La desacralizzazione del creato

 

Renato D’Antiga

 

 

Molti si sono espressi sulla salvaguardia del creato.

Non tutti, però, sono in grado di mostrare che IL MODO secolarizzato in cui l’uomo si RAPPORTA con la natura nasce da un cammino che scaturisce da alcune radici cristiane deviate. Questo lo cogliamo più o meno esplicitamente da una parte dell’intervento di Renato D’Antiga a Terni il 6 giugno del 2006 nel quadro di un dibattito interconfessionale sulla Carta Ecumenica.

Ecco la parte centrale di tale intervento.

 

 

Tra la fine dell’XI secolo e lo scorrere del XII, il rapido sviluppo degli studi giuridici e quello della teologia mutò rapidamente il volto della cristianità occidentale. Dopo l’utilizzazione della dialettica per l’esplicazione dei misteri cristiani, nel XII secolo, l’assunzione delle categorie logiche, trasformò la teologia in scienza[1] e diede origine ad una nuova visione antropologica che contribuì a separare definitivamente il cuore dell’uomo, sede del Logos, dalla propria mente trasformata in pura ratio, dando così inizio ad un movimento dell’essere proiettato interamente verso l’esteriorità, ossia la mondanità, che nella civiltà contemporanea l’uomo manifesta attraverso la propria vacuità interiore.

La concettualizzazione dell’essere, operata dai grandi sistemi della filosofia tardomedioevale, ha espropriato l’uomo della propria esperienza, ossia del proprio vissuto. D’altronde, se la storia della filosofia occidentale, come riteneva il filosofo M. Heidegger, è la storia della rimozione dell’Essere è ovvio che ogni sua manifestazione venga esautorata dal valore intrinseco che possiede. La vita in questo modo è rimossa attraverso il conseguimento mentale della sua oggettivizzazione.

Nel corso del XIV secolo l’eccesso razionalistico che dominava la filosofia scolastica venne travolto da un diffuso e corrosivo scetticismo filosofico. Il pensiero di Ockam utilizzò sistematicamente il dubbio nella sua metodologia, dando espressione ad una teologia prettamente nominalista. Non a caso il pensiero di Ockam mostrò un vivo interesse per le scienze naturali. I seguaci di questa filosofia scettica, dopo aver dissolto con le loro critiche il razionalismo della scolastica, preferirono rivolgere i loro studi verso interessi non speculativi, ma pratici. Si occuparono, infatti, di meccanica e realizzarono delle scoperte che diedero un contributo rilevante al capovolgimento scientifico attuatesi nel XVII secolo.

Nel periodo della rinascenza, nonostante l’insorgere di filosofie neoplatoniche, ermetiche e naturalistiche, l’uomo era già legato alla terra, perché l’utilizzo delle categorie filosofiche nell’ambito della teologia avevano ormai innescato un inarrestabile processo di umanizzazione del divino che finì poi per sostituire Dio con l’uomo, ponendo quest’ultimo al centro dell’universo. L’uomo divenne così avido di tempo, ma non di vita[2].

La concezione antropologica elaborata dalla rinascenza accelerò la desacralizzazione del cosmo, in seguito percepito non più come creazione divina, ma come mera datità o pura cosalità. Tutto ciò si realizzò pienamente nella filosofia deista, perché in essa Dio verrà definitivamente separato dalla sua opera. Nel XVII secolo, infatti, venne elaborata la nuova astronomia, percepita dai contemporanei come una profanazione del creato, perché essa descriveva solamente l’aspetto fenomenico dell’universo tralasciando quello di carattere spirituale. La nuova concezione dell’universo trovò la sua collocazione appropriata nella res extensa cartesiana che ridusse le differenziazioni del cosmo a pura quantità, rendendole misurabili, e avviando un processo di matematizzazione del cosmo che è proseguito anche nel sapere scientifico contemporaneo.

Il pensiero francese del XVIII secolo solcò inesorabilmente le orme tracciate da Cartesio, come dimostra lo scritto di J. O. De Lamettrie che porta alle estreme conseguenze le sue elaborazioni che vedevano negli animali dei puri congegni meccanici[3]. Le filosofie di Hume e di Kant, ritenendo impossibile la conoscenza noumenica, cominciarono a vedere la verità come tale in base alla sua possibile utilità. Da esse sorse il quesito intorno a ciò che l’uomo avrebbe potuto ricavare da un simile tipo di conoscenza, originando quello che è stato in seguito definito il pensiero calcolante.

Gli esiti ideologici della rivoluzione francese approdarono ad una concezione materialistica della natura, che unitamente all’avidità umana eccitata dall’utilitarismo, misero in pratica i loro principi anticristiani accentuando sempre più il carattere empirico della scienza attraverso la sua riduzione tecnologica.

“Con l’aiuto di questa nuova scienza il solo compito rimasto all’uomo fu quello di conquistare e di dominare la natura e di secondare i propri bisogni come un animale dotato in qualche modo di una ragione analitica e di pensiero”[4].

La reazione romantica rimase velleitaria e circoscritta all’ambito letterario e artistico e venne ben presto travolta dal totalizzante storicismo hegeliano che racchiuse il senso della storia nei limiti dello spazio e del determinismo del tempo, privando l’uomo del rapporto personale con Dio, sostituito da una Ragione divenuta storia. Contemporaneamente in campo scientifico abbiamo l’imporsi dell’evoluzionismo, che sotto certi aspetti avanza di pari passo con lo storicismo, perché nel suo sviluppo teorico tende a ridurre ciò che è superiore a ciò che è inferiore.

 

[…]

 

[1] M.D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, Milano 1985; ID., Il risveglio della coscienza medioevale, Milano 1982; E. Gilson, Lo spirito della filosofia medioevale, Brescia 1983; R. e A. J. Carlyle, Il pensiero politico medioevale, Bari 1956.

[2] Vedi il sonetto 272 del Canzoniere del Tetrarca e quello 24 della seconda parte de Les Amours di Ronsard dedicati a Helène.

[3] J. O. De Lamettrie, L’uomo macchina e altri scritti a cura di G. Preti, Milano 1973.

[4] S. Hossein Nasr, L’uomo e la natura, Milano 1977, p. 74.

 

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