LA PENITENZA DI TEODOSIO

dalla STORIA ECCLESIASTICA[1] di Teodoreto di Ciro

 

Tessalonica è una città grandissima e molto popolosa, appartenente alla provincia di Macedonia, ma capitale della Tessaglia, della Acaia e di moltissime altre province, quante dipendono dal governatore dell’Illiria. Durante una ribellione verificatasi in quella città, alcuni magistrati furono percossi e lapidati. L’imperatore, infiammato da questa notizia, non riuscì a dominare l’impeto della collera, e non ne trattenne la foga neppure col freno della ragione, ma alla collera si rivolse per stabilire la punizione. Con un arbitrio tale, quale è quello dispotico e tiranno che ha spezzato ogni legame e sfugge al giogo della ragione, snudò la spada ingiusta contro tutti e uccise gli innocenti insieme coi colpevoli. Settemila uomini infatti, a quanto dicono, furono assassinati, senza che vi fosse stato prima un processo, senza una discriminazione rispetto a quelli che avevano osato commettere il delitto, come nella mietitura si tagliano insieme tutte le spighe. Ambrogio venne a conoscenza di questa tragedia carica di gemiti.

Quando l’imperatore giunse a Milano e volle entrare, come al solito, nel tempio di Dio, gli andò incontro fuori dal protiro e gli impedì di entrare sotto i portici della chiesa con queste parole: «A quanto pare tu ignori, o imperatore, la gravita dell’omicidio che hai commesso, né, cessata la collera, la ragione ha riconosciuto la tua temerarietà; forse la potenza imperiale non permette di riconoscere la colpa, e il potere acceca la ragione. Bisogna tuttavia che tu consideri la nostra natura, il fatto che è mortale e transeunte, e la polvere originaria da cui siamo nati e a cui ci avviamo a ritornare; e che non ignori, tratto in inganno dallo splendore della veste di porpora, la debolezza del corpo che vi è celato. Tu governi, imperatore, su persone della tua stessa natura, anzi su compagni di schiavitù; infatti il solo Signore e sovrano di tutti è il Creatore dell’universo. Con quali occhi, dunque, guarderai il tempio del comune Signore? Con quali piedi calpesterai quel suolo santo? Come tenderai le mani ancora gocciolanti del sangue dell’iniquo assassinio? Come riceverai il sangue prezioso nella tua bocca, che, con le parole dettate dalla collera, ha fatto versare tanto sangue ingiustamente? Vattene dunque, e non osare aggiungere altre iniquità alla prima; accetta il legame, a cui consente dall’alto Dio, il Signore dell’universo: ti guarisca e ti procuri la salute».

A queste parole l’imperatore si ritirò (allevato negli insegnamenti divini, infatti, conosceva chiaramente che cosa fosse prerogativa dei sacerdoti, e che cosa degli imperatori) e, gemendo e piangendo, ritornò al palazzo. Molto tempo dopo (erano trascorsi infatti otto mesi) ricorse la festa del Natale del nostro Salvatore; l’imperatore se ne stava a gemere nella reggia, versando torrenti di lacrime. Vedendo ciò Rufino (era allora maestro di palazzo e godeva di molta libertà di parola perché era familiare dell’imperatore) si fece avanti e chiese il motivo delle lacrime. Egli gemette amaramente e versò ancora più lacrime, dicendo: «Tu sì, Rufino, che puoi rallegrarti: infatti non soffri i miei mali. Ma io gemo e mi lamento per la mia sventura, pensando che il tempio divino è aperto ai servi e ai mendicanti, ed essi vi entrano senza timore e vi incontrano il loro Signore, mentre a me il tempio è inaccessibile e, oltre a ciò, il cielo mi è chiuso. Ricordo infatti la voce del Signore che dice chiaramente: Ciò che legherete sulla terra sarà legato nei cieli»[2]. E quegli: «Se credi, correrò dal vescovo e cercherò di persuaderlo con suppliche insistenti a scioglierti dai legami». «Non si lascerà persuadere, rispose l’imperatore, so infatti che la decisione di Ambrogio è giusta e che egli non infrangerà la legge divina per rispetto al potere imperiale». Poiché Rufino con molte altre parole gli promise di cercare di convincere Ambrogio, l’imperatore lo esortò ad affrettarsi; ed egli stesso, ingannato dalla speranza, lo seguì poco dopo, fidando nelle promesse di Rufino. Ma appena il divino Ambrogio vide Rufino, disse: «Tu imiti l’impudenza dei cani, Rufino. Tu, che sei stato consigliere di un così grave assassinio, hai cancellato la vergogna dal volto e non arrossisci né temi, mentre tanto hai infuriato contro l’immagine di Dio». Dopo che Rufino gli si fece innanzi e annunciò che l’imperatore era in arrivo, infiammato da divino zelo, Ambrogio, l’ispirato da Dio, esclamò: «Io, Rufino, ti preavviso che gli impedirò di varcare la soglia della chiesa; e, se vuoi mutare l’impero in tirannide, riceverò anch’io con piacere la morte». Udito ciò, Rufino fece sapere per mezzo di un messaggero all’imperatore l’intenzione del vescovo e gli consigliò di restare nel palazzo.

L’imperatore apprese questa notizia in mezzo alla piazza: «Vado, disse, e accetterò i giusti oltraggi». Quando però raggiunse il recinto del santuario, non entrò nel tempio di Dio, ma, presentandosi al vescovo (costui sedeva nella sala di ricevimento), lo supplicò di scioglierlo dal legame. Ma questi tacciò di tirannia la sua intrusione e affermò che Teodosio si comportava come un pazzo contro Dio e calpestava le sue leggi. L’imperatore rispose: «Io non disprezzo le leggi stabilite, né cerco di penetrare ingiustamente nel tempio, ma ti supplico di sciogliermi dai legami, di considerare la bontà del comune Signore e di non chiudere a me la porta che il Signore ha aperto a tutti quelli che si pentono». E il vescovo: «Quale pentimento hai dunque dimostrato dopo una così grave iniquità? Con quali rimedi hai curato le ferite difficili da guarire?». «È tuo compito, rispose l’imperatore, mostrare e dosare i rimedi, mio invece accogliere quanto proponi». Allora il divino Ambrogio disse: «Poiché tu rimetti il giudizio alla collera, e non la ragione ma la collera emette la sentenza, scrivi una legge che dichiari vane ed inefficaci le decisioni dettate dalla collera. E le sentenze riguardanti una pena di morte o una confisca restino in attesa di applicazione per trenta giorni, per ricevere il giudizio della ragione. Trascorso questo tempo, coloro che hanno messo per iscritto la sentenza mostrino il decreto. Allora, cessata la collera, la ragione, giudicando da sé, esaminerà la sentenza, e vedrà se è giusta o ingiusta. E se la troverà ingiusta, è chiaro che distruggerà quanto è stato scritto; se la troverà giusta, la confermerà, e il numero dei giorni non danneggerà la retta sentenza». L’imperatore accolse questa proposta e, sembrandogli ottima, ordinò che la legge fosse subito scritta e la confermò con la propria firma. Dopo di che il divino Ambrogio sciolse il legame.

Così l’imperatore dalla profonda fede osò penetrare nel tempio di Dio, e non supplicò il Signore stando ritto, né piegando i ginocchi, ma giacendo prono sul pavimento pronunciò queste parole di David: L’anima mia è prostrata al suolo, dammi vita secondo la tua parola[3], strappandosi con le mani i capelli, percotendosi il volto e bagnando il suolo con le gocce delle sue lacrime, pregava per ottenere il perdono. Quando poi giunse il momento di portare le offerte alla sacra mensa, levatosi, sempre piangendo entrò nel presbiterio; fatta l’offerta, come soleva, restò all’interno, oltre i cancelli. Ma di nuovo il grande Ambrogio non tacque, bensì gli insegnò la differenza dei posti nella chiesa. Anzitutto gli chiese che cosa volesse; avendogli l’imperatore risposto che attendeva di partecipare ai misteri divini, gli comunicò per mezzo del primo diacono: «Il presbiterio, o imperatore, è accessibile solo ai sacerdoti, per tutti gli altri è inaccessibile e inviolabile; esci dunque, e prendi posto insieme con gli altri; la porpora rende imperatori, non preti». L’imperatore molto credente accolse di buon grado questo invito e rispose che non si era soffermato all’interno dei cancelli per temerarietà, ma perché aveva appreso questo uso a Costantinopoli: «Ti sono grato, disse, anche di questa medicina».

Di tale e così grande virtù rifulsero il vescovo e l’imperatore: entrambi infatti io ammiro, l’uno per la sua libertà di parola, l’altro per la sua umiltà, l’uno per l’ardore del suo zelo, l’altro per la purezza della sua fede. E queste norme religiose, che aveva appreso dal grande vescovo, le praticò anche dopo il ritorno a Costantinopoli. Infatti, avendolo una festa religiosa indotto a recarsi di nuovo al tempio di Dio, dopo aver portato le offerte alla sacra mensa, subito tornò indietro; e quando il vescovo della chiesa (era allora Nettario) gli domandò: «Perché mai non sei rimasto dentro?», rispose sdegnato: «Con fatica ho imparato la differenza tra imperatore e sacerdote, con fatica infatti trovai un maestro di verità. So che Ambrogio soltanto è degno di essere chiamato vescovo». 

Trad. di M. Morani e G. Regoliosi


 

[1] 5, 17.

[2] Cfr. Matteo 16, 19 e 18, 18.

[3] Salmo 118, 25.



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