Giovanni Romanidis

IL FILIOQUE

 

Questo intervento è interamente dedicato alla famosa questione del Filioque. Il rifiuto ortodosso di tale asserto teologico non trae motivazione da sottigliezze filosofiche ma dalla coscienza che tale realtà ha un impatto nel dogma e, a sua volta, nella vita della Chiesa e dei singoli credenti. In Occidente lo Spirito Santo viene ritenuto come l’amore che si scambiano il Padre e il Figlio per cui, anche in questo senso, la terza Persona della Trinità procede da entrambi. L’autore sostiene che tale attribuzione è un errore che affonda le sue radici in sant’Agostino e nella teologia franco-germanica. Verrebbe quindi confuso ciò che lo Spirito ha con ciò che lo Spirito è. Con il prevalere di questa confusione in Occidente, si è sviluppata un’ignoranza effettiva su ciò che lo Spirito rappresenta per la vita della Chiesa e del credente. Così mentre in Oriente il fine del cristianesimo consiste nel condurre il credente ad un’esperienza mistica nella Grazia dello Spirito, in Occidente il fine si è ridotto nel conquistare il mondo e nel vivere virtuosamente in vista di una ricompensa ultraterrena. Se nel passato ciò è avvenuto con l’imposizione, nel presente avviene attraverso un’opera di convincimento mediata da un’intensa azione umanitaria e sociale.
 
 

Lo sfondo storico

Dobbiamo subito notare che non c’è mai stata una controversia sul Filioque tra i romani occidentali e quelli orientali[1]. Semmai, ci sono stati litigi nazionali sui dettagli della dottrina cristologica e sulla dottrina dei sinodi ecumenici riguardo alla persona di Cristo. I romano-occidentali hanno sostenuto la causa delle icone definita nel settimo sinodo ecumenico, ma mai il Filioque franco, né come dottrina né come aggiunta al Credo. La controversia del Filioque non fu un conflitto tra il patriarcato dell’Antica Roma e quello della Nuova, ma tra i franchi e tutti i romani sia orientali che occidentali.

Come abbiamo visto nella prima parte, è evidente che l’origine della controversia sul Filioque consistette nella decisione franca di far condannare i romano-orientali per eresia. Dalla condanna i franchi avrebbero tratto la giustificazione che i romani d’Oriente erano diventati esclusivamente “greci”. Essi, quindi, erano una nazione diversa dall’Occidente romano sotto il possesso franco. Il pretesto della controversia sul Filioque consistette nell’accettazione franca della dottrina agostiniana come chiave di comprensione della teologia del primo e del secondo sinodo ecumenico. La correttezza della distinzione tra causa e pretesto, emerge abbastanza chiaramente dalla prassi seguita al sinodo di Francoforte nel 794 dove furono condannate ambo le parti della controversia iconoclasta.

Con tale condanna i romano-orientali sarebbero stati definiti comunque eretici, qualsiasi decisione fosse prevalsa sull’argomento.

I franchi hanno provocato intenzionalmente le differenze dottrinali per rompere l’unità nazionale ed ecclesiastica della nazione romana, separando così, una volta per tutte, i romano-occidentali rivoluzionari dalla legge dei romano-orientali. I romani liberi, divenendo eretici, avrebbero apparentemente cambiato nazionalità. Così essi avrebbero trasferito la loro capitale dall’Antica Roma alla Nuova preferendo la lingua greca alla latina. In questi termini si esprimeva, nell’871, l’imperatore Luigi II nei riguardi dell’imperatore Basilio I in una lettera che abbiamo già esaminato.

Con questa deliberata politica la questione sul Filioque doveva assumere una dimensione irreparabile. Fino ad un certo periodo il Filioque rimase solo un’arma politica franca senza trasformarsi in controversia teologica perché i romani avevano fiduciosamente creduto che il papato potesse dissuadere i franchi dal loro inconsistente approccio dottrinale. Quando divenne chiaro che i franchi non si sarebbero ritirati da queste tattiche politico-dottrinali, i romani accettarono la sfida e condannarono sia il Filioque franco che l’eresia sulle icone nell’ottavo sinodo ecumenico dell’879 tenutosi a Costantinopoli, la Nuova Roma.

Nei secoli seguenti, perdurando la controversia, i franchi non solo ridussero la tradizione patristica al modello agostiniano, ma confusero pure la terminologia trinitaria di Agostino con quella dei Padri del primo e del secondo concilio ecumenico. Ciò non è in nessun luogo tanto evidente quanto nel concilio di Firenze (1438-42) dove fu manomessa la descrizione di Massimo il Confessore, composta nel 650, riguardo al Filioque romano ortodosso occidentale. I romano-orientali esitarono a presentare la lettera che Massimo inviò a Marinos su questo argomento poiché lo scritto non è sopravvissuto integralmente. Essi rimasero piacevolmente sorpresi quando Andrea, vescovo latino di Rodi, citò la lettera in greco per verificare che al tempo di Massimo il Confessore non c’era alcuna obiezione al Filioque visto che ancora non era inserito nel Simbolo. Andrea tradusse lo scritto di Massimo in latino a beneficio del papa. A questo punto intervenne il traduttore ufficiale per cancellare la sua interpretazione. Quando fu stabilita la corretta traduzione, i franchi si interrogarono sull’autenticità del testo. Essi presumero che il Filioque fosse peculiare solamente all’Occidente e così rigettarono la lettera in oggetto come base per l’unione.

Eppure quando Massimo parlò del Filioque ortodosso, citò alcuni padri romani tra i quali c’era san Cirillo d’Alessandria poiché con il termine di “padri romani” egli non intendeva solo coloro che furono poi definiti come “padri latini”.

Il fanatismo con il quale i romani si strinsero al papato e la lotta dei romani per conservare quest’istituzione con la sua gerarchia nei confini della nazione romana, sono fatti storici molto noti e vengono descritti dettagliatamente nelle storie medievali.

Comunque, l’identità romana occidentale ed orientale era quella d’una nazione indivisibile che si riconosceva nella fede definita dai sinodi ecumenici romani. Tale identità fu conservata nella parte orientale dell’Impero mentre fu completamente persa dai romani occidentali e dagli storici di orientamento germanico dal momento in cui essi utilizzarono prevalentemente i termini “greci” e “bizantini”.

Gli storici europei sono stati risucchiati dalla prospettiva franca e questo spiega perché la storia della Chiesa non viene trattata considerando l’unità e l’indivisibilità della nazione romana nella cui parte occidentale s’è consumata la divisione ecclesiale per opera dei conquistatori germanici. Invece, gli storici preferiscono trattare la storia nei termini d’una Cristianità greca distinta da una Cristianità latina. La Cristianità greca consisterebbe apparentemente nei romani orientali, mentre quella latina, consisterebbe apparentemente nei supposti romano-occidentali, nelle popolazioni franco-germaniche che utilizzarono il latino e nella Romània papale, ossia nei cosiddetti Stati papali.

In tal modo è stato creato il mito storico d’una linea continua e storicamente ininterrotta che, partendo dai padri romano-occidentali della Chiesa, è proseguita con i franchi, i lombardi, i burgundi, i normanni, ecc. Tale linea ha contraddistinto la Cristianità latina separandola e diversificandola chiaramente dalla mitica Cristianità greca. La cornice di riferimento, accettata senza riserve dagli storici occidentali per così tanti secoli, è stata quella dell’ “Oriente greco e Occidente latino”.

Una comprensione più accurata della storia ci presenta la controversia del Filioque nella sua vera prospettiva storica basata sulla storia ecclesiastica romana fondata nelle fonti romane (sia latine che greche), come in quelle siriane, etiopi, arabe e turche. Su questo punto c’è una distinzione tra la Cristianità franca e quella romana e non tra una mitica Cristianità latina e una Cristianità greca. La latina e la greca erano lingue nazionali, non nazioni. In tal modo i padri non sono né latini né greci ma romani.

Avendo questo sfondo storico in mente, si può apprezzare il significato di diversi fattori storici e teologici posti sotto la cosiddetta controversia del Filioque. Questa controversia consisteva essenzialmente nel proseguimento germanico dello sforzo franco teso a controllare non solo la nazione romana, ma anche il resto di tale nazione e dell’Impero.

Approfondisco l’approccio storico con i punti seguenti:

1) Le differenze dottrinali che esistono tra sant’Ambrogio e sant’Agostino sono un riassunto delle differenze tra i metodi e le dottrine teologiche franche rispetto a quelle romane. Questa è davvero una strana scoperta se si pensa che, da un lato, Agostino sembra sia stato amico e allievo di Ambrogio e che, dall’altro, il vescovo di Milano l’abbia istruito e battezzato. Dalla comparazione tra i due sono giunto alla conclusione che Agostino non abbia prestato molta attenzione ai sermoni ambrosiani e abbia, evidentemente, letto ben poco i suoi scritti.

I due differiscono radicalmente sulle questioni dell’Antico Testamento riguardo al Logos, sull’esistenza degli universali, sulla struttura generale della dottrina trinitaria, sulla natura della comunione tra Dio e l’uomo, sulla maniera con la quale Cristo rivela la sua divinità agli apostoli e, in genere, sulla relazione tra dottrina e speculazione o tra Rivelazione e ragione. Un motivo è il seguente: Ambrogio segue chiaramente i padri romano-orientali mentre Agostino segue la Bibbia interpretandola con una struttura plotiniana e sotto l’influenza del suo passato manicheo.

2) La provincia delle Gallie era il terreno di battaglia tra i seguaci di Agostino e quelli di san Giovanni Cassiano, al momento in cui i franchi prevalsero sulla provincia romana trasformandola in “Francia”. Attraverso il suo movimento monastico e i suoi scritti teologici e cristologici, san Giovanni Cassiano riuscì ad irradiare una forte influenza anche sulla Chiesa dell’Antica Roma. Nella sua personalità come in quelle di Ambrogio, Girolamo, Rufino, Leone Magno e Gregorio Magno, si riscontra un’identità dottrinale, teologica e spirituale tra l’Oriente e l’Occidente cristiano. Nell’area romano-occidentale la struttura del pensiero agostiniano è stata sottoposta al quadro generale della teologia romana. Nell’area romano-orientale Agostino è stato semplicemente ignorato.

3) In contrasto con la teologia romana occidentale ed orientale, la tradizione teologica franca fece la sua apparizione nella storia caratterizzandosi per la profonda conoscenza e la prevalente lettura delle opere di Agostino. Quando i franchi incontrarono gli scritti latini e greci di altri padri romani, li subordinarono totalmente all’autorità delle categorie agostiniane. Similmente, i dogmi promulgati dai sinodi ecumenici sono stati sostituiti dalla loro comprensione agostiniana.

4) Questo quadro teologico di riferimento formatosi nella struttura feudale, diede ai franchi la fiducia di possedere la migliore teologia, non solo perché essi si riferirono al più grande Padre del periodo patristico che la Cristianità latina (cioè franca) avesse mai considerato, ma anche perché, come i popoli germanici, si qualificarono di nobile razza e superiori ai romani, ai “greci” (i romano-orientali) e agli slavi grazie alla loro stessa natura e alla loro nascita. Il logico risultato di questa superiorità – che sarebbe stata insita nelle razze germaniche, specialmente dei franchi, dei normanni, dei lombardi ed infine dei tedeschi –, avrebbe prodotto una teologia migliore di quella romana. Così, la tradizione scolastica dell’Europa germanica superava quella del periodo patristico romano. Personalmente non posso trovare altra giustificazione alla rivendicazione della superiorità teologico-scolastica occidentale rispetto a quella patristica, superiorità particolarmente popolare fino ad alcuni anni fa.

5) Questa distinzione deriva da un secondo fattore che è passato inosservato nei manuali europei, russi e “greci” moderni, cioè l’identificazione della teologia germanica o franca con il linguaggio latino della teologia romana. Le due realtà vengono identificate sotto la denominazione di “Cristianità latina”.

La comparsa storica della teologia franca coincise con gli inizi della controversia sul Filioque. Riguardo a tale problema, la Chiesa assunse spesso una posizione chiara dai Padri romani, così come fece sulla questione delle icone inizialmente condannate dai franchi. I franchi considerarono esaurito il periodo della teologia patristica, in Oriente, con san Giovanni damasceno (dopo che essi ebbero accettato il settimo concilio ecumenico) e, in Occidente, con Isidoro di Siviglia. Così, l’Impero romano non poté più produrre alcun Padre a causa della sua opposizione al Filioque. I franchi, allora, dedussero che tale opposizione escluse automaticamente i romano-orientali dal tronco principale del cristianesimo il quale ora coincideva con la Cristianità franca. Questo parere si consolidò particolarmente quando i franco-orientali espulsero i romani dal papato invadendolo.

6) Dal punto di vista romano, comunque, la tradizione romana dei Padri non solo non terminò nell’ottavo secolo, ma proseguì addirittura rigogliosamente nella Romània orientale libera e nelle zone occupate dagli arabi. La presente ricerca conduce alla conclusione che il periodo patristico romano si sia esteso lungo tutto il periodo della dominazione ottomana dopo la caduta di Costantinopoli, la Nuova Roma. Questo significa che l’ottavo sinodo ecumenico sotto il patriarca Fozio (879), i cosiddetti sinodi palamiti del quattordicesimo secolo e i sinodi del patriarcato di Costantinopoli durante il periodo ottomano, sono la continuazione e l’integrazione della storia teologico-patristica. Essi sono pure la continuazione della tradizione romana cristiana senza il patriarcato dell’Antica Roma che, dopo esser stato conquistato nel 1009, ha cessato d’essere romano per divenire un’istituzione franca[2].

7) Senza mai menzionare i franchi, l’ottavo sinodo ecumenico dell’879 condannò contemporaneamente sia chi avesse aggiunto che chi avesse sottratto qualche articolo dal Simbolo niceno-costantinopolitano condannando egualmente chi non avesse ancora accettato il settimo sinodo ecumenico.

Si deve sottolineare che questo è il primo esempio nella storia e nei sinodi ecumenici dove si condannano gli eretici senza nominarli. Nel caso specifico gli eretici sono chiaramente i franchi.

È pure significativo che il Commonitorium al sinodo ecumenico di Papa Giovanni VIII non menzioni il bisogno di condannare coloro che introducevano o levavano qualche formula dogmatica dal Credo.

Alla fine degli atti sinodali viene solitamente pubblicata una lettera di papa Giovanni al patriarca Fozio nella quale il Filioque viene vigorosamente condannato ed è descritto come un’interpolazione diffusa recentemente, ma non nella Chiesa di Roma. La lettera auspica che l’ammonizione papale sia utilizzata per la rimozione dell’abuso evitando attentamente aspri confronti che generino ulteriori complicazioni.

È stato evidenziato che la versione attuale della lettera è un prodotto del quattordicesimo secolo. Tuttavia, la versione esistente collima perfettamente con le condizioni della Romània papale sotto la dominazione franca durante il pontificato di Giovanni VIII. Tali condizioni non potevano essere conosciute da alcun franco o romano-orientale del quattordicesimo secolo.

Il potere dei franchi sopra il Papato, benché non completamente dissolto dopo la morte di Carlomagno avvenuta nell’814, fu in ogni caso indebolito con la spartizione del suo Impero e con la riconquista prima saracena e poi romana (876) della Romània sud-italica. Comunque nell’879, il potere romano non era assicurato così stabilmente da permettere al Papato una guerra dottrinale contro i franchi. L’aperto conflitto avrebbe comportato la trasformazione della Romània papale in ducato franco. In tal modo la condizione sociale della popolazione romana sarebbe decaduta al livello di quella dei romani conquistati nelle altre parti occidentali della Romània. Naturalmente tra le imposizioni sociali si sarebbe inclusa quella teologica del Filioque nel Credo, nel modo paventato da papa Giovanni.

Dopo la morte di Carlomagno, sembra che i papi romani avessero guadagnato una particolare influenza sui regni franchi i quali riconoscevano ad essi particolari poteri magici che si trasmettevano attraverso l’unzione regale all’imperatore occidentale per cui quest’ultimo non sarebbe stato semplicemente un re ma avrebbe assunto la dignità dell’Imperatore orientale. Pare che Giovanni VIII fosse stato particolarmente convincente su questo aspetto e non c’è dubbio che la sua persuasione sulla rimozione del Filioque espressa a Fozio si fosse basata su una reale possibilità di successo.

8) Gli studiosi protestanti, anglicani e latini hanno sempre affermato che, dal tempo di Adriano I o da Leone III, attraverso il periodo di Giovanni VIII, il Papato si è opposto al Filioque solo come aggiunta al Credo e mai alla dottrina o all’opinione teologica. In tal modo si afferma che Giovanni VIII ha accolto la condanna del Filioque espressa dall’ottavo sinodo ecumenico come aggiunta al Credo e non come insegnamento.

Comunque, sia Fozio che la lettera menzionata di Giovanni VIII allo stesso patriarca, testimoniano la condanna di questo papa anche alla dottrina filioquista. Ripetiamo: il Filioque non poteva ancora essere pubblicamente condannato come eresia dall’Antica Roma semplicemente perché i franchi controllavano militarmente la Romània papale e, come barbari analfabeti, erano capaci d’ogni genere di criminalità contro il clero e il popolino romano. I franchi erano una presenza pericolosa nella Romània papale per cui si è dovuto procedere con grande tatto e cura.

La Romània gallica, italica (inclusa quella papale) e quella orientale erano per i romani un unico paese. I movimenti di conquista dei franchi, lombardi e normanni nelle parti libere della Romània viene visto, dal punto di vista romano, come l’invasione di un corpo unico. I romani non avevano l’opinione dei conquistatori germanici, secondo la quale dovevano essere felici per essere stati invasi e liberati dai cosiddetti greci o bizantini. Secondo quest’idea i romano-occidentali sottomessi non avrebbero dovuto generare alcuna preoccupazione ai loro connazionali nella Romània libera.

9) La precedente descrizione offre i corretti riferimenti per comprendere il contesto storico della controversia filioquista. In questo quadro si comprende pure la politica seguita dai papi romani nel conflitto teologico, politica costante dal tempo di Pipino fino ai discendenti dei teutonici o franco-orientali nel 962-963, politica sconfitta al momento in cui avvenne la rimozione dei papi romani conclusa nel 1009. Notiamo, allora, i seguenti punti significativi:

a. le posizioni dottrinali di Anastasio il Bibliotecario, consulente principale di Nicola I (pro-franchi) come pure di Giovanni VIII, in preparazione all’ottavo sinodo ecumenico dell’879 rappresentanti il recente ripristino del potere romano sul papato;

b. gli atteggiamenti verso il Filioque dell’antipapa Anastasio il Bibliotecario (855-858) e del papa Leone III.

È ovvio che Anastasio il Bibliotecario non fu il primo a capire il Filioque franco. Così egli rampognò i “greci” per le loro obiezioni accusandoli di rifiutare il chiarimento di Massimo il Confessore che, nella dottrina del Filioque, indicò due differenti significati. Nel primo, la processione comporta essenzialmente la missione per cui lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Qui lo Spirito Santo viene partecipato nell’atto d’essere inviato [verso la creazione], cosicché questa è un’operazione comune a tutta la Trinità. Nel secondo, la processione comporta la relazione causale con il Padre da cui viene dedotta l’esistenza dello stesso Spirito Santo. In questo stretto senso, Massimo assicurò Marinos (a cui stava scrivendo), che i romano-occidentali accettavano solo il Padre come unica fonte generante lo Spirito Santo e che il Figlio non ne era la causa.

Esiste ogni ragione per credere che questo pensiero rifletta la posizione di Nicola I sull’argomento.

Questa, comunque, non fu la posizione seguita dai franchi. Essi non aderirono ai romano-occidentali ma ad Agostino. L’insegnamento agostiniano, infatti, può essere facilmente interpretato come se lo Spirito Santo, oltre all’essenza, riceva pure l’esistenza dal Padre e dal Figlio.

Ciò implica ulteriormente che i romano-occidentali non accettassero l’introduzione del Filioque nel Credo. L’inammissibilità di tale formula non era sostenuta da un rispetto umano (non arrecare un dispiacere ai “greci”) ma dalla sua evidente eresia. Perciò i romano-occidentali avrebbero dovuto conoscere molto bene che il termine “processione” nel Credo è stato introdotto contemporaneamente a quello di “generazione”. In tal modo ambedue sono stati intesi in relazione causale col Padre escludendo, quindi, il significato di energia o missione[3].

La confusione avuta dai franchi su questa questione, confusione tale da fargli assumere posizioni pericolose, spinse Anastasio ad una seria rivalutazione dalla minaccia franca e ad appoggiare la posizione romano-orientale, chiaramente rappresentata da Fozio il Grande e Giovanni VIII all’ottavo concilio ecumenico dell’879.

L’interpretazione ortodossa del Filioque, espressa da Massimo il Confessore ed Anastasio il Bibliotecario, è la posizione costante dei papi romani, come chiaramente risulta nel caso di Leone III. La conversazione tra i tre apocrisari di Carlomagno e papa Leone III, tenutasi nell’810, è stata trascritta dal monaco franco Smaragdo[4]. Da questo dialogo spicca la consistenza della politica papale. Leone accettò l’insegnamento dei Padri, citato dai franchi , in particolare quello di Agostino e di Ambrogio per i quali lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Tuttavia, il Filioque non doveva essere aggiunto al Simbolo com’era stato fatto dai franchi[5]. Costoro ottennero da Leone solo il permesso di cantare il Credo, non quello di introdurgli delle aggiunte.

Quando si legge questa conversazione, si ricorda che i franchi erano una presenza pericolosa nella Romània papale. Essi, se provocati, erano capaci di azioni molto crudeli e barbare. Allora è evidente che, per Leone III, il Filioque nel Credo fosse un’eresia. È quanto emerge in filigrana dai termini chiari e diplomatici del suo discorso ai franchi.

E cos’altro potrebbe suggerire la rivendicazione di Leone sull’esclusione del Filioque dal Credo voluta dal secondo concilio ecumenico e dagli altri concili; esclusione causata “non da svista o da ignoranza ma da ispirazione divina”?

Questa posizione teologica è anche quella di papa Adriano I (772-795) e dei sinodi di Toledo[6] dove il Filioque non compare nel Credo [niceno-costantinopolitano] ma viene inserito in un altro contesto.

10) Una volta che i franchi ebbero garantito il loro possesso sulla Romània papale, il papato divenne come un “topo afferrato tra le zampe” del suo nemico tradizionale, il gatto. Allora i franchi conobbero molto bene quanto catturarono. Cominciarono, così, a sviluppare teorie e politiche ecclesiastiche per usufruire al massimo di quest’istituzione romana. Essa, in tal modo, veniva sfruttata in funzione d’un controllo territoriale franco su possedimenti precedentemente romani e in funzione di nuove conquiste. L’Occidente franco ha proseguito la tattica di Carlomagno, ma senza gran determinazione. In tal maniera i romani hanno riguadagnato il pieno controllo del papato dall’867 fino a quando l’Oriente franco non è subentrato nella scena papale dal 962 con i noti risultati.

Gli atteggiamenti dell’Occidente e dell’Oriente franco verso il papato e il Filioque furono diversi: il primo era moderato; il secondo fanaticamente inflessibile. Una delle importanti cause che determinarono questo energico stile sono stati i movimenti di riforma che, dal 920, guadagnarono sufficiente slancio da poter plasmare la politica germanica con la quale il Papato fu sopraffatto. Quando i romani persero il Papato, il Filioque fu per la prima volta introdotto a Roma nel 1009 o, al massimo, nel 1014.

Quanto sopra illustrato non è la consueta esposizione degli storici europei, americani e russi. Per essi il Filioque è una parte integrante della cosiddetta Cristianità latina alla quale si oppone la Cristianità “greca” col pretesto dell’inserzione nel Credo. Gli storici, allora, suppongono che i papi abbiano rifiutato il Filioque non per un motivo dottrinale ma unicamente come aggiunta al Simbolo per non offendere i “greci”. Ciò che emerge dal presente studio è l’unità della nazione occidentale ed orientale romana, opposta ad un gruppo di razze germaniche predatrici che iniziarono ad insegnare ai romani ancor prima d’aver veramente imparato qualche cosa da loro. Naturalmente gli insegnanti germanici sarebbero stati molto convincenti su questioni dogmatiche: bastava che tenessero un coltello alla gola dei loro allievi! Per il resto, specialmente nel tempo dell’imposizione del Filioque, i teologi della nuova teologia germanica si sarebbero differenziati dai loro nobili compagni solo perché potevano leggere e scrivere e avevano, forse, memorizzato Agostino.

11) La scissione tra il papato romano e quello franco non è così evidente in nessun luogo come nella pseudo-unione del concilio di Firenze (1439) quando i romani presentarono ai franchi l’interpretazione di san Massimo il Confessore sul Filioque per un possibile accordo. I franchi non solo rigettarono questa interpretazione ritenendola falsa e difforme alla dottrina franco-latina, ma, addirittura, erano inconsapevoli della sua corretta interpretazione.
 
 

Lo sfondo teologico

A fondamento della controversia sul Filioque tra i franchi e i romani, si trovano essenziali differenze di metodo, d’argomento teologico, di spiritualità, e perciò, di comprensione sulla vera natura dottrinale e sullo sviluppo linguistico dei termini con i quali veniva espressa la dottrina medesima. Di tutti gli aspetti esposti nei miei lavori pubblicati, sceglierò il seguente in quanto necessario per un’elementare comprensione degli atteggiamenti romani davanti alle pretese filioquiste franche. Benché questo capitolo sia denominato “Lo sfondo teologico” parliamo ancora di teologia in una prospettiva storica e non astratta utilizzando ulteriori riferimenti contestuali dalla Bibbia.

Quando si leggono i verbali di Smaragdo sull’incontro degli emissari di Carlomagno con papa Leone III, si rimane colpiti non solo dal fatto che i franchi avevano aggiunto audacemente il Filioque al Credo facendo di esso un dogma, ma anche dall’altezzosa maniera con la quale essi avevano autoritativamente annunciato che il Filioque era necessario per la salvezza, essendo un miglioramento d’una buona ma incompleta dottrina riguardo allo Spirito Santo.

Questa era l’audace risposta con la quale essi ribatterono al suggerimento di Leone. D’altronde Leone li aveva avvertiti che quando si tenta di migliorare ciò che è buono si deve essere certi di non corromperlo nel tentativo d’esplicitarne il contenuto. Leone sottolineò di non poter porsi su una posizione più alta rispetto ai Padri sinodali i quali omisero il Filioque non per una loro svista o per ignoranza ma per ispirazione divina.

A questo punto si impone la seguente domanda: la nuova teologia franca da chi assunse l’idea che il Filioque è un miglioramento del Credo e che fu omesso dall’espressione del Simbolo per una svista o un’ignoranza da parte dei Padri sinodali? Agostino era il solo rappresentante della teologia romana di cui i franchi fossero quasi ampiamente informati. Ciò significa che per ottenere una possibile risposta si deve attentamente esaminare la dottrina del vescovo d’Ippona.

Penso d’aver trovato un fondato riscontro in una spiegazione del Credo composta da Agostino. Egli fu invitato a tenere un discorso su questo tema alla riunione dei vescovi africani nel 393. Più tardi, egli rielaborò il discorso e lo fece trascrivere. Non vedo perché il Credo esposto non debba essere quello di Nicea-Costantinopoli visto che, dal contesto della dissertazione, appaiono le medesime affermazioni. Erano passati dodici anni dall’accettazione del secondo sinodo ecumenico e questa era, eventualmente, l’occasione più opportuna per istruire l’assemblea dei vescovi sul nuovo Credo universalmente approvato. I vescovi conoscevano certamente il loro Simbolo locale per cui non chiesero delle lezioni su quest’ultimo.

In ogni caso, in tale dissertazione Agostino compie tre gravi errori basilari. Morì molti anni più tardi senza mai comprendere questi suoi errori che condussero i franchi e tutta la loro Cristianità germanico-latina a ripeterli.

Nel suo De fide et symbolo, Agostino fa un’asserzione incredibilmente ingenua ed imprecisa:

... intorno allo Spirito Santo, invece, ancora non s’è estesa la ricerca da parte dei grandi e dotti studiosi delle divine Scritture con tanta larghezza e profondità, in modo che si possa facilmente comprendere, soprattutto ciò che di Lui costituisce la sua individualità speciale (proprium)[7].

Il secondo sinodo ecumenico soddisfece questa richiesta una volta per tutte introducendo nel Credo il termine “processione” il quale esprimeva il modo d’esistenza dello Spirito Santo dal Padre. Tale modo costituisce la sua speciale individualità. Così il Padre è senza inizio perché non deduce la sua esistenza da alcuno, il Figlio viene dal Padre per generazione e lo Spirito Santo viene dal Padre, non per generazione, ma per processione. Il Padre è la causa, il Figlio e lo Spirito sono i causati. La differenza tra i due causati è che il primo è causato da generazione, il secondo da processione e non da generazione.

Agostino ha speso molti anni cercando di risolvere questo problema inesistente riguardo all’individualità dello Spirito Santo e, per l’insieme di altri errori discesi dalla sua comprensione della Rivelazione e dal suo metodo teologico, nacque il Filioque[8].

A questo punto nessuno si meraviglia della fiducia dei franchi in Agostino. Essi credevano che Agostino avesse risolto un problema teologico che gli altri Padri romani avevano apparentemente mancato d’affrontare. Questo li portò a concludere d’aver scoperto un antico teologo superiore ad ogni altro Padre. In lui i franchi videro un teologo che aveva migliorato l’insegnamento del secondo sinodo ecumenico.

In una seconda frase della medesima dissertazione, Agostino pose alcune basi dalle quali si svilupparono gravi errori. Egli identificò lo Spirito Santo con “la divinità (theotes) che i greci hanno definito”, e l’hanno spiegata come l’”amore tra il Padre e il Figlio”[9].

Agostino è consapevole del fatto che:

... A questa sentenza si oppongono coloro i quali ritengono che questa comunione [intercorrente fra il Padre e il Figlio], da noi definita “divinità”, oppure “amore”, o anche “carità”, non è sostanziale, e pertanto essi pretendono che lo Spirito Santo sia per essi definito secondo l’esigenza richiesta dalla sostanza; in tal caso però costoro non riescono a comprendere che mai si sarebbe potuto sostenere che “Dio è amore”, se non perché l’amore comporta [in Dio] la sostanza[10].

È ovvio che Agostino non capì tutti i discorsi su questo argomento di Padri romano-orientali come san Gregorio di Nissa, san Gregorio il Teologo e san Basilio il Grande. Essi da una parte rigettano l’idea che lo Spirito Santo possa essere le energie comuni del Padre e del Figlio, energie conosciute come theotes per cui l’amore di questi non è un’essenza o un (hypostasis), mentre lo Spirito Santo è un hypostasis[11]. I Padri del secondo sinodo ecumenico vollero fermamente che lo Spirito Santo non fosse identificato con qualche energia comune del Padre e del Figlio, ma non identificarono lo Spirito Santo con l’essenza comune delle prime due Persone.

Lo Spirito Santo è un hypostasis individuale con caratteristiche individuali o proprietà non condivise da altra hypostasis, ma condivide pienamente tutto quanto il Padre e il Figlio hanno in comune, intelligenza, essenza divina e tutti i poteri e le energie increate. Lo Spirito Santo è un individualità che non è ciò che è comune tra il Padre e il Figlio, ma ha in comune tutto quello che è comune al Padre e al Figlio.

Per tutta la sua vita, Agostino ha rigettato la distinzione tra quello che le persone sono e quello che hanno (sebbene questa sia una distinzione biblica) identificando quello che Dio è con ciò che ha. Egli non ha mai compreso la distinzione tra:

1. essenza comune ed energie della Santa Trinità e

2. individualità incomunicabili delle (hypostaseis).

 

Inoltre ha completamente mancato d’afferrare l’esistenza propria della differenza tra:

a. il terreno di comune proprietà dell’essenza divina e

b. il terreno di comune proprietà dell’amore divino e della divinità.

Egli, infatti, ammette di non capire perché nella lingua greca venga fatta una distinzione tra ousia e hypostaseis.

Ciononostante, insistette che le sue distinzioni dovessero essere accettate come materia di fede e le tradusse in latino con i termini di una essentia e tres substantiae[12].

È chiaro che sant’Agostino accettò il più importante aspetto della terminologia trinitaria dei Padri Cappadoci e il secondo sinodo ecumenico.

Comunque, non fu consapevole dell’insegnamento di tali Padri, come Basilio, Gregorio Nisseno e Gregorio il Teologo che non identificano la comune theotes e l’agape della Trinità con il terreno di comune proprietà dell’essenza divina trinitaria. Perciò Agostino espresse i seguenti particolari commenti:

Costoro dovrebbero piuttosto purificare il loro cuore, per quanto è possibile, in modo da poter comprendere che nulla di simile può trovarsi nella sostanza divina, quasi che in essa una realtà sia ciò che riguarda la sostanza e un’altra realtà ciò che si aggiunge accidentalmente alla sostanza, (aliud quod accidat substantia) senza però essere tale; in Dio tutto ciò che può essere compreso e inteso, riguarda la sostanza[13].

Una volta che si pongono tali fondamenti per cui lo Spirito Santo è ciò che è comune al Padre e al Figlio non si può che sostenerne la causa nel Padre e nel Figlio. In tal modo non c’è alcuna distinzione tra il Padre e il Figlio che inviano lo Spirito Santo e il Padre come causa dell’esistenza dello stesso Spirito. In questo ragionamento viene confuso quello che Dio è in sé – tre hypostaseis esistenti naturalmente – con ciò che Dio fa. Così, è evidente che per Agostino sia la generazione che la processione finiscono per essere confuse con i poteri e le energie divine per cui anche il loro significato viene stravolto dalla medesima confusione. Il Filioque diviene, così, un’assoluta necessità per salvare qualche cosa dell’individualità dello Spirito Santo. Dio, dunque, non discende da alcuno. L’esistenza del Figlio dipende da una causa. Quella dello Spirito Santo deve dipendere da due. Altrimenti, la generazione e la processione coinciderebbero. Non sussisterebbe differenza alcuna tra lo Spirito e il Figlio se ambedue esistessero per un’unica causa.

Il terzo grave errore, che disturba maggiormente il lettore dell’approccio agostiniano sulla questione in oggetto, è il metodo teologico che non è solo una pura speculazione su ciò che l’individuo accetta per fede (per lo scopo d’una comprensione intellettuale come una delle molte cause che agendo assieme permettono l’illuminazione o l’intuizione estatica), ma è una speculazione che viene trasferita dal singolo credente speculante ad una Chiesa speculante che, come se fosse un individuo, comprenderebbe i dogmi sempre meglio col passare del tempo.

Così, la Chiesa attende una discussione sullo Spirito Santo “... con tanta larghezza e profondità, in modo che si possa facilmente comprendere, soprattutto ciò che di Lui [dello Spirito] costituisce la sua individualità speciale (proprium)”.

La cosa più stupefacente è il fatto che Agostino cominciò a cercare esternamente le proprietà individuali dello Spirito Santo ed immediatamente lo ridusse a quello che è comune al Padre e al Figlio. Comunque, nelle sue ultime aggiunte al De Trinitate, insistette che lo Spirito Santo è una sostanza individuale della Santa Trinità completamente uguale alle altre due sostanze e possedente la stessa essenza, come abbiamo già visto.

In qualche caso l’idea agostiniana che la Chiesa attraversa un processo per raggiungere una più profonda e migliore comprensione dei suoi dogmi o insegnamenti, è stata usata come propaganda per il Filioque. Essa sarebbe alla stessa base della maggiore e migliore comprensione franca della dottrina trinitaria. Perciò, annettere al Credo tale specificazione equivarrebbe a migliorare la fede dei romani che avevano permesso la pigrizia e l’accidia mentale su tale importante materia. Tale fatto, naturalmente, chiama in causa tutta la questione riguardo alla relazione tra Rivelazione ed espressione verbale, iconica o simbolica della stessa.

Per Agostino non c’è alcuna distinzione tra la Rivelazione e la sua intuizione concettuale. Se la Rivelazione è data alla ragione umana direttamente o attraverso mezzi o simboli creati, è sempre l’intelletto umano che è illuminato e riceve la visione. La visione di Dio stesso è, parimenti, un’esperienza intellettuale, sebbene superi i poteri della ragione e non richieda una particolare grazia.

In tal prospettiva ogni rivelazione è una rivelazione di concetti che possono essere cercati fuori dalla ragione per una più robusta e migliore comprensione. È sufficiente che la fede e l’accettazione dei dogmi in virtù dell’autorità della Chiesa caratterizzi sempre il momento iniziale. Quello che ora non può essere pienamente capito con la ragione basata sulla fede sarà pienamente capito nella prossima vita.

Così una volta riconciliati e riammessi nell’amicizia di Dio per mezzo dell’amore, potremo conoscere tutti i suoi segreti. Per questa ragione è detto dello Spirito Santo: “Egli vi guiderà alla verità tutta intera”[14].

Quello che Agostino intende con tale espressione è molto chiaro da ciò che dice altrove:

... Se Dio, come prego e spero, mi difenderà e proteggerà sotto lo scudo della sua benevolenza e con la grazia della sua misericordia da queste due colpe [prendere partito prima che appaia la verità e, una volta che la verità sia apparsa evidente, difendere la falsa opinione accolta prematuramente] così incompatibili con la scoperta della verità e con lo studio delle divine e sante Scritture, non mi mostrerò pigro nell’indagine della sua sostanza, sia per mezzo della Scrittura, sia per mezzo della creatura[15].

Tale materiale nelle mani dei franchi ha trasformato lo scopo della teologia in uno studio o in un rinvenimento della sostanza divina e, sotto questo aspetto, la futura tradizione scolastica supererà la tradizione dei Padri romani i quali hanno coerentemente insegnato che non solo l’uomo, ma neppure gli angeli conoscono l’essenza divina la quale è nota solo alla Santa Trinità.

Sia gli ortodossi che gli ariani hanno pienamente aderito alla tradizione ereditata secondo la quale solo Dio conosce la propria essenza. Questo significa che Colui che conosce la natura divina è, per sua natura, Dio stesso. Così, per provare che il Logos è una creatura, gli Ariani hanno affermato che il Logos non conosce l’essenza del Padre. Gli ortodossi hanno invece affermato che il Logos conosce l’essenza del Padre e, perciò, è increato. Gli eunomiani hanno travisato le regole convenute per sostenere delle affermazioni scandalose secondo le quali non è solo il Logos a conoscere l’essenza di Dio perché ciò è possibile pure all’uomo. Così, proprio perché il Logos conosce quest’essenza, non deve essere increato.

Contro la posizione ariana ed ortodossa, secondo la quale le creature non possono conoscere l’essenza divina increata ma possono conoscere l’energia increata di Dio nelle sue molteplici manifestazioni, gli eunomiani hanno disputato che l’energia increata e l’essenza divina sono identiche, cosicché conoscere una significa conoscere l’altra.

Stranamente Agostino ha adottato le posizioni eunomiane su tali questioni. Perciò, quando le posizioni teologiche dei franchi sono state conosciute in Oriente, quest’ultimi sono stati accusati d’essere eunomiani.

Contrariamente all’approccio agostiniano sul linguaggio e sui concetti riguardo a Dio, abbiamo la posizione patristica espressa da san Gregorio il Teologo contro gli eunomiani. Platone dichiarò che è difficile concepire Dio ma definirlo con le parole è addirittura impossibile. San Gregorio discorda dalla moderazione di questa affermazione radicalizzandola:

... Parlare di Dio è impossibile e comprenderlo è ancor più impossibile. Ché quello che si è pensato, la parola potrebbe fors’anche manifestarlo, se non adeguatamente, comunque in modo oscuro ... Ma il comprendere con il nostro intelletto una sostanza così grande è assolutamente impossibile e irraggiungibile...[16]

L’elemento più importante dell’epistemologia patristica consiste nella parziale conoscibilità delle azioni divine o energie e nell’incomunicabilità e nell’inconoscibilità assoluta ed integrale dell’essenza divina. Questo non è un risultato della speculazione filosofica o teologica, (come in Paolo di Samosata, nell’arianesimo e nel nestorianesimo), ma proviene dalla personale esperienza della Rivelazione[17] o partecipazione alla gloria increata di Dio attraverso i mezzi che ne permettono la visione o theoria. San Gregorio definisce teologo colui che ha raggiunto questa theoria attraverso i mezzi della speculazione dialettica. Così, per la verità cristiana, l’autorità non sono le parole scritte della Bibbia, che per se stesse non la possono esprimere, ma gli apostoli, i profeti e i santi che sono stati glorificati da Dio.

In tal modo la Bibbia, le scritture dei Padri e le decisioni sinodali non sono la Rivelazione ma la riguardano.

La stessa Rivelazione trascende le parole e i concetti, benché li ispiri, e partecipa alla gloria divina inesprimibile alle parole e ai concetti stessi. È sufficiente che sotto la guida dei santi che conoscono per esperienza, il fedele sappia che Dio non è identificato con le parole bibliche e i concetti che Lo riguardano, benché questi siano infallibili.

In tal modo, san Gregorio il Teologo stabilisce dei fondamenti teologici che confutano ariani, eunomiani e macedoniani mostrando, oltre all’esperienza rivelata da profeti, apostoli e santi, quella personale sulla Rivelazione della gloria divina.

Cos’è questo che provo, miei cari, amici che siete iniziati nella dottrina cristiana e insieme con me amate la verità? Io stavo correndo per raggiungere Dio, e stavo salendo sulla montagna; mi ero aperto la strada attraverso la nube e vi ero penetrato, lontano dalla materia e dalle cose materiali, e, per quanto mi era possibile, mi ero raccolto in me stesso. Ma poiché ho gettato uno sguardo, a stento son riuscito a vedere Dio di spalle, nonostante che fossi protetto dalla roccia – cioè dal Logos che si è incarnato per causa nostra. E dopo essermi sporto a guardare, ho visto non la prima e purissima sostanza, quella che è conosciuta solo a se stessa (intendo dire alla Trinità), e tutto quello che rimane all’interno del primo velo ed è coperto dai cherubini, bensì la sua parte finale, quella che giunge fino a noi. Ma questa parte, per quel che ne so, non è altro che la grandezza di Dio che si trova nelle creature e negli esseri da Lui prodotti e governati, vale a dire, per usare il termine del divino David, la “magnificenza” di Dio. Ecco in che cosa consiste ciò che sta dietro Dio, quel che si conosce di Lui dopo che è passato...[18]

La distinzione tra la prima Natura e la gloria increata di Dio, la prima nota solo a Dio e l’altra a coloro ai quali Egli la rivela, è fondata nei Padri ortodossi come in Paolo di Samosata, negli ariani e nei nestoriani. Costoro rivendicavano la parentela di Dio nelle creature facendola consistere solo nella sua volontà, non nella sua natura. Da allora le relazioni naturali significano delle relazioni necessarie che ridurrebbero Dio ad un sistema di emanazioni simile a quello di Valentino. Paolo di Samosata e i nestoriani hanno disputato che, in Cristo, Dio è unito all’umanità non dalla natura, ma dalla volontà. Gli ariani hanno sostenuto che Dio è in relazione al Logos ipostatico non dalla natura ma dalla volontà.

Contro queste posizioni i Padri ortodossi affermarono che, in Cristo, il Logos è unito alla sua umanità ipostaticamente o naturalmente e il Padre genera il proprio Figlio non solo con la sua volontà, ma, primariamente, con la sua natura. La volontà non è in contraddizione a ciò che appartiene alla natura divina. Così, Dio genera il Logos mediante la natura e la volontà. La Santa Trinità crea ed è in relazione con le creature ad eccezione del Logos che, per natura, unisce se stesso alla propria umanità.

In qualche caso gli eunomiani e Agostino hanno cancellato la distinzione tra ciò che Dio è nella sua natura e ciò che Dio fa con la sua volontà. In Agostino tale fatto ha condotto al fallimento della distinzione tra generazione e processione (che non comporta le energie del Padre) e alla confusione di operazioni simili come il conoscere, l’inviare, l’amare e il donare le quali comportano le energie comuni del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ma non le maniere radicalmente incomunicabili d’esistenza e di proprietà ipostatiche (come la generazione e la processione).

Così né Agostino né i franchi che ne seguirono gli insegnamenti compresero la posizione patristica su quest’argomento. D’altronde i franchi, dalla maestosa altezza della loro nobiltà feudale, non erano disposti ad ascoltare la spiegazione “greca” di queste distinzioni per cui hanno finito per fare delle scorrerie sui testi patristici. In questa maniera essi hanno estrapolato le citazioni al di fuori dei loro contesti. Il fine consisteva nel provare l’apparente accordo di tutti i Padri con l’insegnamento di Agostino. Per i franchi i Padri, affermando che il Padre e il Figlio inviano lo Spirito, avrebbero voluto intendere che lo Spirito dipendeva ontologicamente da queste due Persone divine.

Concludendo questo paragrafo, notiamo il costante rilievo dei Padri sui termini di generazione e processione i quali distinguono il Figlio dallo Spirito Santo. La seconda Persona diviene Figlio di Dio solamente per generazione. La processione non coincide con la generazione altrimenti avremo due Figli, nel qual caso non esisterebbe alcun Figlio unigenito generato. Nei Padri tale affermazione era contemporaneamente sia un fatto biblico che un mistero da trattarsi con il dovuto rispetto. Domandare cosa sia la generazione e la processione è tanto ridicolo quanto domandare cosa sia l’essenza divina. Solo le energie di Dio possono essere conosciute ed anche queste nella misura in cui la creatura le può conoscere.

Contrariamente a ciò, Agostino iniziò a spiegare cosa fosse la generazione. Egli la identificò con quello che gli altri Padri romani intendevano usando i termini di “azioni” ed “energie di Dio”, realtà comuni a tutta la Santa Trinità. In tal modo pure la processione ha finito per essere identificata con queste stesse energie. Ecco, allora, la differenza tra il Figlio e lo Spirito secondo la quale se il Figlio esiste per una causa lo Spirito Santo deve esistere per due[19].

Iniziando a comporre il De Trinitate, Agostino promise che avrebbe spiegato perché il Figlio e lo Spirito Santo non sono fratelli. Dopo che ebbe terminato il dodicesimo libro di questo trattato, i suoi discepoli riprodussero il testo in forma incompleta e incorretta. Nel libro 15° al 45° capitolo[20], Agostino ammette che non può spiegare perché lo Spirito Santo non è figlio del Padre e fratello del Logos e afferma che impareremo questo nella prossima vita.

Nelle Retractationes Agostino spiega come intendeva esporre quanto fu riportato in altri scritti non confluiti nel De Trinitate. Comunque, i suoi discepoli prevalsero sulle sue intenzioni per cui egli corresse semplicemente i libri nella misura del possibile pur di riuscire a terminare un lavoro del quale non rimase soddisfatto.

È veramente incredibile come i discendenti spirituali e culturali dei franchi, che attaccarono e tormentarono i romani per così tanti secoli, declamino ancor oggi la superiorità di Agostino tra le autorità patristiche nella dottrina trinitaria.

L’espressione che lo Spirito Santo procede (ekporeuetai) dal Padre e dal Figlio ricorre sia in Ambrogio che in Agostino mentre è assente nei Padri romani di lingua greca. Su tale argomento Ambrogio era strettamente dipendente dai teologi di lingua greca come Basilio il Grande e Didimo il Cieco (particolarmente al suo trattato sullo Spirito Santo). Perciò ci si aspetterebbe che avesse seguito l’uso orientale.

Sembra, comunque, che al tempo della morte di Ambrogio, prima del secondo sinodo ecumenico, il termine “processione” fosse adottato da Didimo per intendere l’individualità ipostatica dello Spirito Santo. Prima del medesimo sinodo non fu usato né da san Basilio (ad esclusione della sua lettera 38 dove pare che usasse il termine “processione” nel senso di Gregorio il Teologo) né da san Gregorio di Nissa. Tra i Padri Cappadoci solo san Gregorio il Teologo nelle sue Orazioni Teologiche usa palesemente quella che è divenuta la finale formulazione della Chiesa al secondo concilio ecumenico.

Il primo uso ampiamente sviluppato del termine “processione”, inteso come la maniera d’esistenza e la proprietà ipostatica dello Spirito Santo, è fondato nella raccolta di scritti dello pseudo-Giustino, probabile espressione della tradizione antiochena. Quest’uso arrivò ai Cappadoci con san Gregorio il Teologo e agli alessandrini con Didimo il Cieco. Sant’Ambrogio, comunque, non s’è nutrito da questa tradizione. Agostino, a sua volta, vi attinse in maniera confusa.

È chiaro che nel terzo o quarto secolo il termine “generazione” utilizzato in relazione al Logos e a Dio cambiò significato. Si passò dal senso di relazione della Santa Trinità con la creazione e l’incarnazione – per cui il Dio già esistente è divenuto Padre, generando il già esistente Logos che è divenuto Figlio il quale è stato visto e sentito dai profeti e divenne uomo – a quello di modo d’esistenza del Logos dal Padre. La questione del modo d’esistenza dello Spirito Santo e dell’attributo ipostatico è nata in conseguenza a tale variazione semantica.

Con l’eccezione d’Antiochia, la tradizione prevalente e, forse, l’unica tradizione affermava che il Padre non deve la sua esistenza ad alcun essere, il Logos la deve al Padre per generazione e lo Spirito Santo la deve pure al Padre ma non per generazione. Sembra che, inizialmente, san Gregorio di Nissa abbia proposto l’idea che lo Spirito Santo differisce dal Figlio perché il Figlio riceve l’esistenza dal Padre mentre lo Spirito riceve l’esistenza dal Padre attraverso il Figlio. Per lo Spirito il Padre è il Suo unico principio e causa d’esistenza mentre appartiene alle altre due persone in ciò che è comune a tutte le tre hypostaseis. San Gregorio qualifica normalmente lo Spirito Santo con l’espressione “non da generazione”. Ad Antiochia al “non da generazione” è stato aggiunto “da processione”. Quest’aggiunta ha ottenuto abbastanza sostenitori da essere introdotta nel Credo del secondo sinodo ecumenico. Comunque, il termine “processione” non ha né ampliato né diminuito la comprensione patristica della Santa Trinità; i Padri hanno sempre insistito che noi non conosciamo altro che i modi di generazione e processione. Evidentemente i Padri hanno accettato tale termine nel Credo perché era migliore dell’inserzione di espressioni ingombranti e negative come “dal Padre non per generazione”. La riflessione di san Gregorio di Nissa sul Figlio, integrata dalle posteriori riflessioni teologiche, ha determinato il pensiero di san Massimo il Confessore e di san Giovanni di Damasco per i quali la processione dello Spirito Santo avviene dal Padre “attraverso” il Figlio.

È ovvio che i Padri di lingua greca davanti a questo sviluppo hanno usato il termine “processione” nel senso biblico parlando, così, della processione dello Spirito Santo dal Padre ma mai dal Padre e dal Figlio. Sembra, comunque, che nella tradizione di lingua latina, il termine “procedere” sia stato utilizzato al posto di ekporeuomai e qualche volta pure per exerchomai o anche per pempsis. In ogni caso quando sant’Ambrogio usa il termine “procedere”, non intende la maniera d’esistenza né la proprietà ipostatica [dello Spirito]. Ciò viene dedotto in quanto egli insiste che qualsiasi realtà è in comune al Padre e al Figlio, lo Spirito Santo la possiede. Quando il Padre e il Figlio inviano lo Spirito, lo Spirito invia se stesso. Quello che è individuale appartiene ad una sola persona mentre quello che è il terreno di comune proprietà è comune a tutte e tre.

Evidentemente, poiché Agostino ha trasformato la dottrina trinitaria in un esercizio speculativo di acume filosofico, la natura semplice, schematica e biblica della dottrina nella tradizione romana è stata persa di vista da coloro grazie ai quali sorgerà la tradizione scolastica.

Così, la storia della dottrina trinitaria è stata ridotta ad una ricerca esterna che ha sviluppato concetti e terminologie teologiche come “tre persone” o hypostaseis, “una essenza” (homoousios), “proprietà ipostatiche” o “personali”, “una divinità”, ecc.

La dottrina trinitaria sulle apparizioni del Logos nella sua Gloria ai profeti, agli apostoli e ai santi, era identica sia per i Padri, che per gli ariani e gli eunomiani. Il Logos è sempre stato identificato con l’Angelo di Dio, il Dio della Gloria, l’Angelo del Gran Consiglio, il Dio Sabbaoth e la Sapienza di Dio apparsa ai profeti dell’Antico Testamento che è divenuta Cristo nascendo come uomo dalla Vergine Theotokos. Nessuno ha mai dubitato su questa identificazione del Logos con la Persona molto concreta che ha rivelato il Dio invisibile dell’Antico Testamento ai profeti. Nessuno, con la particolare eccezione di Agostino che, al riguardo, seguì le tradizioni gnostiche e manichee.

La controversia tra gli ortodossi e gli ariani non riguardò l’identità del Logos nell’Antico e nel Nuovo Testamento, ma ciò che il Logos è nella sua relazione con il Padre. Gli ortodossi hanno insistito che il Logos è increato e immutabile. Egli è sempre esistito con il Padre il quale, dalla sua natura, l’ha generato prima d’ogni tempo. Gli ariani hanno insistito che questo stesso Logos è una creatura mutevole che dedurrebbe la sua esistenza prima d’ogni tempo grazie alla volontà del Padre.

Così le questioni di base furono: cosa videro i profeti nella gloria increata di Dio? Un Logos creato o un Logos increato? Un Logos che è Dio per sua natura e, perciò, che ha tutte le energie e i poteri della natura di Dio, o un Dio per grazia che ha alcune, ma non tutte, le energie del Padre per cui è Dio solo per grazia e non per natura?

Sia gli ortodossi che gli ariani erano d’accordo sul principio che, se il Logos ha ogni potere ed energia del Padre per sua natura, allora è increato. In caso contrario è una creatura.

Nella Bibbia c’è una testimonianza di quanto i profeti e gli apostoli videro nella gloria del Padre. La Bibbia stessa, quindi, può rivelare se il Logos ha o no tutte le energie e i poteri della natura paterna. Allora, conosceremo se i profeti e gli apostoli hanno visto un Logos creato o un homoousios increato del Padre.

Si può vedere chiaramente come, per i Padri, la consustanzialità del Logos col Padre oltre ad essere l’esperienza degli apostoli e dei santi, è pure quella dei profeti.

Una delle cose più stupefacenti nella storia dei dogmi è il fatto che sia gli ariani che gli ortodossi utilizzarono indiscriminatamente il Vecchio e il Nuovo Testamento. La ragione è molto semplice. Essi fecero un dettagliato elenco dei poteri e delle energie del Padre. Lo stesso fecero per il Figlio. Poi li compararono per vedere se erano identici o meno. Per loro il fatto importante non consisteva nella somiglianza ma nell’identità.

Contemporaneamente a ciò, sia gli ariani che gli ortodossi concordarono contro i sabelliani e i samosatensi sulle proprietà ipostatiche individuali non comuni al Padre e al Figlio anche se discordarono parzialmente su quali esse fossero. Quando la controversia si estese sulla questione dello Spirito Santo è stato usato l’identico metodo per affrontare la problematica teologica. Qualunque potere ed energia abbiano in comune il Padre e il Figlio, lo Spirito Santo li deve possedere, per avere la stessa natura divina.

Comunque, contemporaneamente a questo procedimento argomentativo, esiste la personale esperienza di coloro che furono i viventi maestri spirituali che raggiunsero la theoria, come abbiamo già visto nel passo di san Gregorio sopra riportato. Quest’esperienza verifica e certifica l’interpretazione patristica della Bibbia e testimonia l’increaturalità del Logos e dello Spirito Santo e la loro unica natura col Padre nonché l’identità della loro gloria, regola o grazia increata. Quest’esperienza personale della gloria di Dio certifica pure l’insegnamento biblico secondo il quale non c’è assolutamente alcuna somiglianza tra il creato e l’increato. Ciò comporta che non può essere concepito alcun universale nell’increato, universale del quale le creature sono apparentemente copie. Ciascuna creatura individuale è dipendente dall’increata gloria di Dio, che è sempre assolutamente semplice e indivisibile anche se si divide nelle individuali creature. Dio è presente simultaneamente in ciascuno con ogni sua energia. Questo i Padri lo conoscevano per esperienza, non per speculazione.

Tale sintesi del metodo teologico patristico è forse sufficiente ad indicare il metodo non speculativo con il quale i Padri fecero teologia e interpretarono la Bibbia. Il metodo è semplice e il risultato è schematico. Determinata semplicemente ed “aritmeticamente”, tutta la dottrina trinitaria può essere esposta in due semplici asserzioni assolutamente distanti e dissimili dal Filioque:

–    ciò che è comune nella Santa Trinità è comune e identico a tutte le tre persone o hypostaseis;

–    ciò che appartiene all’ipostasi, o alla persona, ossia una proprietà ipostatica o un modo d’essere, è individuale e appartiene solo ad un’unica persona o hypostasis trinitaria.

Così, abbiamo “ta koina” e “ta akoinoneta”, ciò che è comune e ciò che è incomunicabilmente individuale.

Avendo questo concetto in mente, si comprende perché i romani non hanno considerato molto seriamente il Filioque franco come dottrina teologica, particolarmente quando è stato presentato come un miglioramento al Credo del secondo sinodo ecumenico.

Tuttavia, i romani hanno dovuto porre attenzione ai franchi perché essi sostennero le loro fantastiche richieste teologiche con un’incredibile fiducia in loro stessi e con la minaccia d’una spada affilata. Mancando di intuito storico, essi, grazie alla “nobiltà” della loro discendenza, inventarono una teoria sostenuta con tenace volontà e con la forza delle armi.

In ogni caso, può essere utile terminare questo paragrafo sottolineando la semplicità della posizione romana e l’umorismo con il quale il Filioque è stato affrontato. Possiamo cogliere questo humour romano sul Filioque latino in due battute sillogistiche di Fozio il Grande che possono spiegare la furiosa reazione franca contro di lui.

D’altronde, ogni cosa veduta e detta nella tutta santa, consustanziale e coessenziale Trinità, può essere o comune a tutti, o appartenente ad una sola delle tre persone; ma l’invio (probole) dello Spirito non è comune a nessuna delle altre due. Ciò non significa che l’invio non debba perciò appartenere ad alcuna persona, com’essi dicono. (Possa Egli essere a noi propizio e la bestemmia si volga sulle loro teste). Così, l’invio dello Spirito non è comune a tutta la Trinità, datrice di vita e tutta perfetta[21].

In altre parole, allora, se tutto nella Trinità è comune a tutti o appartiene ad uno solo, lo Spirito Santo dovrebbe dedurre la sua esistenza al di fuori della Santa Trinità.

D’altronde, se tutto ciò che è comune al Padre e al Figlio fosse comune allo Spirito... e se la processione fosse comune al Padre e al Figlio, lo Spirito dovrebbe allora procedere da Se stesso; sarebbe il proprio principio (arche) e, nello stesso istante, la causa e il risultato; una cosa simile non è mai stata inventata dai greci nei loro miti[22].

I Padri iniziavano sempre le loro riflessioni sulla Santa Trinità dalla loro personale esperienza dell’Angelo del Signore, del Grande Consolatore divenuto uomo in Cristo. Tenendo in mente tale fatto, solo allora si capisce la problematica posta sotto la crisi ariana ed eunomiana, problematica che sollevava la questione se il Figlio facesse derivare la sua esistenza dall’essenza ipostatica del Padre o dal non essere attraverso la volontà del Padre. La Tradizione aveva compreso il metodo teologico che pure Agostino praticava. Seguendo la Tradizione non ci sarebbe mai stata l’eresia ariana o eunomiana. Coloro che ricevevano la divinizzazione (theosis) conoscevano per esperienza la creaturalità di qualunque cosa se questa fosse provenuta dal non essere o dalla volontà di Dio come l’increaturalità di chiunque o di qualunque realtà se questa non fosse provenuta dal non essere, ma dal Padre. In tal modo essi affermavano che non esiste alcuna somiglianza tra il creato e l’increato.

Precedentemente i Padri Cappadoci diedero il loro contributo alla distinzione tra le tre divine ipostasi (hypostaseis) e l’unica essenza divina. Molti vescovi ortodossi evitarono le definizioni di “un’essenza” e “un’ipostasi” a causa di Sabellio e del monarchianismo samosatense preferendo parlare del Figlio come di Colui che deduce la sua esistenza dall’essenza del Padre e, in essenza, è identico allo stesso Padre (homoousios). Per sant’Atanasio questo è quanto viene esattamente inteso dal termine “coessenziale” (homoousios). È chiaro che il cristiano ortodosso non si impegnava intellettualmente per ottenere una comune fede ma per giungere a concetti e terminologie comuni che esprimessero l’esperienza condivisa nel Corpo di Cristo.

È ugualmente importante il fatto che i cappadoci hanno dato il loro contributo alla distinzione tra il Padre come causa (aitios) e il Figlio e lo Spirito Santo come causati (aitiata). Questi termini uniti a quelli che identificano le maniere d’esistenza (tropoi hyparxeos) di generazione e processione, significano che il Padre causa l’esistenza del Figlio con la generazione e quella dello Spirito Santo con la processione, ovvero non per generazione. Naturalmente l’essere del Padre non deduce la sua esistenza da alcuno (ex oudenos) né da Se stesso né da un altro. San Basilio si beffò d’Eunomio che pensava d’essere stato il primo a dire tale ovvietà manifestando con ciò frivolezza e inutile verbosità. Inoltre, né l’essenza né la naturale energia del Padre hanno una causa nel suo modo d’esistere. Il Padre li possiede per sua propria natura e li comunica al Figlio che li possiede per la stessa natura. Così, la maniera con la quale il Padre incausato esiste e con la quale il Figlio e lo Spirito Santo ricevono la loro esistenza dal Padre, non viene confusa con l’essenza e l’energia che il Padre comunica al Figlio e allo Spirito Santo. È veramente strano parlare del Padre come di Colui che causa l’esistenza, l’essenza e l’energia per sé oltre che per le hypostaseis del Figlio e dello Spirito Santo.

È pure necessario sottolineare che, per i Padri di Nicea e Costantinopoli, nessuna generazione o processione comporta l’energia o l’azione. Questa, piuttosto, era la posizione degli eretici condannati. Gli ariani sostennero che il Figlio è il prodotto della volontà di Dio. Gli eunomiani sostennero una posizione più originale e bizzarra: l’energia increata del Padre è identica con la sua essenza; il Figlio è prodotto da una sua energia singola e ciascuna specie creata è prodotta da un’energia speciale dello Spirito Santo. Vi sono molte energie increate quante sono le specie. Se lo Spirito Santo avesse solo un’energia creata, allora esisterebbe solo una specie di esseri nel creato.

È anche alla luce di queste eresie che si deve apprezzare come la generazione e la processione nel Credo non possono comportare in alcuna maniera l’energia o l’azione.

Agostino non capì il significato di “generazione” e “processione” al punto che li identificò chiaramente con le energie. Questo gli permise di sviluppare una dottrina trinitaria di tipo psicologico, lusso metodologicamente impossibile per i Padri. Così, Agostino non fu consapevole e non utilizzò la comprensione conciliare, particolarmente quella romano-orientale sulla generazione e sulla processione. Egli identificò questi termini con la comunicazione dell’esistenza, dell’essenza e dell’azione del Padre al Figlio e allo Spirito Santo, un aspetto che esiste in tutti i Padri, ma che non è identificato con la generazione e la processione, almeno dopo il primo e il secondo sinodo ecumenico. È in tal contesto che Agostino dovrebbe essere capito quando parla dello Spirito Santo come di Colui che riceve la sua esistenza (essenza) e che procede principalmente dal Padre oltre che dal Figlio. Questo è esattamente quanto i Padri romano-orientali vogliono intendere quando scrivono che lo Spirito Santo riceve la sua essenza ed energia dal Padre attraverso o per il Figlio simultaneamente alla sua processione o acquisizione dell’individuale esistenza ipostatica dallo stesso Padre (san Gregorio Palamas). L’essenza e le energie essenziali del Padre non sono causate e non sono neppure la causa dell’esistenza del Figlio e dello Spirito Santo. L’essenza e l’energia del Padre sono comunicate e comuni (koina) alla Santa Trinità che è, così, la causa della creazione. Comunque, non vengono comunicate le hypostaseis del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Le hypostaseis sono incomunicabili (akoinoneta). Così, le persone della Trinità sono un’unità, non per un’unione o un’identità delle persone ma per l’unità e l’identità dell’essenza e dell’energia oltre al fatto che il Padre è la sola causa dell’esistenza del Figlio e dello Spirito Santo.

Nell’esperienza di illuminazione e di divinizzazione in Cristo, si è consapevoli che Dio è composto da tre realtà assolutamente simili, due delle quali derivano da una terza e sono propriamente inerenti una nell’altra. Allo stesso tempo un’identica realtà di gloria increata, cioè la regola (basileia) o la grazia vengono comunicate. Così Dio indivisibile si spartisce in realtà divise; la sua unicità (mone) si moltiplica senza mai venire meno. L’essenza divina, comunque, non è comunicata alle creature e, perciò, non può mai essere conosciuta.

Agostino non s’è accostato alla dottrina trinitaria come gli altri Padri. Ogni altro Padre romano occidentale si confrontava con lo sviluppo della tradizione romano-orientale. Agostino ha accettato la formulazione del secondo sinodo ecumenico e il pensiero dei Padri che l’hanno determinata, come abbiamo già visto. In tal modo i Padri romano-orientali sono stati gli insegnanti di quelli occidentali. Parlare d’una dottrina occidentale trinitaria è, perciò, una falsificazione su come gli stessi romano-occidentali compresero questi argomenti. In tal contesto il termine “processione” in Occidente ha assunto i due significati analizzati da Massimo il Confessore ed Anastasio il Bibliotecario.

Comunque, quando i franchi hanno cominciato a fare scorrerie sui testi patristici per trarre argomenti a sostegno della loro aggiunta al Credo, hanno colto le categorie di maniera d’esistenza, “causa” e “causato” e le hanno identificate con quelle agostiniane di generazione e processione, trasformando, così, il vecchio Filioque occidentale ortodosso nel loro Filioque eretico. Questa confusione non è così chiara in nessun luogo come durante i dibattiti al concilio di Firenze dove i franchi hanno usato i termini “causa” e “causato” identificandoli con la loro comprensione sulla generazione e la processione e sostenendo, quindi, la teoria che il Padre e il Figlio sono la causa della processione dello Spirito Santo. Così, essi hanno completamente confuso la spiegazione di Massimo sopra riportata in base alla quale, per l’Occidente del suo tempo, il Figlio non è la causa dell’esistenza dello Spirito Santo, cosicché in tal senso, lo Spirito Santo non procede dal Figlio. Ciò che Anastasio il Bibliotecario ripeté, evidenziandolo ampiamente, era la confusione sia dei franchi che dei loro discendenti spirituali e teologici.

Finiamo questo paragrafo ricordando che, per i Padri, nessun nome o concetto dà qualche comprensione del mistero della Santa Trinità. San Gregorio il Teologo su questo è chiaro, come abbiamo già visto. Egli mette in ridicolo i suoi oppositori con un caratteristico sarcasmo:

Dimmi tu, allora, cos’è la condizione di essere ingenerato, propria del Padre, e io ti spiegherò, in termini di natura, che cos’è la generazione del Figlio e la processione dello Spirito. Così entrambi usciremo di senno, volendo ficcare lo sguardo nei misteri di Dio[23].

Nomi e concetti di Dio non danno a quelli che giungono alla theoria la comprensione del mistero ma quella del dogma e del suo scopo. Nell’esperienza di divinizzazione, la conoscenza di Dio, assieme alla preghiera, alla profezia e alla fede viene abolita. Solo l’amore rimane (1 Cor 13, 8-13; 14,1). Il mistero rimane e rimarrà sempre, anche quando si vedrà Dio in Cristo faccia a faccia e si sarà conosciuti da Dio come lo era Paolo (1 Cor. 13.12).
 

Il significato della questione sul Filioque

Smaragdo evidenzia l’irritazione degli emissari di Carlomagno di fronte al problema sollevato da papa Leone III, un problema per sole quattro sillabe. Naturalmente quattro sillabe non sono molte. Ciononostante, le implicazioni nate da questo fatto sono state tali da spingere la Cristianità franco-latina a compiere un cammino storico, teologico e di prassi ecclesiastica abbastanza differente dal momento in cui i franchi si sono contrapposti ai “greci”.

Indicherò alcune implicazioni causate dai presupposti del Filioque che hanno generato dei problemi presenti ancor oggi.

1) Perfino uno studio superficiale sull’odierna storia del dogma e sugli studi biblici rivela il particolare fatto che i protestanti, gli anglicani, i cattolico-romani e alcuni teologi ortodossi accettano il primo e il secondo sinodo ecumenico solo formalmente. Ciò avviene in quanto c’è, almeno, un’identità d’insegnamento tra ortodossi e ariani non rinvenibile tra ortodossi e latini.

Quest’insegnamento riguarda le reali apparizioni ai profeti vetero-testamentari del Logos che divenne carne nel Nuovo Testamento. Tale tema, come abbiamo visto, era il fulcro del dibattito che doveva stabilire se il Logos visto dai profeti era creato o increato. L’identificazione del Logos nell’antico Testamento è la vera base degli insegnamenti di tutti i sinodi ecumenici romani.

Evidenziamo che i Padri romano-orientali non hanno mai abbandonato questa lettura delle teofanie veterotestamentarie. Questo è pure l’insegnamento di tutto l’Occidente patristico romano con l’unica eccezione di Agostino che ha confuso tale insegnamento, rigettando come blasfema l’idea che i profeti potessero veramente vedere il Logos con i loro propri occhi nel fuoco, nell’oscurità, nella nube, ecc.

Gli ariani e gli eunomiani avevano utilizzato, al pari degli gnostici prima di loro, la visione del Logos ai profeti per dimostrare che era un essere sottomesso a Dio, ossia, una creatura. Agostino era d’accordo con le affermazioni degli ariani e degli eunomiani in base alle quali i profeti videro un Angelo, un fuoco, una nube, una luce e un’oscurità create, ma discordava da loro affermando che nessuno di questi era lo stesso Logos, poiché essi erano semplici simboli e mezzi con i quali Dio o la Trinità fu vista e sentita.

Agostino non aveva la pazienza di apprendere che l’Angelo di Dio, il fuoco, la gloria, la nube e le lingue di fuoco nella Pentecoste erano simboli verbali della realtà increata e comunicata immediatamente ai profeti e agli apostoli, per cui, per lui, tutto questo linguaggio indicava una visione della sostanza divina. Per il vescovo d’Ippona questa visione è identica a quella dell’increato e vi si può accedere solo attraverso una particolare estasi neoplatonica dove l’anima si colloca fuori dal corpo tra la sfera dell’eternità immobile e atemporale in cui viene trasceso ogni ragionamento discorsivo. Ma questo non viene da lui fondato nella Bibbia. Le visioni descritte non sono simboli verbali delle reali visioni di Dio, ma creature che simboleggiano le realtà eterne. Così i simboli verbali creati nella Bibbia sono divenuti simboli oggettivamente creati. In altri termini, le parole che simboleggiano le energie increate come fuoco, nube, ecc. sono divenute oggettivamente dei veri fuochi, nubi, lingue, ecc.

2) Il fallimento agostiniano nel distinguere l’essenza divina dalle sue energie naturali (alcune delle quali sono comunicate agli amici di Dio), ha condotto ad una lettura della Bibbia molto particolare, nella quale le creature o i simboli esistono solo al fine di portare un messaggio divino. Esaurito questo compito non esistono più. Così, la Bibbia diviene una raccolta di miracoli incredibili e un testo dettato da Dio.

3) Oltre a tutto ciò esiste la distorsione del concetto biblico di cielo e inferno. L’inferno fu caratterizzato da fuochi e oscurità eterna che divennero vere creature mentre, in realtà, simboleggiano la gloria increata di Dio patita da coloro che si rifiutano d’amare. Così, alcuni parlano della necessità di demitizzare la Bibbia per salvare qualcosa della caratteristica tradizione cristiana da trasmettere all’uomo moderno. Tuttavia, non è la stessa Bibbia che ha bisogno d’essere demitizzata ma la tradizione agostiniana franco-latina e la caricatura che si è tramandata in Occidente della teologia patristica “greca”.

4) I summenzionati fondamenti della teologia patristico-romana presenti nei sinodi ecumenici non sono stati considerati seriamente come la chiave interpretativa della Bibbia dagli studiosi biblici moderni. Così essi hanno applicato i latenti presupposti agostiniani con metodica costanza finendo per distruggere l’unità e l’identità dei due Testamenti sotto l’influenza d’interpretazioni giudaiche per l’antico Testamento, interpretazioni rifiutate pure da Cristo[24].

In tal modo, invece di trattare la persona concreta dell’Angelo di Dio, del Signore di Gloria, dell’Angelo del Gran Consiglio, della Saggezza di Dio identificandoLo con il Logos, fatto carne e divenuto Cristo e inglobando queste apparizioni nella dottrina trinitaria, gli studiosi occidentali, o almeno la maggior parte d’essi, hanno finito per identificare Cristo solo con l’invio del Messia promesso nell’antica Alleanza. Inoltre, essi hanno associato la dottrina trinitaria con lo sviluppo extra trinitario biblico della terminologia nel sistema agostiniano che, per la verità, non riflette la struttura del pensiero patristico. Così, i cosiddetti Padri greci vengono ancora letti alla luce di Agostino, lettura condivisa pure da alcuni russi dopo Pietro Moghila.

5) Altro risultato particolarmente devastante della presupposizione agostiniana del Filioque è la distruzione della comprensione profetica e apostolica della grazia e la sua sostituzione con un intero sistema di grazie create distribuite nella Cristianità latina dall’hocus pocus clericale.

Per la Bibbia e i Padri, la grazia è la gloria increata, la regola (basileia) del Dio visto dai profeti, dagli apostoli e dai santi e partecipato ai fedeli seguaci dei profeti e degli apostoli. La fonte di questa gloria o regola è il Padre che, generando il Logos ed effondendo lo Spirito, la partecipa cosicché il Figlio e lo Spirito sono anche per loro stessa natura fonte della medesima grazia col Padre. Questa grazia o regola increata è comunicata al fedele secondo la sua preparazione per riceverLa, ed è esperita dagli amici di Dio che sono divenuti divini per grazia.

Poiché il Filioque franco presuppone l’identità dell’essenza divina increata con l’energia, e poiché la partecipazione all’essenza divina è impossibile, la tradizione latina è stata condotta automaticamente a pensare la grazia comunicata come una creatura, conducendo alla sua oggettivizzazione e alla sua magica manipolazione sacerdotale.

D’altra parte la riduzione agostiniana di questa gloria e regola (basileia) rivelata allo stato d’una creatura ha fuorviato i moderni studiosi biblici incanalandoli in un’infinita discussione riguardo all’arrivo del “Regno” (basileia, invece che regno, avrebbe piuttosto il significato di regola) senza comprendere la sua identità con la gloria increata e la grazia di Dio.

6) Per non estenderci in ulteriori dettagli, finiamo questo capitolo e questo studio evidenziando il peso che il presupposto del Filioque ha autoritativamente avuto sulle questioni interpretative bibliche e dogmatiche.

Nella tradizione patristica ogni dogma o verità viene sperimentata nella divinizzazione. Il modello finale di divinizzazione è quello della Pentecoste, nella quale gli apostoli sono stati condotti dallo Spirito a tutta la verità, come aveva pro-messo Cristo nell’ultima cena. L’avvenimento della divinizzazione d’ogni santo è un’estensione della stessa Pentecoste a vari livelli d’intensità. In altre parole, la Pentecoste si estende in ogni santo che abbia avuto una visione della gloria increata di Dio in Cristo, sorgente della gloria medesima.

Quest’esperienza include tutto l’uomo e, allo stesso tempo, lo trascende trascendendo pure il suo intelletto. Così, l’esperienza rimane un mistero all’intelletto e non può essere comunicata intellettualmente ad altri. La lingua può descrivere ma non può comunicare quest’esperienza. Il padre spirituale può guidare una persona a questo stato, ma non può produrlo, poiché esso rimane un dono dello Spirito Santo.

Perciò, quando i Padri aggiungono nuovi termini alla lingua biblica riguardo a Dio e alle Sue relazioni col mondo, termini come hypostasis, ousia, physis, homoousios, ecc., non fanno questo per migliorare la comprensione corrente contrapponendosi ad un’epoca primitiva. La Pentecoste non può essere migliorata. Quello che essi fanno consiste nel difendere l’esperienza pentecostale che trascende le parole, nella lingua del loro tempo poiché l’eresia del momento devia i credenti da quest’esperienza, determinando negli sviati la morte spirituale.

Per i Padri l’autorità non è solo la Bibbia, ma la Bibbia con coloro che sono stati glorificati o divinizzati come i profeti e gli apostoli. La Bibbia non è in se stessa né inspirata né infallibile. Diviene ispirata e infallibile all’interno della comunione dei santi in quanto essi posseggono l’esperienza della gloria divina descritta nella Bibbia stessa.

Comunque, i presupposti del Filioque franco non sono fondati su quest’esperienza di gloria. Qualche lettore per comprendere tali argomenti potrebbe, forse, chiedere di parlare con un’autorità. Noi ortodossi, invece, seguiamo i Padri e accettiamo solo la loro autorità perché essi, come gli apostoli, hanno raggiunto un grado di divinizzazione pentecostale.

In questo quadro di riferimento, non ci può essere alcuna forma istituzionalizzata o garantita d’infallibilità al di fuori della tradizione spirituale che porta alla theoria, com’è stato riportato sopra con le parole di san Gregorio il Teologo.

Come eresia, il Filioque è nocivo quanto l’arianesimo e questo nasce dal fatto che i suoi assertori riducono le lingue pentecostali di fuoco allo stato di creature come Ario aveva fatto con l’Angelo di Gloria.

Ario e gli scolastici non avevano ricevuto la divinizzazione pentecostale dei Padri. Essi, quindi, non potevano conoscere per esperienza che il Logos apparso ai profeti e agli apostoli nella gloria e le lingue di fuoco sono increate; non potevano conoscere che il primo è un’hypostasis increata mentre le altre sono energie comuni e identiche della Santa Trinità irradiate dalla novità della presenza dell’umanità di Cristo per mezzo dello Spirito.

Quello che è vero della Bibbia è vero dei sinodi, i quali, come la Bibbia, esprimono in simboli ciò che trascende i simboli stessi, ciò che è stato conosciuto solo da chi ha raggiunto la theoria. È per questa ragione che i sinodi fanno appello non solo all’autorità dei Padri nella Bibbia, ma anche a quella dei Padri di tutte le epoche che hanno partecipato alla medesima verità: la gloria di Dio in Cristo.

Per tale ragione papa Leone III disse ai franchi in termini sicuramente non ambigui che i Padri hanno lasciato il Filioque fuori dal Credo non per ignoranza od omissione, ma per ispirazione divina. Comunque, le implicazioni del Filioque franco non sono state accettate da tutti i cristiano-romani nelle province occidentali della Romània conquistata dai franco-latini e dalla loro teologia scolastica. Resti di ortodossia e di pietà romana biblica sono sopravvissuti. In essi la tradizione patristica e le sue ricche implicazioni pongono ancora la spiritualità a base della dottrina situandola, in tal modo, al centro della teologia.


Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Filioque.htm

 

[1] La questione del Filioque ha giocato un importante ruolo nei secoli causando un conflitto tra il mondo franco e quello romano. Il presente studio, originalmente preparato come documento della posizione ortodossa per le discussioni sul Filioque tra ortodossi e anglicani alla riunione della sottocommissione ecumenica a St. Albans in Inghilterra nel 1975 e alla riunione della commissione ecumenica a Mosca nel 1976, viene qui pubblicato e adattato come terza parte dell’opera. Nella sua prima versione è stato pubblicato in Kleronomia, 7, 1975, pp. 285-312. In seguito lo studio è stato ristampato ad Atene nel 1978.

[Neppure oggi la questione del Filioque è scontata. In ambito cattolico si pubblicano ancora dei libri a carattere scientifico che non rispettano il dato storico o, quanto meno, sono ben poco chiari. Un esempio di questo genere lo troviamo in: Confessioni di fede delle Chiese cristiane, a cura di Romeo Fabbri, Dehoniane, Bologna 1996. A p. 4 di tale manuale il testo del Credo niceno-costantinopolitano viene riportato con il Filioque senza alcuna differenziazione grafica che evidenzi filologicamente l’inserzione a posteriori (come d’altronde è stato correttamente fatto in H. Denzinger-A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Herder, Barcinone-Friburgi Brisgoviae-Romae MCMLXXVI26, p. 67). Il commento non aiuta a far comprendere che nell’edizione originale il Filioque era assente. Si scrive infatti: “[Il Credo]... è diventato parte integrante delle liturgie ortodosse e latine, con la sola variante della cosiddetta clausola del Filioque per le chiese ortodosse”. Con un concetto così vago e davanti ad un testo nel quale compare il Filioque chiunque, a digiuno di simili argomenti, può essere indotto a pensare che esso fosse presente nell’edizione originale e che le Chiese ortodosse lo abbiano tolto. Si riesumerebbe, così, uno dei capi d’accusa sostenuti dal cardinal Umberto di Silvacandida il quale, com’è noto, depose la bolla di scomunica sull’altare della cattedrale di santa Sofia nel 1054. È pure errata, o quanto meno imprecisa, la seguente affermazione stampata su un altro manuale scientifico cattolico: “Leone III... non accolse la richiesta [franca del Filioque] non perché rifiutasse la domanda, ma perché aveva riguardo ad aggiungere qualcosa al Simbolo com’era tramandato”. H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, a cura di P. Hünermann, Dehoniane, Bologna 1996, pp. 88-89. Ben altra spiegazione viene illustrata nel serio e rigoroso studio storico di Vittorio Peri da me citato nella nota 5. È invece indubbiamente oggettivo il testo del Credo riportato in Conciliorum Œcumenicorum Decreta, Dehoniane, Bologna 1996, p. 24. Naturalmente è senza il Filioque. N.d.c.]

[2] A questo proposito, il secondo capitolo del mio studio J. S. Romanides, Romeosyni, Romania, Roumeli, Thessaloniki 1975, mostra un uso impreciso delle fonti da parte di François Dvornik, George Every e Steven Runciman.

[3] [È certo che l’immediata chiarezza semantica del termine “procedere” non è stata recepita contemporaneamente e dappertutto. I franchi gli attribuirono il significato atemporale ma coinvolsero la processione nella persona del Figlio. Perciò è nata una tagliente polemica tra franchi e romani, polemica che gli interessi politici sottesi a tale termine hanno drammaticamente aggravato. Ci troviamo, così, davanti a due posizioni teologiche decisamente contrapposte. Ben diversa è la posizione toletana la quale, nonostante ciò, viene alcune volte richiamata per giustificare quella franca. Vedi a tal proposito la nota 6. N.d.c.]

[4] PL 102, 971 ss.

[5] [La conoscenza e la coscienza ecclesiale che il Simbolo coralmente canonizzato da tutta le Chiesa non potesse essere modificato senza il previo consenso della stessa, impediva Leone III di aderire alla proposta teologica franca. “ ...Il diritto speciale di intervento del Papa romano, per la salvaguardia dell’unità della fede ortodossa e della comunione di carità tra le Chiese, non può, almeno in coerenza con l’antica concezione sinodale, spingere la sua iniziativa oltre l’invalicabile omogeneità del dogma, o fino all’unilaterale modifica, per la propria o per le altre Chiese, della professione di fede ufficiale o di prescrizioni disciplinari universalmente approvate, che abbiano ottenuto l’adesione ecumenica delle Chiese e, in primo luogo, il formale consentimento dei Patriarcati”. Cfr. V. Peri, Pro amore et cautela orthodoxae fidei in “Rivista di storia e letteratura religiosa”, 1976, p. 352. N.d.c.]

[6] In H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, a cura di P. Hünermann, Dehoniane, Bologna 1996, il Filioque compare nei seguenti sinodi toletani: al primo (n. 188), al terzo (n. 470), al quarto (n. 485), al sesto (n. 490), all’undecimo (n. 525) e al sedicesimo (n. 569).

[Utilizzando solo le informazioni appena citate si potrebbe contraddire l’Autore. Da queste, infatti, pare che il termine procedere assuma a Toledo un significato atemporale. Tuttavia, attraverso gli elementi forniti dallo stesso Autore e ponendo maggiore attenzione a qualche passo conciliare, si possono esporre le seguenti osservazioni. L’undecimo sinodo toletano specifica che lo Spirito Santo “... procede da ambedue [le Persone divine]; giacché viene riconosciuto come carità o santità di ambedue” (n. 527). L’Autore mostra con proprietà e chiarezza l’inesattezza di tale formulazione. Lo Spirito essendo un’hypostasis, cioè una persona, non è quanto è comune alle altre due persone (la carità e la santità) anche se ha ciò che è comune alle altre due. È quindi verosimile che i padri sinodali di Toledo non avendo colto con precisione il significato dei termini utilizzati a Nicea e Costantinopoli abbiano introdotto il Filioque nell’urgenza di combattere l’eresia adozionista dilagante. Tuttavia, a differenza dei franchi, essi non hanno mai utilizzato né hanno modificato la formula niceno-costantinopolitana. Nelle intenzioni essi erano addirittura in perfetta sintonia con “... tutte le asserzioni che il concilio di Nicea..., l’adunanza di Costantinopoli... e l’autorità del primo concilio di Efeso decise[ro] di accettare... “ (n. 575). Per questo Toledo rimane un capitolo a parte che non può essere confuso con l’attività dei teologi franchi tesi ad imporre una regula fidei in contrapposizione ai “greci”. Il tentativo di giustificare il Filioque, indicandolo come un elemento facente parte “della tradizione teologica latina da ultimo espressa nel concilio provinciale di Toledo (589)”, non rende giustizia alla complessa verità storica. Cfr. a tal proposito S. Piussi, Il concilio di Cividale nella storia dell’impero carolingio in Comitato diocesano per il 12° centenario del concilio di Cividale, Il concilio di Cividale 796-1996. Storia e attualità, Arti grafiche friulane, Udine 1996, p. 56. N.d.c.]

[7] Augustinus Hipponensis, De fide et symbolo, XIX.

[8] [Per Agostino lo Spirito procede da tutte le due Persone (de utroque) senza distinzione di tempo. “Filius autem de Patre natus est, et Spiritus Sanctus de Patre principaliter, et ipso sine ullo intervallo temporis dante, communiter de utroque procedit”. Cfr. Augustinus Hipponensis, De Trinitate, XV, 26, 47. N.d.c.]

[9] Augustinus Hipponensis, De fide et symbolo, XIX.

[10] Ibidem, XX.

[11] [L’identificazione agostiniana dello Spirito Santo nell’amore che si scambiano il Padre e il Figlio ricorre parimenti nel Commento al Credo di Tommaso d’Aquino, scritto nel 1273. Lo cito data l’importanza che la teologia tomista ha assunto nell’ambito del cattolicesimo.

“... Spiritus sanctus est eiusdem substantiae cum Patre et Filio: quia sicut Filius est Verbum Patris, ita Spiritus sanctus est amor Patris et Filii; et ideo procedit ab utroque; et sicut Verbum Dei est eiusdem substantiae cum Patre, ita et amor cum Patre et Filio. Et ideo dicitur: “Qui ex Patre Filioque procedit”. Unde et per hoc patet quod non est creatura.” Thomae Aquinatis, In symbolum apostolorum expositio, 116. N.d.c.]

[12] Augustinus Hipponensis, De Trinitate, V, 8, 10; VII, 4-6.

[13] Id., De fide et symbolo, XX.

[14] Ibidem, XIX.

[15] Augustinus Hipponensis, De Trinitate, II, prooemium.

[16] Gregorii Theologi, Orationes theologicae, II, 4.

[17] [Cosa sia precisamente sotteso al termine “Rivelazione” è rinvenibile più avanti. N.d.c. ]

[18] Ibidem, II, 3.

[19] [La classica posizione della teologia della Chiesa cattolico-romana su tale materia è rinvenibile nella sintetica espressione del dizionario di teologia dogmatica Parente-Piolanti-Garofalo alla voce “Filioque”: “È il termine che la Chiesa cattolica adopera nel Credo: “Qui (Spiritus) ex Patre Filioque procedit” per significare che lo Spirito Santo ha origine dal Padre e dal Figlio insieme”. P. Parente-A. Piolanti-S. Garofalo, Dizionario di Teologia dommatica, Studium, Roma 1957, p. 165.

Da tale posizione la Chiesa cattolica non può allontanarsi facilmente. Infatti se ciò avvenisse si potrebbe sospettare l’implicita ammissione d’un errore in una materia dove viene rivendicata l’infallibilità dell’insegnamento. Più sopra ho già riportato la posizione tomista che si muove nella stessa direzione. L’attuale teologia cattolico-romana non si è allontanata dai suoi presupposti tradizionali. A titolo di puro esempio e nella prospettiva d’una migliore conoscenza teologica dell’Occidente cattolico-romano riporto alcune considerazioni che, nel contesto dell’attuale studio, assumono un particolare interesse. Il corsivo da me introdotto su qualche parola sottolinea i passi più interessanti che segnalano, quanto meno, la necessità di una comprensione più profonda della pneumatologia orientale.

“Il concilio di Costantinopoli del 381 definisce allora la divinità e la personalità dello Spirito... ma non si precisa il rapporto tra il Figlio e lo Spirito: lacuna questa che peserà in seguito nel dibattito fra l’oriente e l’occidente... lo Spirito santo è la comunione, in certo senso “la società del Padre e del Figlio”... Si è notato che... per lo Spirito santo abbiamo solo la nozione comune di “processione” e l’idea di “spirito”, che di per sé non esprime una “opposizione relativa” di persone... Non si riesce ad accettare facilmente la proprietà e l’originalità della missione dello Spirito santo. Questa tendenza dottrinale spiega un po’ perché mai, all’infuori del trattato sulla Trinità, la teologia latina medievale e moderna non abbia più avuto l’abitudine di dedicare un trattato a parte a ciò che riguarda la pneumatologia... [Tuttavia riconsiderando tale realtà] l’intelligenza del mistero dello Spirito si può ottenere cogliendo il suo dinamismo in un unico circolo reso possibile dalla mediazione del Cristo”. Cfr. AA.VV. Nuovo dizionario di teologia, a cura di G. Barbaglio-S. Dianich, ed. Paoline, Alba 1979, voce “Spirito Santo”, pp. 1546-1556. N.d.c.]

[20] Augustinus Hipponensis, De Trinitate, XI, 3.

[21] J. N. Karmiris, Ta Dogmatika kai Symbolika mnemeia tes Orthodoxou Katholikes Ekklesias, Athens 1966, 1, p. 325.

[22] Ibid., p. 324.

[23] Gregorii Theologi, Orationes theologicae, V, 8.

[24] [A tal proposito si vedano i critici giudizi sulle interpretazioni giudaiche inerenti al salterio in Il salterio della tradizione, versione del salterio greco dei LXX, a cura di Luciana Mortari della Comunità di Monteveglio, Gribaudi, Torino 1983, alle pagine 27-36. N.d.c.].

 

 

 

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