LE «OBLATIONES PRO DEFUNCTIS»
(Tertulliano, De Corona 3, 3)
CLARA BURINI
Il culto per i defunti è stato espresso e si è divulgato nella chiesa fin dai primi secoli: dalla profumazione all’incensazione del cadavere, alla sacralità del luogo di sepoltura. Riti funerari leciti, praticati con devozione e senso religioso, ma che talora sembrano riproporre le antiche prassi pagane. Tra questi riti ve ne è uno, però, esclusivo e distintivo del cristiano: celebrare per il defunto il sacrificio eucaristico. In Tertulliano troviamo una prima testimonianza.
Nel cristianesimo d’Africa penetrarono e furono ampiamente meditate quelle dottrine teologiche che dal III secolo in poi si diffusero ampiamente nel mondo occidentale: Tertulliano è senza dubbio protagonista dello sviluppo della fede cristiana in questa terra; egli segnò l’avvio dell’apologetica latina ma, al tempo stesso, elaborò e propagandò i principi del cristianesimo, consapevole della realtà sociale del suo tempo e testimone principale dell’evoluzione ecclesiale in quel periodo.
A) LA COMPOSIZIONE DEL TRATTATO «DE CORONA»
Dalla sua sconfinata produzione – sia cattolica che montanista – emergono elementi significativi e dati fondamentali per ricostruire la chiesa dell’inizio del III sec. nelle sue espressioni comunitarie e liturgiche, alla luce di quella politica imperiale così avversa al cristianesimo e ai suoi seguaci. Occasionale fu anche la composizione del De Corona e dettata da precise circostanze storiche o, più esattamente, dall’editto del 211 emanato dopo la morte dell’imperatore Settimio Severo: i soldati dell’esercito imperiale avevano diritto a un «donativum» da ricevere durante una cerimonia in cui era d’obbligo presentarsi incoronati. Un soldato cristiano rifiutò di cingersi il capo e professò pubblicamente la sua fede: la fede in Cristo, quella fede secondo la quale non si può essere idolatri, né, tantomeno, «militare» per due padroni.
Tertulliano difende totalmente l’atteggiamento del soldato cristiano, vorrei dire che si pone nei suoi panni e crea col De Corona un trattato etico non privo d’intuizioni, riflessioni e formulazioni dottrinali che anche oggi scuotono la coscienza cristiana.
Siamo in un periodo particolare sia per la chiesa sia per Tertulliano stesso: tra il 208 e il 212, durante l’infierire della persecuzione di Scapula (proconsole d’Africa dal 211 al 213), s’era insinuata nel popolo l’«ossessione dell’universale presenza satanica»[1]; Tertulliano, difensore del cristianesimo, ma volto ormai al rigorismo più acceso (quel rigorismo che lo farà aderire alla setta montanista), inizia a lottare contro ogni residuo di paganesimo e contro ogni minimo retaggio idolatrico: «una sorta di dualismo apocalittico posa sulle opere di questi anni bui»[2] e, in certo qual modo, anche sul De corona. Ogni azione, ogni gesto, ogni atteggiamento sono commisurati e confrontati con la disciplina cristiana e la fede in Cristo è l’unica norma da osservare: legge inflessibile che determina la condotta di ogni cristiano in modo così vincolante che le sue azioni risultano necessariamente incompatibili con quelle di coloro che non professano il cristianesimo. E ciò vale, nel caso appunto del De corona, anche per il servizio militare: «Alla milizia pagana Tertulliano oppone la militia Christi… concezione già formulata da s. Paolo e sviluppata in seguito dai padri apostolici»[3].
Tuttavia il problema del De corona non è solo quello di non impugnare le armi; un’altra fondamentale e forse prioritaria preoccupazione è quella di rifiutare qualsiasi culto o rito o gesto di costume pagano: il cristiano deve adorare solo Dio e rinnegare tutto ciò che possa coinvolgerlo o legarlo ancora al mondo degli idoli. Proprio alla luce di questa preoccupazione si comprende perché Tertulliano inserisca nel De corona il problema dell’osservanza della tradizione e alcuni esempi di rituali e di atti liturgici. E appunto nell’elenco di alcune tradizioni inveterate, troviamo anche una delle prime testimonianze riguardo al culto dei morti:
«Nel giorno anniversario presentiamo oblazioni per i defunti, per il giorno della (loro) nascita» (De Cor. 3,3).
B) LA FRASE NEL CONTESTO IMMEDIATO
Nel c. I del De corona Tertulliano informa sull’episodio avvenuto «nell’accampamento» mentre «veniva elargita una gratifica dei nostri eccellentissimi imperatori» (1, 1). Viene lodato il «soldato di Dio», «l’unico a capo scoperto che tiene in mano l’inutile corona rivelando con questo atteggiamento di essere cristiano» e pronto a proclamare davanti a tutti: «christianus sum» (1, 2). Egli
«vestito della speranza del suo sangue, calzatosi con i paramenti del vangelo, cintosi con la più penetrante parola di Dio, interamente armato (dell’insegnamento) dell’apostolo e più nobilmente incoronato dalla candidatura al martirio, attende in carcere la ricompensa del Cristo» (1, 4).
Il riassunto dell’accaduto prosegue in modo sintetico, la narrazione dei fatti è brevissima, ma essenziale. Subito dopo inizia il commento di Tertulliano e, naturalmente, nell’ottica di un apologeta, che coglie dalla circostanza il motivo per condannare ciò che è pagano proclamando alcuni principi fondamentali della dottrina cristiana.
Tutta l’argomentazione muove da questo interrogativo: «dove viene proibito (ai cristiani) di cingersi con la corona?». L’obiezione è sollevata da quegli stessi cristiani che, coronati, vogliono giustificarsi (l, 5s). Così, nel c. II, Tertulliano dichiarando esplicitamente di rivolgersi a coloro che hanno desiderio d’imparare e non di contestare («qui studio discendi non quaestionem deferunt, sed consultationem»: 2, 3), circoscrive i termini del problema sulla normatività della Scrittura in rapporto alle osservanze (2, 4).
Il c. III, quello che ci riguarda in particolare, inizia con la citazione di alcune osservanze rafforzate e inveterate dalla consuetudine pur non essendo comandate dalla Scrittura («si nulla scriptura determinavit, certe consuetudo corrobora vit»: 3, 1) e, a questo proposito, sono menzionati come esempio di tradizioni fondate sull’autorità della consuetudine («ullius scripturae instrumento, solius traditionis titulo»: 3, 2) il rituale del battesimo, il sacramento dell’eucaristia, le oblazioni per i defunti, il non digiunare nel giorno del Signore, quando pregare in ginocchio, il turbamento se le specie consacrate o no cadono a terra, l’abitudine di segnarsi col segno di croce nei vari momenti della giornata.
Il contesto immediato ci da una sola informazione: le «oblazioni per i defunti» erano una delle consuetudini cristiane, praticate nel giorno anniversario («annua die facimus») e in considerazione della «nascita alla vita eterna» («pro nataliciis»).
C) L’ESAME DELLE SINGOLE ESPRESSIONI DEL TESTO
Nel c. III, dunque, non troviamo più di una semplice informazione e, a differenza di quanto fa per il battesimo (cf. 3, 2s), Tertulliano non indulge alla minima descrizione, né torna sull’argomento nel corso dell’opera. Tuttavia il vocabolario impiegato ci consente alcune riflessioni.
1. OBLATIONES PRO DEFUNCTIS
Il termine oblatio indica in senso generale l’offerta o l’azione dell’offrire: questa accezione è ampiamente testimoniata nella letteratura cristiana più che in quella pagana e fu prediletta per indicare l’offerta sacra in particolare: significato specifico, dunque, condizionato pressoché totalmente dal sacrificio di Gesù che si offre come vittima per la salvezza del mondo. Di fatto nei testi patristici il termine oblatio è corrispondente di thysìa e di prosphorà, sostantivi che indicano rispettivamente sacrificio ed offerta[4], talora anche in senso spirituale (cf. Tert., De Orat. 9, 2; De virg. vel. 13, 2).
Connesso al dato cristologico, il termine divenne sempre più inscindibile dall’elemento «pane» e «vino» in riferimento alle offerte consacrate e quindi anche da solo indicò il sacrificio eucaristico. Quest’ultimo è il significato da accettare anche nella espressione «oblationes pro defunctis» di 3, 3 del De corona, sebbene nelle versioni si preferisca mantenere i termini «offerte» o «oblazioni», senza tradurre esplicitamente con «sacrificio eucaristico» e senza attribuire necessariamente a questa terminologia il concetto di «messa» come lo intendiamo oggi e nelle sue attuali componenti liturgiche.
Dal lessico di Tertulliano (su esame di tutte le opere) emergono tredici presenze del termine oblatio, di cui dieci avrebbero il significato di «eucaristia» e tra queste appunto il nostro «oblationes pro defunctis». A confermare questo significato valgono due argomentazioni: primo, il contesto è liturgico, o, più esattamente, rievoca alcune prassi liturgiche; secondo, nel nostro passo non si potrebbe alludere ad altre «offerte» nel senso di semplice presentazione di doni o di espressioni analoghe, poiché Tertulliano stesso condanna esplicitamente quei rituali pagani in cui la presentazione dei doni per i defunti costituiva una prassi comune (cf. De Cor. 10, 1-5). Le offerte funerarie (nel senso di doni portati in memoria) «sono sempre presentate da Tertulliano come pagane e proibite ai cristiani; né è possibile che proprio nel momento in cui egli compie il rilancio montanista del cristianesimo, abbia potuto attribuire ai cristiani un costume a loro proibito»[5].
Quale significato va allora attribuito al termine oblationes in De Corona 3, 3?
Dobbiamo ricordare anzitutto che oblata/oblatio/oblatus sono forme derivate da offerre, verbo che assunse anch’esso un significato speciale nella lingua della chiesa, quello di «offrire a Dio»[6]. Ci si può chiedere ora perché Tertulliano abbia preferito usare il termine oblatio anziché eucharistia, che è il termine tecnico liturgico. La scelta si può giustificare in base al vocabolario usato immediatamente sopra, quando prima di citare le «oblationes pro defunctis», si nomina il «sacramentum eucharistiae», come sacramento che si riceve «nelle assemblee antelucane e solo per mano di coloro che presiedono» (cf. 3, 3). Ciò fa supporre che Tertulliano preferisca il termine «eucharistia» per indicare il cibo consacrato di cui si nutrono i fedeli e non per indicare l’insieme della liturgia eucaristica[7]. Il termine «oblationes» resta quindi equivalente e sinonimo del termine «eucharistia» e indica quel momento assembleare in cui i cristiani si riuniscono per celebrare il memoriale della passione e spezzare il pane: questa infatti fu – ed è tuttora – l’«offerta» per eccellenza del seguace di Cristo[8]. Inoltre, nel nostro passo, le «oblationes» sono determinate e specificate dal complemento «pro defunctis». Non si attesta semplicemente un culto dei morti, ma un atto religioso «in favore» di essi e, più esattamente, «per il giorno della (loro) nascita».
2. PRO NATALICIIS
Anche se il termine «natalicium» è coniato da Tertulliano, riproduce un concetto e una realtà fortemente presenti nella cristianità dei primi secoli; il giorno della morte infatti era il giorno di colui che, avendo creduto, nasceva alla «nuova vita»[9]. Bene traduce C. A. Rapisarda quando interpreta il nostro «pro nataliciis» con la proposizione finale «per celebrarne la natività»[10]. La data della morte non era ricordata come scomparsa da questo mondo, ma come ingresso alla «vera vita». Nello stesso modo in cui i pagani «festeggiavano il compleanno, così i cristiani celebravano con l’offerta del pane consacrato, l’anniversario della morte, considerata come “dies natalis” alla vita celeste»[11].
Sulla certezza dell’ingresso alla vita eterna non poco, se non del tutto, influì la morte nel martirio: colui che nel sangue aveva dato la sua vita testimoniando la fede, rinasceva in Cristo e conquistava la vita eterna. Tertulliano, vissuto in periodo di persecuzione, possiede profondamente questa dimensione escatologica; di conseguenza, e giustamente, ogni cristiano che muore, nasce alla vita eterna nel giorno stesso della sua morte. Si noti che nel De corona è scritto «pro defunctis» e non «pro martyribus»; ciò indica che il «dies natalis» o i «natalicia» segnano la nuova vita per ogni cristiano, non solo per colui che ha testimoniato nel sangue. «Presentare oblazioni» è celebrare la pasqua di Cristo per colui che, morto a questa vita, nasce alla vita eterna.
3. ANNUA DIE FACIMUS
Le «oblazioni» avvengono nel giorno anniversario della morte o, più correttamente, nel giorno in cui si commemora il passaggio del defunto alla nuova vita. A quanto leggiamo nel De corona, si tratta di una consuetudine ormai inveterata o, per lo meno, antica quanto il rituale del battesimo, il sacramento dell’eucaristia, la pratica del digiuno. È una tradizione che poggia sull’autorità della consuetudine («solius traditionis titulo et exinde consuetudinis patrocinio»: 3, 2) e, pertanto, da supporre vigente fin dalle origini del cristianesimo.
Quanto a una collocazione precisa nel calendario liturgico del tempo, non ci sembra esatto tradurre «annua die» con «ogni anno», quasi ad intendere che vi fosse stato un giorno stabilito durante l’anno in cui «presentare le oblazioni per i defunti»; dal testo di Tertulliano non emerge nessuna testimonianza a favore di questa interpretazione cronologica. Ci pare invece più logico interpretare «annua die» «nel giorno anniversario», lasciando supporre che durante l’anno potessero essere presentate più oblationes, a seconda dei defunti di cui s’intendeva celebrare il «natalicium»[12]. Ciò non esclude, tuttavia, che possa essere stato fissato anche un giorno particolare per la commemorazione di tutti i defunti, ma questo non possiamo assolutamente stabilirlo sulla base del nostro testo.
Che si tratti di più «oblazioni» anniversarie lo confermano anche altri due testi di Tertulliano (citati spesso come testi paralleli al nostro); in De exhortatione castitatis 2, 1 si legge: «pro qua (= uxore defuncta) oblationes annuas reddis» («per lei sposa defunta presenti oblazioni anniversarie») e in De monogamia 10, 4 è scritto: «offert annuis diebus dormitionis suae» («presenta oblazioni nell’anniversario del giorno in cui si è addormentata»). Mentre nel primo testo l’espressione «oblationes annuas reddis» è del tutto simile al nostro «oblationes,.. annua die facimus», nel secondo il verbo «offert» può lasciare intendere che ci fosse un altro rituale di «offerte per il defunto» oltre quello «eucaristico». A noi interessa rilevare però che l’aggettivo «annuus» è presente in tutti e tre i testi e solo in De cor. 3, 3 è riferito ai defunti in genere, mentre in De exhort. cast. 2, 1 e in De monog. 10, 4 è riferito rispettivamente alla moglie e al marito o, più esattamente, per il giorno anniversario della morte della moglie e per il giorno anniversario della morte del marito. In nessuno dei tre passi si allude a un solo giorno specifico nell’anno dedicato alle «oblationes pro defunctis»; piuttosto se ne parla come rituale per ciascuno dei defunti.
CONCLUSIONE
A quanto si legge in Tertulliano, sulla base del De corona in particolare, si deduce che fino dall’inizio del III sec., oltre alla liturgia eucaristica domenicale, si sia scandita periodicamente quella per i defunti, segnando nel calendario e nella prassi liturgica cristiana dei giorni specifici per la commemorazione di coloro che erano «nati» alla vera vita[13]. Addormentarsi nella speranza della risurrezione è la concezione escatologica che distigue il cristiano e che rivela il punto culminante della sua fede, il fine assoluto del suo credo (cf. I Cor 15, 12-18; I Ts 4, 13-17). Le «oblationes prodefunctis» testimoniano, fin dai primi tempi del cristianesimo, il modo più speciale, esclusivo del cristiano, per commemorare il fratello scomparso; e come l’eucaristia domenicale è la massima espressione liturgica cristiana, così, necessariamente, diventa la forma cultuale più significativa per celebrare colui che, morendo, ha già iniziato la sua escatologia nell’attesa della risurrezione; «discis mori et vivere, discis vigilare dum dormis» (Tert., De anima 43, 12). Da allora ad oggi i fedeli hanno continuato ad esprimere la speranza della risurrezione partecipando insieme ai morti dello stesso unico Cristo. Nella certezza del Risorto la vita dei fratelli che offrono il sacrificio si unisce a quella di coloro che sono già entrati nella «nuova vita».
[1] Fontaine J., La letteratura latina cristiana, trad. S. D’Elia, coll. «Saggi, 127». Bologna 1973, 41.
[2] Ibid.
[3] Moreschini C., Opere scelte di Quinto Settimio Florente Tertulliano, coll. «Classici delle Religioni, sez. IV: La religione cattolica», Torino 1974, 67.
[4] Moreschini C., Opere scelte di Quinto Settimio Florente Tertulliano, coll. «Classici delle Religioni, sez. IV: La religione cattolica», Torino 1974, 67.
[5] Così afferma Saxer V., Morts Martyrs Reliquees en Afrique Chrétienne aux premiérs siècles. Les témoignages de Tertullien, Cyprien et Augustin a la lumière de l’archéologie africaine, coll. «Théologie historique. 55». Paris 1980. 73.
[6] Si legga, s.v., in Ernout A.-Meillet A., Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, Paris 1959, 455 (si veda anche per il significato di «oblata» = «bestia»).
[7] Quanto poi al termine «messa», al suo significato e alle sue denominazioni, si veda l’ottimo lavoro di Jungmann I.A., Missarum Sollemnia, I. trad. Benedettine S. Paolo, Sorrento, Torino 1963: in particolare, 147-152.
[8] Né va dimenticato che le oblationes cotidianae fidelium – intese come offerte portate dai fedeli all’altare durante le messe funebri per partecipare «più intimamente» al sacrificio – sono attestate molto più tardi in documenti medioevali: cf. Jungmann I.A., o.c., II, 22.
[9] Apax in Tertulliano (De Cor. 3, 3); cf., inoltre, Agostino, Serm. 4, 33. 36; 4, 34, 37; 351. 4. 11: Psalm. 88. 1, 7; Ep. 108, 5.
[10] Rapisarda C.A., Quinto Settimio Florente Tertulliano. La corona (testo e trad.) in Orpheus 21 (1974), 74.
[11] Cf. Fontaine J., Q. Septimi Florentis Tertulliani. De Corona (Ed. Introd. et comm.). coll. «Erasme, 18». Paris l966, 67.
[12] Si ricorderanno a tale proposito i martirologi, i calendari liturgici nei quali veniva annotato il «dies natalis» del martire e che costituirono, nella letteratura del martirio, il documento cui riferirsi per la commemorazione dei martiri e in base al quale iniziò e fu protratto nei secoli, fino ad oggi, il loro culto.
[13] Subito dopo Tertulliano, cf. ad. es., Cipriano. Epistola 63. 9 e, più tardi, Ambrogio, Epistola 7, 3; Girolamo, Epistola 18, 17. Non è superfluo ricordare che Cipriano ed Agostino usano quasi sempre il termine sacrifìcium «per indicare la celebrazione della messa. Quanto profondamente sia entrato poi nel linguaggio ecclesiastico del primo medioevo, lo si vede dal fatto che i libri penitenziali indicano come mancanze al sacrificium quelle commesse nei confronti delle specie sacramentali. In altri luoghi prevale invece il termine oblatio. Così la Pellegrina aquitana parlando della celebrazione della messa nelle sue peregrinazioni, usa sempre oblatio ed offerre. Fino al VI secolo la messa viene designata comunemente con la parola oblatio» (Jungmann I.A., o.c., 1, 148).