Archimandrita PLACIDE DESEILLE
NOZIONE DI
“SPIRITUALITà”
(Tratto da: La spiritualità cattolica-romana e la tradizione ortodossa,
Monastero sant’Antonio il Grande, pp. 3-5).
Nel cattolicesimo romano, la spiritualità, che il Littré definisce: “Tutto quello che ha rapporto con gli esercizi interiori in un’anima liberata dai sensi, che non cerca altro che perfezionarsi agli occhi di Dio”, è divenuto l’oggetto di una particolare disciplina, distinta dalla teologia dogmatica e dalla teologia morale, approssimativamente dal XIII secolo.
Quello che ha maggiormente contribuito a distanziarla dalla teologia dogmatica è stato l’arrivo, nel XII secolo, del metodo scolastico nella teologia. Con Tommaso d’Acquino, essa si è costituita in scienza, secondo l’accezione aristotelica del termine, ossia in una forma di conoscenza in cui lo spirito umano cerca di acquisire una certa intelligenza dei dati di fede usando dei procedimenti di definizione e di ragionamento elaborati dalla filosofia. Una tale scienza è essenzialmente disinteressata e si completa per il fatto di comprendere, di conoscere ragioni e cause, anche se i principi sui quali si fonda non sono evidenti per se stessi e non possono essere raggiunti che attraverso la fede. Questo tipo di conoscenza è, in tal senso, il suo proprio fine e non è ordinato in quanto tale, al perfezionamento dell’anima.
D’altra parte, la distinzione stabilita tra la spiritualità e la teologia morale deriva dalla tendenza, più evidente in Occidente che nel mondo greco, di distinguere i semplici cristiani, che seguono la via dei precetti, da coloro che tendono alla perfezione e che sono stati generalmente identificati con i religiosi. La generalizzazione della confessione personale, formalmente distinta dalla direzione spirituale, accentuerà questa tendenza incitando i pastori d’anime a costituire, per l’uso dei confessori, una scienza morale pratica, che precede la spiritualità.
Il mondo ortodosso non ha conosciuto queste dissociazioni fino a tal grado. Le Chiese ortodosse sono sempre rimaste molto omogenee al cristianesimo del periodo patristico. Al di fuori dei piccoli circoli, influenzati dal cattolicesimo romano, esse hanno ignorato il metodo scolastico. Bisogna senz’altro assegnare a questo fatto una ragione propriamente dottrinale. Effettivamente in Occidente si riteneva, seguendo sant’Agostino, che l’essenza di ogni creatura ha il suo fondamento nella stessa essenza divina. Così lo stabilito rapporto tra essenza divina ed essenze create autorizzava una ardita trasposizione della dottrina di Dionigi Areopagita, con la quale si fondevano le vie negative e si affermava la conoscenza di Dio. Si pensava possibile applicare a Dio e alle realtà divine nozioni filosofiche in senso proprio (conoscenza “affermativa”, “catafatica”), negando solo il modo limitato della loro realizzazione nelle creature (conoscenza “negativa”, “apofatica”). Per l’Oriente, al contrario, Dio è “al di là dell’essenza”, e le essenze create hanno il loro fondamento nelle energie divine, nei “pensieri-volontà” di Dio, non nell’essenza divina. Questo esclude un uso così rigoroso dell’analogia nella teologia.
D’altra parte, la teologia dei Padri della Chiesa – alla quale l’Ortodossia resta attaccata – è stata elaborata nel contesto delle grandi lotte cristologiche e non aveva altro fine che quello di salvaguardare all’uomo la possibilità di giungere alla salvezza. Questa salvezza consiste nella “deificazione” dell’uomo, nella sua piena partecipazione alla vita divina, nello sviluppo totale della grazia del battesimo e dei sacramenti, grazie alla cooperazione della libertà umana.
Così, nell’Ortodossia non si può produrre alcuna separazione tra la spiritualità, la teologia e l’etica comune. Non esiste realmente una “spiritualità” quanto piuttosto una dottrina dell’agire cristiano che discende dall’insegnamento dogmatico e che traduce l’esperienza dei santi, dei maestri spirituali che hanno percorso le vie dell’unione con Dio e di questa deificazione dell’uomo che è il fine di tutta l’economia della salvezza.