un cammino più arduo (omnia dura et aspera) che permetterà loro di “raggiungere le più alte cime della dottrina e della virtù” (c. 73,25), e “per mezzo del quale si arriva a Dio” (c. 58, 18). Ma non a tutti è dato il percorrere questo cammino: paucorum est ista virtus (c. 49,31).

Morale: l’uomo non è, in alcun momento, il prodotto esclusivo del suo ambiente e/o dell’ereditarietà; può, se vuole (e, fatto “a immagine e somiglianza di Dio”, è, per definizione, dotato di libertà e di volontà), diventare diverso e migliore di quel che sarebbe, se fosse in balia di se stesso. Egli può costruire la sua vita.

 

 

La dolcezza dei rapporti umani

 

È questo l’ultimo grido della saggezza benedettina, e quanto essa ha ancora di valido per l’uomo d’oggi? Qualche tratto, di un’abbagliante attualità, completa il quadro. In un monastero si vive gli uni sugli altri: è la più dura delle mortificazioni, mi disse un Padre Trappista (insieme alla solitudine, mi sussurra un Certosino). I contatti quotidiani sono molteplici, inevitabili; essi inaspriscono singolarmente quanto può esserci di doloroso, di penoso o di francamente insopportabile nella presenza di questo o di quello (pensiamo alle tensioni che scandiscono la vita di due persone che vivono insieme da molti anni). La Regola e le Leggi Consuetudinarie sono lì apposta per evitare che esplodano clamorosamente gli attriti che esistono, latenti, nel seno della Comunità più profondamente unita nelle cose essenziali; ma la vita quotidiana è fatta di simili momenti di tensione. Nei capitoli 4 e 36 della Regola – in particolare – Benedetto ha raccolto un breve trattato di civiltà sul modo di evitare urti di questo genere che, per secoli e ancora oggi, ha impregnato e impregna l’intera vita benedettina e le dona quella dolcezza, quella tenerezza umana, quella serenità dell’anima, che sono le sue caratteristiche. Citiamo ancora: gli ospiti, i forestieri, saranno ricevuti “tamquam Christus” (c. 53, 2); si cureranno i malati “come se fossero Cristo” (c. 36,2).

“Fare a gara per onorarsi a vicenda”: è il rispetto per la Persona dell’Altro in quanto ha di essenziale e di unico (avviso agli automobilisti). “Fare a gara per ubbidire gli uni agli altri”: il religioso non ubbidisce soltanto alla Regola, all’Abate e agli “ufficiali”, che questi ha scelto; deve ubbidire agli altri, a tutti gli altri.

“Sopportare pazientemente le infermità altrui; sia quelle del corpo che quelle dello spirito”. Aggiungiamo: e anche le proprie, per non disturbare gli altri con lamentele superflue e con la descrizione minuziosa dei propri mali.

“Avere per l’Abate un affetto umile e sincero”: non basta obbedire, bisogna amare. Il grande studioso Konrad Lorenz, Premio Nobel per la medicina nel 1973, ha scritto: “Il rispetto della gerarchia e l’amore non sonò incompatibili”. Il monaco, dunque, deve anche amare il suo Abate. Ecco perché se, dopo esser stato rimproverato, si accorge che il suo superiore “è irritato con lui o in collera, per quanto poco (quamvis modice), gli chiederà perdono fino a quando la sua benedizione gli avrà fatto capire che la collera si è calmata” (sanetur illa commotio). Perché bisogna riconciliarsi, “fare pace” (in pacem redire), prima del calar del sole, “con quelli che sono in discordia con voi” (c. 4,88), (se lo ricordino le coppie, vecchie e giovani). “Venerare gli anziani. Amare i più giovani”. Altrove (c. 63, 23): “I più giovani onoreranno gli anziani e gli anziani avranno dell’affetto per i giovani”; (minores suos diligant : notate la tenerezza del suos).

Ed ecco qualcosa che riguarda direttamente l’uomo d’oggi, che è fin troppo incline ad attribuire la responsabilità delle sue colpe alla sorte, all’ereditarietà o all’ambiente, o a tutto insieme In un magma confuso: “Riconoscersi sempre come autori del male che è in noi e farcene carico” (c 4, 49).

Civiltà di tutti gli istanti, cortesia, tenerezza fraterna, carità, educazione, quel “riconoscimento quotidiano della dignità umana”, scrive Bernard de Jouvenel, equilibrio di una vita armoniosamente distribuita tra la vita spirituale, il lavoro, la distensione, il riposo: valori questi che, da secoli, sono l’appannaggio della vita monastica se non, sotto molti aspetti, quelli che popolano le nostalgie dell’uomo moderno, che si sforza di ritrovarli, bene o male, nella sua seconda casa o nelle sue gite domenicali: i valori dell’interiorità, i cibi semplici e naturali, il silenzio, la natura, i riti della convivialità e, chissà?, qualche volta, la preghiera.

 

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Benedetto.htm

 

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